[di Angelo Mastrandrea]
In una tenuta alle porte di Roma si producono borse con le tende dei rifugiati e gli scarti dei mercatini, coniugando economia circolare e impegno sociale. È la moda eco-etica di Carmina Campus
Sinossi
Nei Casali del Pino, una tenuta tra la via Cassia e il parco di Veio, all’ingresso nord di Roma, la creativa e designer Ilaria Venturini Fendi ha stabilito il quartier generale del marchio di etical fashion che ha fondato dopo essersi licenziata dall’impresa di famiglia, uno dei più noti brand italiani del lusso al mondo, finito nelle mani della multinazionale francese Lvmh. La più piccola delle figlie della stilista Anna, la seconda delle cinque sorelle Fendi, oggi si dedica all’agricoltura biologica e all’economia circolare. Sui 174 ettari di terreni dove nel Rinascimento si coltivava l’herba sancta marijuana e fino a inizi Novecento il tabacco, tra animali selvatici e antiche rovine etrusche, ha aperto un agriturismo in bio architettura, produce mozzarelle di pecora, organizza una fiera florovivaistica che attira migliaia di persone, ospita intellettuali ecologisti e disegna borse e altri oggetti con materiali riciclati, coniugando lavoro creativo, rispetto dell’ambiente e impegno sociale. La storia di Carmina Campus, dall’esordio con una serie limitata di conference bags riciclate, prodotte in Camerun da donne provenienti da aree rurali e ospitate in centri di accoglienza delle Nazioni Unite, alco-branding con Altromercato. Fino all’ultimo progetto “made in prison”: borse destinate a un mercato di fascia alta prodotte da detenute di tre carceri italiane con i materiali di scarto forniti da una fabbrica italo-svizzera recuperata dai lavoratori.
La tenuta dei Casali del Pino è un’oasi inaspettata tra i condomini e le attività commerciali disordinatamente allineate lungo la via Cassia, all’ingresso nord di Roma. Confina con il parco dell’antica città etrusca di Veio ed è a sua volta punteggiata di antichità. Su una collinetta di fronte all’ingresso spuntano le rovine di un’antica villa romana interrata e, inoltrandosi oltre i filari di pini che costeggiano la via d’accesso, si incontra un arco in tufo. Poco più avanti, là dove confluiscono due torrenti, da una fonte romana del VI secolo dopo Cristo sgorga tuttora un’acqua cristallina che la proprietaria invita a bere. Nel Rinascimento, qui si curavano diversi malanni con l’ “herba sancta”, la canapa indiana. Agli inizi del secolo, la tenuta ospitava un tabacchificio con le annesse piantagioni, in seguito è stata trasformata in un’azienda agricola.
Quando l’ha vista, Ilaria Venturini Fendi se n’è subito innamorata e, “siccome al cuor non si comanda”, dice indicando le meraviglie della tenuta – nella quale si possono incontrare asini al pascolo, volpi e persino qualche cinghiale selvatico – ha deciso che qui avrebbe installato il quartier generale di Carmina Campus, il piccolo marchio di moda etica che ha creato quando ha deciso di licenziarsi dalla multinazionale di famiglia, dov’era direttrice creativa per gli accessori Fendissime. La più giovane delle figlie della stilista Anna Fendi – una delle cinque sorelle che hanno fatto dell’omonima azienda di famiglia uno dei marchi del lusso più noti al mondo – l’ha comprato e ha trasformato l’edificio nel quale alloggiavano i lavoratori delle piantagioni di tabacco in un moderno agriturismo in bioarchitettura. Nei padiglioni ristrutturati che un tempo erano stalle per gli animali ora ci sono un ristorante, gli uffici e i laboratori di Carmina Campus. Tre grandi camini solari in inverno riscaldano, e d’estate mantengono fresca, una sala per convegni da 530 posti. Le aree verdi, invece, sono state lasciate in gran parte selvagge “perché stravolgerle avrebbe voluto dire cancellare uno degli ultimi pezzi di agro romano non devastati dal cemento”. La città è dietro l’angolo, ma qui il paesaggio è ancora interamente bucolico. Ogni mattina, quando non è in giro per il mondo per conferenze, Ilaria Venturini Fendi lascia l’abitazione di famiglia nel centro di Roma per venirsene quassù a occuparsi delle sue borse riciclate, degli asini e delle pecore. Nel cuore della capitale, in via Fontanella Borghese, ha invece aperto Re(f)use, una boutique interamente dedicata all’economia circolare nella quale si possono acquistare le sue creazioni.
