Ogni anno le pubbliche amministrazioni europee spendono circa 2.000 miliardi di euro in beni, servizi e lavori, pari a circa il 14% del PIL dell’Unione Europea. “Una cifra enorme, che potrebbe diventare uno dei principali motori della transizione ecologica, dell’innovazione industriale e dello sviluppo dei territori”. Per questo è essenziale che questa spesa tenga conto di criteri ambientali e sociali oltre che di economicità. Nasce per questo la campagna BESA – Buy European and Sustainable Act, coordinata da Fondazione Ecosistemi. “Immaginate cosa accadrebbe se anche solo una parte di questa spesa fosse destinata a prodotti sostenibili, innovativi e made in Europe: le nostre città e le filiere industriali potrebbero ridurre milioni di tonnellate di CO₂, migliaia di nuovi posti di lavoro locali potrebbero nascere, le filiere europee diventerebbero più resilienti e sicure e le imprese che producono rispettando ambiente e diritti dei lavoratori otterrebbero un vantaggio competitivo concreto”, afferma la campagna.
E visto che è in corso il processo di revisione della normativa europea sugli appalti, invita eurodeputati e eurodeputate italiane a sostenere criteri che “premino le imprese che producono in Europa, rafforzando il lavoro locale, e che rispettino limiti rigorosi di emissioni di CO₂ nei settori chiave come edilizia, trasporti, energia e alimentazione”. Noi cittadine e cittadini possiamo incoraggiarli firmando la petizione “Premiamo le imprese verdi che creano lavoro in Europa!”
EconomiaCircolare.com ha intervistato Sabina Nicolella, Responsabile nazionale della campagna BESA e responsabile relazioni e progetti internazionali di Fondazione Ecosistemi.
Sabina Nicolella, come nasce la campagna e qual è il suo obiettivo? Qual è stata fin qui l’accoglienza da parte delle e degli europarlamentari italiani?
La campagna BESA nasce da un’idea semplice ma potente: utilizzare il potere della spesa pubblica, che in Europa vale circa il 14% del PIL, per guidare la transizione ecologica e rafforzare la competitività europea. L’obiettivo è introdurre due vincoli chiari nella riforma della Direttiva Appalti: una soglia emissiva negli acquisti pubblici strategici e una quota minima di prodotti realizzati in Europa.
Finora, l’accoglienza da parte degli europarlamentari italiani è stata diversificata: c’è interesse trasversale, ma anche resistenze legate a posizioni più critiche verso il Green Deal. Il nostro lavoro è proprio quello di costruire un consenso politico ampio, traducendo BESA in termini di benefici per industria, lavoratori e comunità locali, non solo per l’ambiente.
Come è possibile assicurare nel concreto che comprare europeo e comprare sostenibile possano coincidere?
La proposta BESA si fonda su uno studio elaborato da Carbone 4 insieme a partner europei, che dimostra come l’introduzione di due criteri – un tetto alle emissioni climalteranti negli appalti pubblici e una quota minima di prodotti europei – possa ridurre drasticamente le emissioni di CO₂ e, al contempo, sostenere l’economia e l’occupazione in Europa.
Questo è particolarmente rilevante se si considera che l’economia europea è già tra le più efficienti al mondo in termini sia di intensità energetica (energia per unità di PIL) sia di uso di materie prime grazie a politiche di efficienza, all’uso crescente di rinnovabili e a un tasso di riciclo superiore alla media globale. Ciò significa che acquistare europeo equivale, in larga misura, ad acquistare prodotti con una minore impronta ambientale rispetto a concorrenti extra-UE.
Un ulteriore elemento di forza è dato dall’attuale capacità del sistema produttivo europeo: nei settori chiave analizzati – acciaio, alluminio, cemento, alimentazione collettiva, veicoli e attrezzature per la mobilità – la produzione europea copre già oltre il 90% della domanda interna. Questo vuol dire che, investendo in tecnologie verdi e accompagnando tali investimenti con la garanzia di una domanda pubblica orientata a criteri ambientali, l’industria europea è nelle condizioni di soddisfare progressivamente la quasi totalità della domanda pubblica sostenibile.
In altre parole, non si tratta di “creare da zero” una filiera, ma di rafforzare un tessuto industriale già solido, indirizzandolo verso standard ambientali più elevati grazie al ruolo guida della spesa pubblica.

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Il ruolo degli acquisti verdi della Pubblica Amministrazione è ribadito con forza anche dal Regolamento Ecodesign (ESPR): che aspettative avete da questo provvedimento e come intreccia i temi della campagna?
L’ESPR rappresenta un tassello fondamentale, perché stabilisce standard più stringenti di sostenibilità per i prodotti immessi sul mercato europeo. Insieme a BESA, può creare un effetto leva molto forte: se i prodotti devono già rispettare criteri ecodesign, la PA potrà indirizzare i propri acquisti verso beni che sono al tempo stesso europei e sostenibili, rafforzando la coerenza tra politiche industriali e ambientali.
