mercoledì, Novembre 5, 2025

Carboni attivi, impulsi elettrici e sensori: come ci si libera dai Pfas

Ecco come la ricerca scientifica sta provando ad eliminare i Pfas dalle nostre vite. Ma attenzione a non dimenticare la prevenzione

Alessandro Coltré
Alessandro Coltré
Giornalista pubblicista, si occupa principalmente di questioni ambientali in Italia, negli ultimi anni ha approfondito le emergenze del Lazio, come la situazione romana della gestione rifiuti e la bonifica della Valle del Sacco. Dal 2019 coordina lo Scaffale ambientalista, una biblioteca e centro di documentazione con base a Colleferro, in provincia di Roma. Nell'area metropolitana della Capitale, Alessandro ha lavorato a diversi progetti culturali che hanno avuto al centro la rivalutazione e la riconsiderazione dei piccoli Comuni e dei territori considerati di solito ai margini delle grandi città.

Si possono togliere i Pfas dall’acqua potabile? Se lo chiedono scienziati, innovatori e attivisti. Negli ultimi anni sono aumentate le linee di ricerca che provano a sfidare gli inquinanti eterni con filtri a carbone attivo, raggi ultravioletti e composti chimici, ma disintegrare questi polimeri dall’acqua resta ancora un obiettivo difficile da raggiungere. La ricerca scientifica sta fornendo dati essenziali per capire come eliminare i Pfas dalle nostre vite. A volte però, l’entusiasmo per le nuove tecnologie rischia di sovrastare il campo delle scelte politiche e i processi decisionali che dovrebbero portare una drastica riduzione dell’utilizzo di Pfas. 

Dal 12 gennaio 2026 l’acqua del rubinetto dovrà rispettare i parametri della nuova direttiva europea sulla qualità delle acque potabili. Per i Pfas è fissato un limite di 100 nanogrammi per litro per la somma di 24 molecole. Con un decreto legge  già approvato dal Consiglio dei Ministri, l’Italia ha scelto un nuovo valore limite per i 4 polimeri ritenuti tra i più pericolosi: PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS non devono superare i 20 nanogrammi per litro. Ora in esame nelle commissioni del Senato, il decreto punta anche al monitoraggio dei nuovi PFAS, quelli definiti a catena corta perché hanno una catena di carbonio con un numero di atomi inferiore a sei. Considerati alternativi e meno pericolosi dall’industria chimica, questi composti conservano comunque caratteristiche potenzialmente nocive per la salute.

Dal prossimo anno la contaminazione da Pfas avrà un quadro di riferimento normativo, e forse un’attenzione maggiore nel dibattito pubblico. Avere dei parametri e delle soglie potrebbe aiutare a stimolare una discussione sulla nocività racchiusa in queste quattro lettere. Ma la domanda resta aperta: come ci liberiamo dai Pfas?

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Un nuovo filtro made in Italy

Qualche settimana fa sul mercato è arrivata Graphisulfone, una membrana sviluppata dall’azienda Medica in collaborazione con il Cnr. Il brevetto è alla base della nuova linea di filtri che viene commercializzata come soluzione innovativa per la depurazione dell’acqua. Questa membrana è uno dei risultati del progetto europeo GRAPHIL, uno studio coordinato dall’Istituto per la sintesi organica e fotoreattività del Cnr di Bologna (Cnr-Isof) che negli ultimi dieci anni ha testato una nuova tecnologia basata sull’ossido di grafene e il polisulfone. La ricerca italiana ha messo a punto un nanomateriale in grado di catturare diversi contaminanti: metalli pesanti, alcuni antibiotici e anche i Pfas. Gli studi scientifici alla base di questo nuovo prodotto commerciale hanno verificato una duplice azione, ossia una capacità filtrante e una di adsorbimento, il processo che porta una molecola gassosa o liquida a legarsi a un materiale solido. “Si tratta di un esempio efficace di come la ricerca, se orientata verso i bisogni industriali e sostenuta da finanziamenti pubblici mirati, possa portare a risultati tecnologici concreti,” ha dichiarato Vincenzo Palermo, uno degli autori del lavoro e direttore del Cnr-Isof di Bologna.  “Abbiamo messo a punto una tecnologia che unisce sicurezza e sostenibilità – continua Palermo – grazie alla quale MEDICA S.p.A. potrà produrre migliaia di filtri all’anno”.

I filtri a carboni attivi

Il nuovo filtro a base di ossido di grafene cerca di posizionarsi anche come concorrente commerciale di altre soluzioni per la depurazione dell’acqua. Tra queste c’è quella dei carboni attivi, una tecnologia impiegata per cercare di eliminare i Pfas dalle reti idriche nell’area rossa del Veneto, una delle zone più contaminate in Italia dopo il disastro ambientale in cui è imputata la società Miteni. Il carbone attivo si ottiene da trattamento ad alta temperatura di sottoprodotti vegetali (gusci di cocco, torba, legno), da carbone minerale oppure da olii minerali pesanti. Viene prodotto in polvere (PAC) o in granuli (GAC) per avere una pezzatura più comoda nella gestione. Anche se riconosciuti come la migliore tecnologia disponibile (Best Available Technology, BAT) per la rimozione di questi composti pericolosi, i filtri a carboni attivi portano con sé una serie di problemi nella fase di smaltimento. Una volta saturi di sostanze inquinanti, i carboni devono essere sostituiti: a quel punto possono essere smaltiti in discarica o sottoposti a un processo di rigenerazione. Il metodo più diffuso per rigenerare i filtri è il trattamento termico, ma diversi studi hanno dimostrato che bruciare questi sottoprodotti rilascia in aria i Pfas e riduce l’efficacia dei carboni attivi rigenerati.