Un giorno ha bussato alle sue porte la paesaggista e giardiniera Antonella Fornai. “Cercavo un luogo che potesse ospitare una mostra florovivaistica che l’Auditorium non voleva più ospitare, questo posto mi sembrava l’ideale”, ricorda quest’ultima. Fendi non ha esitato a metterle a disposizione la tenuta che stava ancora ristrutturando. E’ nata così Floracult, una fiera florovivaistica che ogni anno ospita intellettuali, studiosi e creativi di tutto il mondo impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici e per un mondo più equo e socialmente sostenibile. Dal 25 al 29 aprile 2019, si è parlato di botanica delle differenze e di alberi da frutto mediterranei, delle regole per realizzare un giardino perfetto e dell’albero simbolo di Roma, il pino. La kermesse, che ha registrato oltre 10 mila presenze, ha avuto come ospite d’eccezione l’etnobotanista e creatore di profumi Abderrazzak Benchaabane, curatore per un decennio del Jardine Majorelle di Marrakech, uno dei più importanti giardini tropicali al mondo, acquistato nel 1980 da Yves Saint Laurent.
Ilaria Venturini Fendi ammette che non è difficile, se porti il cognome di una delle griffe di alta moda più note del pianeta, potersi permettere di comprare 174 ettari di terreni e ristrutturare gli edifici secondo i più moderni parametri dell’architettura ecosostenibile, facendo in modo che nulla di ciò che si risistema o si produce vada perduto. Meno semplice è stato decidere di convertirsi all’economia circolare e dedicarsi anima e corpo all’agricoltura biologica e all’ethical fashion, la moda rispettosa dell’ambiente e impegnata nel sociale. La giovane stilista avrebbe avuto la strada spianata nell’azienda di famiglia, nonostante questa sia passata nelle mani della multinazionale francese Lvmh, la stessa che controlla un’altra big dell’alta moda italiana come Gucci e marchi internazionali del lusso come Givenchy, Christian Dior e Louis Vuitton. “Non è facile per nessuno cambiare radicalmente la propria vita, ma non tolleravo più i ritmi frenetici della moda globalizzata, le sue logiche spietate e il fatto che un prodotto diventava superato dopo pochi mesi. Volevo riprendermi il mio tempo, fare qualcosa di innovativo, che avesse un impatto sociale e fosse ecologicamente sostenibile, e in più seguire una passione ereditata da mio padre, che aveva un’azienda agricola nel reatino, mi ha insegnato ad andare a cavallo ed è morto quando avevo appena dieci anni”, racconta oggi nella quiete della tenuta romana.
Una volta acquistati i Casali del Pino, Fendi ha seguito un corso della Coldiretti per diventare imprenditrice agricola, senza però abbandonare del tutto la sua vecchia attività di creativa. Da una parte imparava come produrre formaggi con caglio vegetale e mozzarelle di pecora, dall’altra ideava borse, anelli, orecchini e altri accessori da produrre con materiali riciclati e interveniva a convegni e iniziative su temi ambientali e sociali in tutto il mondo. “Mi sono convertita in qualcosa di nuovo, mettendo insieme quello che avevo fatto fino ad allora e quello che stavo apprendendo”, l’alta moda e l’artigianato di qualità, la produzione di formaggi bio e quella di oggetti riciclati, in un sistema capace di autoalimentarsi con i suoi stessi scarti. La sua idea è di trasformare i rifiuti della società del benessere, come un sacchetto della spazzatura o la tenda di un rifugiato che sul mercato non valgono nulla, in oggetti di valore, prodotti dalle stesse persone messe ai margini, in una sorta di circolarità anche sociale dell’economia.
