[di Angelo Mastrandrea]
In una tenuta alle porte di Roma si producono borse con le tende dei rifugiati e gli scarti dei mercatini, coniugando economia circolare e impegno sociale. È la moda eco-etica di Carmina Campus
Sinossi
Nei Casali del Pino, una tenuta tra la via Cassia e il parco di Veio, all’ingresso nord di Roma, la creativa e designer Ilaria Venturini Fendi ha stabilito il quartier generale del marchio di etical fashion che ha fondato dopo essersi licenziata dall’impresa di famiglia, uno dei più noti brand italiani del lusso al mondo, finito nelle mani della multinazionale francese Lvmh. La più piccola delle figlie della stilista Anna, la seconda delle cinque sorelle Fendi, oggi si dedica all’agricoltura biologica e all’economia circolare. Sui 174 ettari di terreni dove nel Rinascimento si coltivava l’herba sancta marijuana e fino a inizi Novecento il tabacco, tra animali selvatici e antiche rovine etrusche, ha aperto un agriturismo in bio architettura, produce mozzarelle di pecora, organizza una fiera florovivaistica che attira migliaia di persone, ospita intellettuali ecologisti e disegna borse e altri oggetti con materiali riciclati, coniugando lavoro creativo, rispetto dell’ambiente e impegno sociale. La storia di Carmina Campus, dall’esordio con una serie limitata di conference bags riciclate, prodotte in Camerun da donne provenienti da aree rurali e ospitate in centri di accoglienza delle Nazioni Unite, alco-branding con Altromercato. Fino all’ultimo progetto “made in prison”: borse destinate a un mercato di fascia alta prodotte da detenute di tre carceri italiane con i materiali di scarto forniti da una fabbrica italo-svizzera recuperata dai lavoratori.
Una volta acquistati i Casali del Pino, Fendi ha seguito un corso della Coldiretti per diventare imprenditrice agricola, senza però abbandonare del tutto la sua vecchia attività di creativa. Da una parte imparava come produrre formaggi con caglio vegetale e mozzarelle di pecora, dall’altra ideava borse, anelli, orecchini e altri accessori da produrre con materiali riciclati e interveniva a convegni e iniziative su temi ambientali e sociali in tutto il mondo. “Mi sono convertita in qualcosa di nuovo, mettendo insieme quello che avevo fatto fino ad allora e quello che stavo apprendendo”, l’alta moda e l’artigianato di qualità, la produzione di formaggi bio e quella di oggetti riciclati, in un sistema capace di autoalimentarsi con i suoi stessi scarti. La sua idea è di trasformare i rifiuti della società del benessere, come un sacchetto della spazzatura o la tenda di un rifugiato che sul mercato non valgono nulla, in oggetti di valore, prodotti dalle stesse persone messe ai margini, in una sorta di circolarità anche sociale dell’economia.
“Prima ero una creativa che si faceva realizzare immediatamente da un produttore qualsiasi cosa le passasse per la mente, mentre ora lavoro con gli scarti dei mercatini e soprattutto delle industrie, con le quali avvio dei co-branding”, racconta con un linguaggio infarcito di anglicismi. Il più utilizzato è “sharare”, che a suo dire più che mettere in comune vuol dire creare sinergie. Da marchi tradizionali italiani come Campari al network del commercio equosolidale Altromercato, le partnership avviate dalla piccola casa di moda etica fondata dalla più giovane di casa Fendi sono svariate.
Le prime borse griffate Carmina Campus sono state 97 “conference bags” prodotte in Africa insieme all’associazione Donne per lo sviluppo (Aidos), il cui ricavato è stato destinato alla campagna contro le mutilazioni genitali femminili. “È stato subito un successo e questo mi ha fatto pensare che avrei potuto creare un mio marchio producendo borse con un approccio diverso, unendo il mio passato know-how al riuso di materiali di scarto inutilizzati, come i sacchi neri della spazzatura o i tappi delle bottiglie Campari. A quel punto agricoltura e moda sono diventati i miei due lavori, diversi e apparentemente molto lontani ma con gli stessi parametri: rispetto per l’ambiente, natura e progetti sociali”, spiega.
Poi, con la collaborazione dell’International trade center delle Nazioni Unite, la stilista ha realizzato una linea di borse prodotte con gli scarti delle tende da safari o dei ricoveri per i rifugiati. La produzione è stata affidata a cooperative costituite da donne provenienti da baraccopoli o da aree rurali del Camerun, del Kenya e dell’Uganda, ospitate in alcuni centri per persone socialmente disagiate. Il motto dell’iniziativa era “not charity but work”, “non carità, ma lavoro”.
In occasione della Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 2018 a Katowice, in Polonia, la stilista romana ha aderito al manifesto per una moda etica ed ecosostenibile lanciato dalla stilista inglese Stella McCartney. Si tratta di sedici obiettivi che le aziende dovrebbero raggiungere per alleggerire la propria impronta ecologica, dalla riduzione dell’emissione di gas serra all’eliminazione delle fonti di riscaldamento a carbone dai propri stabilimenti, dal trasporto a basse emissioni di carbonio alla scelta di materiali sostenibili, dalle campagne per sensibilizzare i consumatori alla promozione dell’economia circolare.
L’ultimo progetto si intitola Made in prison. Grazie a un accordo con Socially made in Italy, un progetto della cooperativa sociale Alice per mettere in relazione le griffe dell’alta moda con persone socialmente svantaggiate da reinserire in circuiti lavorativi, Carmina Campus fa realizzare dalle detenute delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore, di Santa Maria Maggiore a Venezia e di piazza Lanza a Catania borse con materiali di scarto. A fornirli è la Schmid, una fabbrica milanese che produce tessuti e lavorati artigianali per le grandi marche del tessile e delle calzature, fondata da un imprenditore di Zurigo nel 1942, finita in crisi e rilevata nel 2015 dai 23 dipendenti e dall’ex amministratore delegato. Pezzi unici e fatti a mano che, prima di finire in commercio, passano attraverso il laboratorio che la ribelle di casa Fendi ha messo in piedi nella tenuta dei Casali del Pino.



