Le vicende travagliate dell’ex area industriale di Napoli che oggi conosciamo come SIN Bagnoli-Coroglio ben si prestano a rappresentare simbolicamente le sorti di un territorio e di un’economia di cui oggi vediamo solo i resti. Lì dove un tempo sorgevano e prosperavano colossi dell’industria italiana troviamo scheletri di edifici, relitti di altiforni e brandelli metallici interrati. Perfino alcuni manufatti più recenti, mai inaugurati, contribuiscono al triste spettacolo di quello che è un territorio per diversi aspetti unico. Scavando sotto terra, poi, si trova di tutto.
La sfida che da più di trent’anni attende le comunità che vivono questi luoghi e il sistema politico è complessa. Si tratta di restituire un’area terrestre di 249 ettari e un’area marina di 1453 ettari alla cittadinanza. La bonifica dei suoli, dei riporti e dei fondali marini del golfo è da più parti indicata come il prerequisito fondamentale per qualsiasi progetto di rigenerazione si voglia attuare. Si fa strada, tuttavia, l’idea che le operazioni di bonifica debbano essere progettate proprio sulla base di ciò che dovrà divenire, al fine di garantire un uso efficiente delle risorse pubbliche ed il minor grado possibile di ulteriore compromissione ambientale.
Per spiegare la complessità dell’opera di bonifica dobbiamo innanzitutto considerare che sull’area si sono avvicendate un gran numero di stabilimenti industriali. In epoche diverse si sono prodotti acciaio, cemento, fertilizzanti, vetro. Ciascuna di queste attività ha contribuito col suo carico di contaminanti al degrado ambientale odierno, che è generalizzato, ma eterogeneo e discontinuo nello spazio, ancor più caotico dei suoli naturali sui quali grava.
Poi il fattore tempo: i contaminanti ne hanno avuto parecchio, per spostarsi verso il mare. Dalla dismissione degli impianti ad oggi sono state svolte numerose ricerche sulla loro distribuzione, sui loro movimenti, sulla loro concentrazione. Oggi possiamo dire di avere un quadro abbastanza dettagliato della situazione, proprio grazie alle molte energie profuse per la caratterizzazione del sito.
Infine, il contesto. La bonifica ha dovuto scontrarsi con molteplici criticità di natura amministrativa, finanziaria e sociale che ne hanno senza dubbio ostacolato il percorso, talora interrompendolo bruscamente.
La lunga storia del risanamento
I primi tentativi di operare un risanamento ambientale della piana di Bagnoli si hanno nel 1994, quando la società Ilva in liquidazione S.p.a ne riceve mandato dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE). Due anni più tardi il compito di attuare il Piano di recupero ambientale è affidato all’IRI, il quale crea una società di scopo denominata Bagnoli S.p.a..
I risultati non sono, però, pari alle aspettative. Bagnoli S.p.a. dà priorità alla dismissione degli impianti, operazione finanziariamente sciagurata se messa in relazione con la grande quantità di denaro speso per la ristrutturazione conclusa pochi anni prima, era il 1984, ma necessaria per reperire i fondi mancanti per la bonifica. Parallelamente, la società conduce ricerche sulla contaminazione dei suoli, dalle quali emerge un primo quadro drammatico. Allo scopo di contenere la contaminazione delle acque marine, avvia la realizzazione di una barriera idraulica in corrispondenza della cosiddetta colmata a mare. Nel frattempo, l’area industriale di Bagnoli-Coroglio viene inserita tra i Siti di Interesse Nazionale.
Nel 2002 l’incarico passa alla Società di Trasformazione Urbana Bagnolifutura S.p.a., la quale tra molte difficoltà apre una fase di progettazione sull’area che si traduce nella realizzazione di opere quali la Porta del Parco, il Parco dello sport e l’acquario tematico. Si producono pochi risultati in termini di bonifica, ma molti debiti. L’esito è il fallimento della STU nel 2014. Pochi mesi prima era avvenuto il sequestro preventivo dei cantieri in seguito all’apertura da parte del Tribunale di Napoli di procedimenti penali per diversi reati, tra cui quello di disastro colposo per avvenuta irregolare bonifica che aveva “aggravato l’inquinamento dei suoli” (nel momento in cui si scrive il procedimento è al secondo grado di giudizio).