“Prima ero una creativa che si faceva realizzare immediatamente da un produttore qualsiasi cosa le passasse per la mente, mentre ora lavoro con gli scarti dei mercatini e soprattutto delle industrie, con le quali avvio dei co-branding”, racconta con un linguaggio infarcito di anglicismi. Il più utilizzato è “sharare”, che a suo dire più che mettere in comune vuol dire creare sinergie. Da marchi tradizionali italiani come Campari al network del commercio equosolidale Altromercato, le partnership avviate dalla piccola casa di moda etica fondata dalla più giovane di casa Fendi sono svariate.
Le prime borse griffate Carmina Campus sono state 97 “conference bags” prodotte in Africa insieme all’associazione Donne per lo sviluppo (Aidos), il cui ricavato è stato destinato alla campagna contro le mutilazioni genitali femminili. “È stato subito un successo e questo mi ha fatto pensare che avrei potuto creare un mio marchio producendo borse con un approccio diverso, unendo il mio passato know-how al riuso di materiali di scarto inutilizzati, come i sacchi neri della spazzatura o i tappi delle bottiglie Campari. A quel punto agricoltura e moda sono diventati i miei due lavori, diversi e apparentemente molto lontani ma con gli stessi parametri: rispetto per l’ambiente, natura e progetti sociali”, spiega.
Poi, con la collaborazione dell’International trade center delle Nazioni Unite, la stilista ha realizzato una linea di borse prodotte con gli scarti delle tende da safari o dei ricoveri per i rifugiati. La produzione è stata affidata a cooperative costituite da donne provenienti da baraccopoli o da aree rurali del Camerun, del Kenya e dell’Uganda, ospitate in alcuni centri per persone socialmente disagiate. Il motto dell’iniziativa era “not charity but work”, “non carità, ma lavoro”.
In occasione della Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 2018 a Katowice, in Polonia, la stilista romana ha aderito al manifesto per una moda etica ed ecosostenibile lanciato dalla stilista inglese Stella McCartney. Si tratta di sedici obiettivi che le aziende dovrebbero raggiungere per alleggerire la propria impronta ecologica, dalla riduzione dell’emissione di gas serra all’eliminazione delle fonti di riscaldamento a carbone dai propri stabilimenti, dal trasporto a basse emissioni di carbonio alla scelta di materiali sostenibili, dalle campagne per sensibilizzare i consumatori alla promozione dell’economia circolare.
L’ultimo progetto si intitola Made in prison. Grazie a un accordo con Socially made in Italy, un progetto della cooperativa sociale Alice per mettere in relazione le griffe dell’alta moda con persone socialmente svantaggiate da reinserire in circuiti lavorativi, Carmina Campus fa realizzare dalle detenute delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore, di Santa Maria Maggiore a Venezia e di piazza Lanza a Catania borse con materiali di scarto. A fornirli è la Schmid, una fabbrica milanese che produce tessuti e lavorati artigianali per le grandi marche del tessile e delle calzature, fondata da un imprenditore di Zurigo nel 1942, finita in crisi e rilevata nel 2015 dai 23 dipendenti e dall’ex amministratore delegato. Pezzi unici e fatti a mano che, prima di finire in commercio, passano attraverso il laboratorio che la ribelle di casa Fendi ha messo in piedi nella tenuta dei Casali del Pino.