A fare i conti con le criticità della rigenerazione dei carboni attivi sono stati proprio i comuni della provincia di Vicenza: la centrale di potabilizzazione di Madonna di Lonigo testimonia una serie di ostacoli e difficoltà legate a questa tecnologia. Dal 2013 al 2023 la gestione della centrale ha comportato spese complessive superiori a 21 milioni di euro, con oltre 13 milioni destinati specificamente alla rimozione dei Pfas e alla rigenerazione dei carboni attivi. In sostanza i Pfas non vengono distrutti. Finiscono in una serie di sottoprodotti simili ai polimeri di partenza che una volta bruciati o smaltiti in discarica restano nell’aria e nel suolo. Sugli effetti di questi scarti si sa ancora ben poco, ma di certo i legami chimici alla base della persistenza degli inquinanti eterni non vengono spezzati.

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Le caraffe non depurano l’acqua

Si potrebbe pensare che l’impiego dei carboni attivi sia efficace contro i Pfas anche nelle caraffe filtranti che troviamo in commercio. In realtà le caraffe con i carboni attivi non possono garantire la sparizione di queste molecole. In generale le caraffe filtranti sono in grado di ridurre e di attenuare la presenza di alcune sostanze come il cloro e calcare, migliorando odore e gusto dell’acqua potabile. Di certo non depurano e non risolvono il problema di una contaminazione da sostanze di sintesi come i Pfas, anche perché il rubinetto di casa è solo il terminale di una rete pubblica che dovrebbe essere sempre sicura e priva di inquinanti.

Impulsi elettrici e carboni attivi

Uno studio pubblicato di recente su Nature Water racconta l’efficacia di un nuovo metodo che impiega carboni attivi e un processo elettrotermico ultraveloce che riesce a trasformare i legami carbonio-fluoro in sali di fluoro. è la tecnica del flash joule heating, una nuova sperimentazione nata da un gruppo di ricerca della Rice University di Huston che sfida la struttura degli inquinanti eterni e al momento offre anche una possibile soluzione circolare in grado di trasformare i carboni attivi saturi in grafene, nanomateriale utilizzato nell’industria medica, elettronica e chimica.

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Un sensore per gli acquedotti italiani

Un rapporto del Centro nazionale per la sicurezza delle acque dell’Istituto Superiore di Sanità rivela che la conformità media delle acque italiane è del 99% per i parametri sanitari, chimici e microbiologici. L’indagine condotta dal 2020 al 2022 insieme al Sistema nazionale per la protezione ambientale ha confrontato 2,5 milioni di analisi alle acque potabili delle reti idriche d’Italia. I Pfas sono esclusi da queste rilevazioni, non c’è l’obbligo di individuarli. E anche per questo motivo, la campagna di monitoraggio promossa da Greenpeace è stata utile per fornire una prima raccolta di dati sulla presenza di questi polimeri nelle acque italiane. Se le concentrazioni di Pfas superano alcuni valori siamo di fronte a una contaminazione che è direttamente collegata ai luoghi di produzione di queste sostanze. Come nel caso di Montecastello, piccolo comune in Provincia di Alessandria, che nel 2020 ha dovuto fare i conti con la presenza di un Pfas a catena corta brevettato dall’ex Solvay nella vicina Spinetta Marengo. La sostanza è stata rilevata anche nelle falde acquifere e in un campione di cittadini oggi al centro di un progetto di biomonitoraggio condotto dalle autorità sanitarie in collaborazione con l’Università del Piemonte Orientale, dove è in corso un progetto di ricerca europeo che aiuterà a rilevare la presenza nei Pfas nelle reti idriche. Si tratta di Scenarios, un progetto che coinvolge università e centri di innovazione per fornire nuove conoscenze sulla tossicità a lungo termine dei Pfas e per sviluppare tecnologie in grado di rilevare e contenere la diffusione di questi inquinanti. Nei laboratori dell’Università di Alessandria, a pochi chilometri dall’unico stabilimento che produce questi polimeri in Italia, i ricercatori stanno sviluppando dei sensori da applicare agli acquedotti in grado di misurare in tempo reale la presenza di Pfas. Una sorta di semaforo capace di monitorare l’eventuale presenza di inquinanti nelle varie diramazioni della rete idrica. Al momento il sensore è in fase di sperimentazione, dopo una fase di test sarà pronto per andare sul mercato.

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Foto: Greenpeace

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