Il governo, quindi, nomina un commissario straordinario e un nuovo soggetto attuatore, Invitalia. Si arriva così all’assetto attuale: divenuta proprietaria dei terreni e degli immobili, l’agenzia nazionale inizia una nuova fase di programmazione, innanzitutto dotandosi di un documento per tale scopo, il Piano di Risanamento Ambientale e Rigenerazione Urbana, cui segue il relativo stralcio urbanistico che definisce il futuro uso del suolo; si arriva all’apertura del procedimento di VAS. La strategia del PRARU si articola su tre obiettivi generali: il risanamento, le infrastrutture e la rigenerazione. Il primo obiettivo mira al completamento degli interventi di bonifica delle aree a terra (suoli, riporti, acque sotterranee e strutture industriali dismesse), delle aree marine (fondali e colonna d’acqua) e della fascia costiera, tramite la creazione di una nuova linea di costa che preveda la rimozione dell’area di colmata, la bonifica e il ripascimento degli arenili emersi. La relazione getta le basi per molte delle iniziative che saranno messe in atto in anni recenti.
A luglio 2019 il tribunale di Napoli decide per la revoca del sequestro delle aree. La prospettiva della bonifica e della rigenerazione sembra più vicina e infatti si aprono gare di appalto su molti dei lotti dell’area SIN, che vengono aggiudicati. Nel 2017 Invitalia affida il compito di svolgere i lavori del Piano di caratterizzazione integrativa al Consorzio Stabile Research, il quale designa quale ditta esecutrice la consorziata NATURA Srl.
Questa preleva campioni di terreno e acqua a diverse profondità su tutta l’area terrestre del SIN e li analizza in laboratorio. Il confronto coi limiti di legge è impietoso: per quasi tutti gli analiti vengono riscontrati superamenti dei valori di concentrazione soglia di contaminazione (CSC). PCB, IPA e idrocarburi pesanti sono i composti che presentano più superamenti, seguiti da metalli quali Zn, Pb e Hg. Le mappe ottenute per interpolazione dei valori di analisi dimostrano come tutte le aree del SIN sono coinvolte dalla contaminazione, che spesso ha carattere puntiforme o a macchia di leopardo. Il grande parco urbano e la colmata sono le zone più segnate. Si comprende, a seguito di queste analisi, e dopo il calcolo dei valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), che la bonifica dovrà interessare tutta l’area perimetrata, anche le zone dove si era già parzialmente bonificato in passato.
La contaminazione in fondo al mare
Purtroppo presto si scopre che anche la qualità dei fondali marini è compromessa. Il progetto ABBaCo (2016-2020), condotto da un consorzio nazionale formato dalla Stazione Zoologica Anton Dohrn e numerosi partner strategici, fornisce il più recente quadro conoscitivo dello stato ambientale dell’area marina rientrate nel SIN Bagnoli-Coroglio. La caratterizzazione riguarda molteplici parametri fisici, chimici, ecotossicologici, microbiologici e biologici. Dalla ricerca emerge una contaminazione dei sedimenti marini generalizzata, ma particolarmente pesante in corrispondenza dei pontili e della colmata, soprattutto a carico di composti organici quali IPA e di metalli (principalmente As, Zn, Pb, V). La distribuzione di tali composti ed elementi è perlopiù concorde con quanto già rilevato dalle analisi condotte da ISPRA nel 2005. Viene sancita la provenienza antropica degli IPA e dei metalli, mentre per l’arsenico si ipotizza una parziale origine geogenica, vale a dire sotto forma di risalite sottomarine di fluidi tipici delle aree vulcaniche.
Ciò non vuol dire che si possa chiudere un occhio di fronte a quest’ultimo elemento, perché in alcuni campioni le sue concentrazioni sono molto elevate. Interessante è anche lo studio sul bioaccumulo all’interno di mitili e pesci: anche in questo caso, i livelli maggiori vendono rinvenuti per gli IPA e in campioni raccolti in prossimità dei pontili. Ulteriore monito che lanciano i ricercatori riguarda la forte contaminazione documentata in letteratura nell’area del golfo di Pozzuoli non inclusa nella perimetrazione del SIN.