Ci auguriamo che si vada anche oltre: è tutte le diverse normative europee che incidono sull’industria dal punto di vista ambientale siano coerenti, dalla Tassonomia ambientale, all’ESPR, al regolamento ETS/CBAM, alla CSRD fino ad arrivare a tutti i pacchetti di normative settoriali. Per l’industria è fondamentale avere limiti certi e prevedibili verso cui muoversi con la gradualità necessaria. Spesso parliamo di investimenti ingenti, che richiedono orizzonti chiari e coerenti: fissare dei limiti non basta, bisogna anche rimuovere ostacoli derivanti da incoerenze tra settori legislativi e sostenere le imprese nella transizione con strumenti economici e regolatori adeguati.
Si può coniugare il ruolo chiave della PA nel raggiungimento degli obiettivi climatici, e nel facilitare la transizione ecologica in generale, con i programmi comunitari per il riarmo?
La PA deve continuare a giocare un ruolo guida nella transizione ecologica, perché senza un orientamento forte degli appalti pubblici non si raggiungeranno gli obiettivi climatici europei. Allo stesso tempo, anche la Pubblica Amministrazione deve essere maggiormente responsabilizzata. Troppo spesso i dipartimenti interni non dialogano a sufficienza: gli obiettivi di Green Public Procurement (GPP) devono invece essere integrati nel quadro più ampio degli obiettivi climatici e contribuire in maniera diretta al loro raggiungimento. Le PA, così come i governi, devono rispondere dei risultati raggiunti o mancati in termini di contributo al Green Deal e agli obiettivi climatici europei, anche in relazione agli appalti e alla spesa pubblica in generale.
In generale, quali sono i fattori prioritari per rilanciare il GPP e renderlo effettivamente un elemento trasformativo dell’economia europea e italiana?
A livello europeo, il primo passo fondamentale è inserire criteri ambientali vincolanti per tutti gli Stati membri. L’Italia rappresenta ancora oggi un’eccezione positiva, avendo reso obbligatorio il GPP già da 10 anni su più settori: occorre che questa esperienza diventi la norma a livello comunitario.
Accanto a questo, è necessario accoppiare la spesa pubblica per la transizione ecologica con la crescita dell’economia europea, introducendo un criterio localizzativo che favorisca le imprese capaci di generare occupazione e valore aggiunto in Europa, almeno in alcuni settori chiave. Per farlo bisogna superare il tabù neoliberista che finora ha impedito alle PA di selezionare fornitori anche sulla base della provenienza, come peraltro hanno già fatto altri Paesi, come Stati Uniti, Cina e Canada per citarne solo alcuni. Anzi, in settori come l’agroalimentare, è opportuno incentivare gli acquisti locali, a condizione che i criteri ambientali e sociali siano pienamente soddisfatti (come già previsto in Italia dai criteri premianti previsti dal CAM ristorazione, che premia la filiera corta e il chilometro zero).
Vanno inoltre introdotti sistemi capaci di premiare le imprese che superano i livelli minimi, come avviene in Italia con le premialità del CAM edilizia o in Olanda con la CO₂ Performance Ladder.
Infine, la spesa pubblica deve essere allineata alla Tassonomia Ambientale e le stazioni appaltanti devono rendere conto delle emissioni generate dai propri acquisti, con sistemi di carbon disclosure obbligatoria.
A livello nazionale è inoltre opportuno prevedere l’introduzione graduale di soglie emissive nei settori chiave per la transizione ecologica (edilizia, ristorazione collettiva, mobilità, energia), calibrate sulla maturità del mercato. È necessario inserire requisiti ambientali nei criteri di selezione tecnica degli appalti di lavori pubblici, garantendo che nei cantieri siano presenti figure apicali con competenze di LCA (Life Cycle Assessment).
Parallelamente, occorre accompagnare gli sforzi del settore privato con un piano integrato di sostegno pubblico alla transizione industriale, che colleghi spesa pubblica e supporto alle imprese attraverso incentivi per investimenti in tecnologie low-carbon, formazione tecnica su LCA, EPD, tracciabilità rivolta a PA e imprese e naturalmente maggiori finanziamenti alla ricerca.
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Cosa direste a una persona non particolarmente esperta di sostenibilità per comunicare l’importanza di sottoscrivere la petizione BESA – Buy European and Sustainable Act?
Diremmo che è una questione di semplice buon senso: firmare la petizione significa chiedere che i soldi delle nostre tasse vengano usati per acquistare prodotti che inquinano meno e che creano lavoro in Europa, invece di favorire chi produce lontano e senza rispettare regole ambientali e sociali. Quando i soldi pubblici vengono spesi senza tenere conto degli impatti sull’economia locale e sull’ambiente, in realtà la spesa diventa molto più alta di quello che sembra: oltre al prezzo del bene acquistato, ci ritroviamo a pagare con la sanità e la protezione civile i danni ambientali causati da industrie che non hanno vincoli ambientali, e a sostenere con sussidi chi perde il lavoro per colpa delle delocalizzazioni. Con BESA ogni euro speso dalla Pubblica Amministrazione può invece trasformarsi in un investimento per il clima, per la salute dei cittadini e per un’economia europea più forte e più giusta.
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