Una volta acquistati i Casali del Pino, Fendi ha seguito un corso della Coldiretti per diventare imprenditrice agricola, senza però abbandonare del tutto la sua vecchia attività di creativa. Da una parte imparava come produrre formaggi con caglio vegetale e mozzarelle di pecora, dall’altra ideava borse, anelli, orecchini e altri accessori da produrre con materiali riciclati e interveniva a convegni e iniziative su temi ambientali e sociali in tutto il mondo. “Mi sono convertita in qualcosa di nuovo, mettendo insieme quello che avevo fatto fino ad allora e quello che stavo apprendendo”, l’alta moda e l’artigianato di qualità, la produzione di formaggi bio e quella di oggetti riciclati, in un sistema capace di autoalimentarsi con i suoi stessi scarti. La sua idea è di trasformare i rifiuti della società del benessere, come un sacchetto della spazzatura o la tenda di un rifugiato che sul mercato non valgono nulla, in oggetti di valore, prodotti dalle stesse persone messe ai margini, in una sorta di circolarità anche sociale dell’economia.
“Prima ero una creativa che si faceva realizzare immediatamente da un produttore qualsiasi cosa le passasse per la mente, mentre ora lavoro con gli scarti dei mercatini e soprattutto delle industrie, con le quali avvio dei co-branding”, racconta con un linguaggio infarcito di anglicismi. Il più utilizzato è “sharare”, che a suo dire più che mettere in comune vuol dire creare sinergie. Da marchi tradizionali italiani come Campari al network del commercio equosolidale Altromercato, le partnership avviate dalla piccola casa di moda etica fondata dalla più giovane di casa Fendi sono svariate.
Le prime borse griffate Carmina Campus sono state 97 “conference bags” prodotte in Africa insieme all’associazione Donne per lo sviluppo (Aidos), il cui ricavato è stato destinato alla campagna contro le mutilazioni genitali femminili. “È stato subito un successo e questo mi ha fatto pensare che avrei potuto creare un mio marchio producendo borse con un approccio diverso, unendo il mio passato know-how al riuso di materiali di scarto inutilizzati, come i sacchi neri della spazzatura o i tappi delle bottiglie Campari. A quel punto agricoltura e moda sono diventati i miei due lavori, diversi e apparentemente molto lontani ma con gli stessi parametri: rispetto per l’ambiente, natura e progetti sociali”, spiega.
Poi, con la collaborazione dell’International trade center delle Nazioni Unite, la stilista ha realizzato una linea di borse prodotte con gli scarti delle tende da safari o dei ricoveri per i rifugiati. La produzione è stata affidata a cooperative costituite da donne provenienti da baraccopoli o da aree rurali del Camerun, del Kenya e dell’Uganda, ospitate in alcuni centri per persone socialmente disagiate. Il motto dell’iniziativa era “not charity but work”, “non carità, ma lavoro”.
In occasione della Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 2018 a Katowice, in Polonia, la stilista romana ha aderito al manifesto per una moda etica ed ecosostenibile lanciato dalla stilista inglese Stella McCartney. Si tratta di sedici obiettivi che le aziende dovrebbero raggiungere per alleggerire la propria impronta ecologica, dalla riduzione dell’emissione di gas serra all’eliminazione delle fonti di riscaldamento a carbone dai propri stabilimenti, dal trasporto a basse emissioni di carbonio alla scelta di materiali sostenibili, dalle campagne per sensibilizzare i consumatori alla promozione dell’economia circolare.
L’ultimo progetto si intitola Made in prison. Grazie a un accordo con Socially made in Italy, un progetto della cooperativa sociale Alice per mettere in relazione le griffe dell’alta moda con persone socialmente svantaggiate da reinserire in circuiti lavorativi, Carmina Campus fa realizzare dalle detenute delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore, di Santa Maria Maggiore a Venezia e di piazza Lanza a Catania borse con materiali di scarto. A fornirli è la Schmid, una fabbrica milanese che produce tessuti e lavorati artigianali per le grandi marche del tessile e delle calzature, fondata da un imprenditore di Zurigo nel 1942, finita in crisi e rilevata nel 2015 dai 23 dipendenti e dall’ex amministratore delegato. Pezzi unici e fatti a mano che, prima di finire in commercio, passano attraverso il laboratorio che la ribelle di casa Fendi ha messo in piedi nella tenuta dei Casali del Pino.