A distanza di otto anni dalla prima stesura del PRARU, proviamo a riassumere lo stato di avanzamento degli interventi di bonifica, focalizzandoci su alcuni tra i molti lotti in cui è stata suddivisa l’area complessiva del SIN. Partiamo dalle buone notizie: la bonifica dell’amianto dell’area ex-Eternit è stata completata. Nel 2017 erano già state rimosse 75 Big Bag – come sono chiamati i sacchi per rifiuti speciali – contenenti amianto lasciate sul luogo da Bagnoli Futura, ma quello era solo il primo passo. Nel 2020 sono riprese le operazioni di scavo e vagliatura dei terreni, che hanno prodotto enormi volumi di materiale. La frazione di rifiuti speciali considerati pericolosi, pari a circa il 23% del totale, è stata avviata allo smaltimento in un impianto autorizzato svedese, mentre è stato previsto il recupero della restante quota. L’area di diciotto ettari è destinata a diventare un quartiere residenziale misto a commercio e terziario avanzato.
C’è poi il Parco dello Sport: un vasto complesso di campi da gioco, canali e piste ciclabili immersi nel verde che aveva l’ambizione di rappresentare il fiore all’occhiello dell’operato di Bagnoli Futura. Mai aperto al pubblico e ripetutamente vandalizzato, ha finalmente visto iniziare le operazioni di bonifica. La gara è stata aggiudicata a Ecologica S.p.a., che utilizzerà tecniche di desorbimento termico e bio-phytoremediation.
Mentre gli impianti sportivi verranno salvaguardati in vista di una futura gestione, ad oggi ancora indefinita, si produrrà invece qualche demolizione di locali di servizio e di infrastrutture della viabilità. La bonifica riguarderà i sedimenti circostanti gli impianti sportivi. Verrà allestito un impianto di desorbimento termico che tratterà il materiale scavato.
Le tecniche di bonifica scelte per Bagnoli
Per capire il processo di desorbimento tecnico bisogna immaginarsi un grande impianto e temperature elevate. Per Bagnoli questo significa trasferire porzioni di terra in un forno rotante che avrà il compito di volatilizzare i contaminanti.
I test eseguiti sull’area del Parco dello sport hanno dimostrato che il metodo è risolutivo per gli idrocarburi, ma non per i metalli, in particolar modo per le frazioni sabbiose di materiale. Si sono ottenuti buoni risultati anche per PCB e diossine, con percentuali di abbattimento del 70-90%. La ditta appaltatrice stima che sarà possibile recuperare il 58% dei materiali in ingresso nell’impianto per il ricollocamento sul sito.
Piante e microrganismi contro l’eredità tossica di Bagnoli
Dopo la conclusione dell’intervento di desorbimento termico, si procederà con la bio-phytoremediation. Si tratta di una tecnica “in situ” di bonifica – vale a dire, che non richiede movimentazione o rimozione del suolo. In pratica, sfrutta la capacità di piante e microrganismi di estrarre dal suolo, accumulare, immobilizzare e decomporre metalli pesanti e composti organici. Sebbene il tempo di esecuzione risulti più lungo rispetto ad altre tecniche, ha il vantaggio di contenere i costi, soprattutto nella fase iniziale.
Nel Parco dello sport si è pensato di ricorrere all’utilizzo combinato di piante, funghi e batteri. Durante i lavori preparatori il terreno verrà scoticato, rivoltato, concimato e irrigato per favorire l’ossigenazione e la riattivazione della microflora già presente. Quindi, si introdurranno il fungo Pleurotus ostreatus (Jacq.) P. Kumm. ed un consorzio di funghi micorrizici e batteri promotori della crescita delle piante. Pleurotus favorirà la degradazione degli IPA e PCB grazie alla sua azione enzimatica, mentre il mix di microrganismi andrà a creare nella rizosfera condizioni favorevoli alla crescita delle piante. Infatti, il passo successivo è la semina di specie erbacee e l’impianto di specie arboree (Salix alba L. e Populus alba L.).
Le prime saranno deputate ad accumulare metalli pesanti e degradare IPA e PCB, le seconde sono note sia per la grande tolleranza e capacità di accumulo di metalli pesanti sia per la propensione a stabilire simbiosi radicali con la microflora coinvolta nella degradazione. Le biomasse prodotte, in quattro anni, sono stimate in circa 800 tonnellate totali; andranno probabilmente smaltite come rifiuti speciali. La bonifica del lotto delle cosiddette Aree fondiarie è invece stata appaltata nel 2023 ad un RTI con capogruppo Greenthesis S.p.A.. Dopo avere vagliato diverse tecnologie in fase di test pilota, il RTI ha optato per interventi di soil washing e desorbimento termico.
Greenthesis S.p.A. fa il pieno di aggiudicazioni nell’estate del 2023 vincendo, da capogruppo di un altro RTI, anche la ricca gara per l’accordo quadro per la progettazione e la realizzazione della bonifica del grande lotto del Parco Urbano e del sedime delle infrastrutture. Sull’area di un milione di metri quadri pendono ancora, nonostante l’approvazione in conferenza dei servizi, alcune questioni tecniche sollevate da Ispra e Arpac. Risolte quelle, potranno partire i lavori, che si stima dureranno quattro anni.
In ordine cronologico, le ultime progettualità di cui abbiamo notizia riguardano la rimozione della colmata, la bonifica degli arenili emersi ed il risanamento dei sedimenti marini, per le quali opere ha vinto la gara d’appalto il RTI capitanato da PROGER S.p.a.
Il progetto definitivo mira a ripristinare una linea di costa unitaria ed il più possibile decontaminata. A tal fine, come già previsto dal PRARU, stabilisce la rimozione integrale della colmata ed il dragaggio dello strato attivo di sedimenti che verrà sostituito, se possibile, tramite ripascimento con materiale recuperato dal trattamento sotto descritto come soil washing. A chiusura del sistema, si progetta un sistema di strutture che hanno lo scopo di confinare l’area bonificata, per evitare che sedimenti contaminati vengano portati lì dalle correnti marine. Sull’area della colmata, va detto, il commissario straordinario ha richiesto a Invitalia una valutazione economica dell’eventuale messa in sicurezza come alternativa alla sua rimozione. Essa rappresenta certamente la zona più controversa e dibattuta: opinione pubblica, media, politica e accademia si sono divisi su quale soluzione sia la più sostenibile.
Tornando al progetto del RTI, sulla scorta delle indicazioni contenute del PFTE e nel PRARU, si procede preliminarmente con una nuova caratterizzazione degli arenili nord e sud complementare a quella già effettuata da Invitalia nel 2021. Nel frattempo, il RTI avvia due test dimostrativi delle tecnologie di capping e soil washing.
Il capping è una tecnologia che mira ad isolare i fondali contaminati dalla colonna d’acqua soprastante, evitando la dispersione degli stessi ed il bioaccumulo negli organismi acquatici. Nel dibattito pubblico si sente parlare di questa operazione soprattutto in riferimento alle discariche di rifiuti urbani: quando sono ormai sature e prive di nuovi conferimenti, si deve infatti procedere al capping del sito. Per Bagnoli dobbiamo immaginarci un materassino filtrante, con un elevato peso specifico capace di rimanere stabile sul fondale. Sopra la copertura verranno posizionate delle piante, come la Posidonia oceanica, alle quali sarà affidato il compito di ricostituire l’habitat naturale. La tecnologia, come detto, è attualmente in fase di test. Sono state posate due diverse tipologie di materassini, uno passivo e l’altro attivo, capace quest’ultimo di assorbire parte dei contaminanti al fine di rendere in futuro possibile un’ulteriore decontaminazione. Se i risultati saranno incoraggianti, il capping potrebbe rappresentare una soluzione relativamente semplice ed economica da implementare su larga scala.
Le speranze nel soil washing
Il soil washing è una tecnologia matura di risanamento ex-situ che ha come obiettivo la separazione della frazione più contaminata, solitamente quella più fine – l’argilla, dalla frazione “lavata” che diventa recuperabile per un eventuale riposizionamento sul sito di provenienza. L’acqua utilizzata per il lavaggio e la frazione contaminata vanno in seguito trattate prima di essere avviate a smaltimento. Il soil washing si è dimostrato utile per diverse categorie di contaminanti organici ed inorganici. Normalmente la prima fase di un intervento di questo tipo prevede test di trattabilità sugli specifici sedimenti contaminati. Tali test sono stati eseguiti ripetutamente per i suoli di Bagnoli ed hanno offerto dati sia positivi sia negativi alla chiusura del cosiddetto processo di end of waste, a seconda dei lotti di provenienza dei campioni analizzati e delle variabili testate. In estrema sintesi, il progetto che l’RTI ha presentato per Bagnoli ipotizza di combinare il trattamento di soil washing con il desorbimento termico, proprio per massimizzare i risultati positivi. In tal modo, si stima che possa essere recuperato il 50% dei sedimenti escavati e dragati.
A Bagnoli è approdato anche un progetto di ricerca europeo che punta a una soluzione innovativa per la decontaminazione di siti marini inquinati. Si chiama LIFE SEDREMED e sfrutta due tecnologie già presenti sul mercato grazie a due aziende, una finlandese e l’altra belga. Alla base di queste tecnologie ci sono la creazione di un piccolo campo elettromagnetico che è riuscito a rendere più biodisponibile la quantità di idrocarburi e metalli pesanti. E poi un gruppo di batteri che hanno la capacità di degradare gli idrocarburi e accumulare dentro di loro i metalli pesanti.
L’idea del progetto è verificare se questi due fattori, utilizzati in maniera combinata nel mare di Bagnoli, possono aiutare la decontaminazione del sito. “Dopo aver sviluppato la tecnologia in mesocosmi, cioè in vasche chiuse, i risultati sono stati abbastanza incoraggianti, per cui abbiamo proceduto con il primo field test che durerà sei mesi” ci racconta Donatella de Pascale, coordinatrice del progetto. “Sono stati scelti due siti, uno a bassa e uno ad alta contaminazione, nelle vicinanze del pontile nord e della colmata. Lì si è creato il campo elettrico all’interno del quale sono stati posti contenitori porosi con dentro il mix di batteri immobilizzato su sfere di zeolite, un inerte. L’ipotesi è che in tal modo i batteri siano capaci di captare la maggior parte dei metalli pesanti e degli idrocarburi resi disponibili dal campo elettrico. A tempi ben definiti andremo a fare dei carotaggi, per vedere rispetto ad un controllo se abbiamo avuto una riduzione dei contaminanti”.
Tra gli obiettivi dichiarati di SEDREMED c’è anche la creazione di un Mediterranean Remediation Knowledge and Innovation Hub. Vi è infatti l’urgenza di colmare, a livello europeo, il vuoto legislativo che osserviamo quando si progetta in funzione della balneabilità delle acque marine. “Non soltanto mancano i limiti minimi chiari e condivisi in termini di metalli pesanti e idrocarburi sotto i quali un’acqua può essere considerata balneabile, ma manca anche una procedura, un protocollo che possa essere condiviso a livello europeo, delle best practice per la decontaminazione e lo smaltimento dei sedimenti” osserva la dott.ssa de Pascale. Che conclude: “I progetti LIFE in genere si propongono due cose: implementare tecnologie anche già esistenti che possano avere un impatto positivo sull’ambiente, riducendo i costi di un determinato processo, e la replicabilità in altri siti di interesse. Noi ci proponiamo per entrambi gli obiettivi. Se il progetto avrà successo sarà replicabile ovunque”.
Finalmente qualcosa a Bagnoli si sta muovendo. Se per diversi anni le ricerche scientifiche sul sito hanno agito nella penombra, adesso sono sotto i riflettori. Le bonifiche sono iniziate e il problema dell’amianto è quasi alle spalle. La maggior parte dei bandi è già stata aggiudicata positivamente e le progettualità dimostrano, almeno in parte, attenzione agli elementi di sostenibilità. Certo, la sfida è complessa e probabilmente i tempi saranno più lunghi di quanto promesso, però la strada intrapresa sembra quella giusta. Ma i soggetti coinvolti saranno in grado di dialogare tra loro? Le tecnologie messe in campo saranno utili per riconsegnare queste porzioni di territori ai suoi abitanti? Sicuramente questa volta nessuno può evitare queste domande. Bagnoli può diventare un laboratorio nel quale imprenditoria, ricerca e società civile possono sperimentare metodologie innovative di progettazione, decontaminazione e partecipazione che assumano rilevanza anche in un contesto internazionale.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente
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