Il decreto per l’istituzione del regime di responsabilità estesa del produttore nella filiera dei prodotti tessili è ormai in dirittura d’arrivo ma, sebbene la versione attuale rappresenti un passo in avanti rispetto alle prime bozze circolate in passato, leggendo il testo emergono almeno tre elementi che meritano una attenta riflessione, almeno dal punto di vista dei produttori, quali soggetti obbligati.
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As many policy instruments as many policy goals…
Spesso nelle pubblicazioni di OECD ed altri think-thank si legge di come siano necessari strumenti dedicati in relazione dello specifico obiettivo che ci si prefissa di raggiungere, il che significa focalizzare gli approcci di policy rispetto al risultato atteso.
Purtroppo, l’attuale schema di decreto sembra andare nella direzione opposta, in quanto mescola elementi diversi che, seppur condivisibili come obiettivi programmatici di alto livello, male si coniugano con l’effettiva implementazione ed implementabilità del decreto da parte degli stakeholders obbligati.
Mentre l’articolo 1 al suo primo comma – che enuncia le finalità programmatiche – parla di “prevenire e ridurre gli impatti ambientali derivanti dalla progettazione, produzione e gestione dei prodotti tessile al termine del loro utilizzo” e quindi una volta divenuti rifiuto, e al comma 3 si identifichi come strumento quello della responsabilità estesa del produttore, l’articolo 4 comma 2 – che dettaglia il modo in cui tale responsabilità viene declinata – parla di “farsi carico del finanziamento e della organizzazione” della raccolta e delle operazioni di trattamento, siano esse preparazione per il riutilizzo, riciclaggio e/o recupero.
Così come accade in altre direttive fondate sul principio della responsabilità estesa in diversi flussi di rifiuti (packaging, batterie, RAEE, oli,…), il focus principale rimane sulla implementazione di un sistema organizzato per la raccolta ed il trattamento dei rifiuti, trasferendo l’onere dalla pubblica amministrazione ai produttori ed ai consorzi da loro creati. Esistono esempi, quali l’interazione tra Direttiva RAEE e RoHS (Restriction of Hazardous Substances – limitazione delle sostanze pericolose), di come alcuni elementi di eco-design possano essere considerati, ma la loro implementazione è principalmente legata a meccanismi di “command e control” come la messa al bando di alcune sostanze o controlli in fase di immissione sul mercato, e non tanto all’attività dei consorzi.
Nonostante i teorizzatori del principio della responsabilità estesa tendano ad evidenziare lo stretto legame tra costi di gestione del fine vita e gli eventuali interventi di re-design che possono mitigare tali costi, le esperienze e pratiche operative degli ultimi vent’anni di implementazione di Direttive basate sulla responsabilità estesa del produttore, soprattutto nel caso di prodotti e flussi di rifiuti complessi, hanno mostrato i limiti di tale teoria, soprattutto nei casi in cui:
- l’implementazione delle operations avvenga in modo collettivo e quindi ogni eventuale beneficio di re-design che impatti sui costi venga di fatto annegato e mediato rispetto al totale, anche in presenza di eco-modulazione della tariffazione come richiesto nell’articolo 4.7;
- i soggetti obbligati siano, nella maggior parte dei casi, non necessariamente coloro che effettuano il design o la produzione; questo è comune nei settori caratterizzati da filiere di produzione lunghe, da elevata commercializzazione dei prodotti/manufatti e dalla presenza di catene distributive complesse, che fanno leva anche sul commercio elettronico. Tali condizioni sono senza dubbio verificate anche nel settore del tessile.
Scorrendo i requisiti descritti negli articoli 4 e 6 del decreto sono evidenziabili alcuni elementi che difficilmente si possono coniugare con gli obiettivi di (i) avere un sistema efficiente per la gestione dei rifiuti, (ii) garantire implementabilità e controllo da parte dei consorzi, (iii) avere una relazione causa-effetto nella gestione del fine vita e (iv) avere una possibilità di implementazione da parte dei produttori di diversa dimensione e verticalizzazione lungo la filiera:
- il design di prodotti tessili che miri a ridurre i rifiuti della fase di produzione (articolo 4.3.c), così come l’utilizzo di risorse rinnovabili durante la fase di produzione (articolo 6.1): sebbene una T-shirt possa avere un minor contenuto intrinseco di carbonio, o aver contribuito ad una riduzione dei rifiuti in fase di produzione, la gestione del fine-vita rimane invariata; non solo, i Consorzi difficilmente potranno adottare misure per valutare l’efficacia di azioni intraprese all’interno degli stabilimenti di produzione. E i legittimi e apprezzabili sforzi di efficientamento dei processi produttivi, che in molti casi sono già in atto, o decarbonizzazione delle supply chain, molto meglio si collocano in provvedimenti ed interventi legati all’ecodesign o alla produzione sostenibile;
- non sempre le scelte progettuali e la realizzazione di prodotti possono garantire allo stesso tempo (articolo 4.3.d) facilità di riparazione, utilizzo di materiali riciclati, riciclabilità, durabilità e riparabilità: molto spesso esistono trade-off su esigenze contrastanti o scelte che tengono conto anche di aspetti economici (es. costo di un tessuto maggiormente durevole rispetto ad accessibilità per il consumatore finale) e restrizioni sulla supply chain (disponibilità di un quantitativo sufficiente di fibre provenienti da riciclo con quantità e qualità disponibili per la produzione);
- l’adozione di modelli legati all’economia circolare (articolo 4.3.e), peraltro non specificati o definiti all’interno dello schema di decreto, non necessariamente ed automaticamente potrebbe garantire una riduzione dell’impronta ambientale se l’unità funzionale o il sistema di riferimento non è definito. Quale è l’impatto di mantenere forzatamente in circolo capi di abbigliamento incapaci di garantire la stessa tenuta termica di capi più moderni rispetto all’impatto o emissioni di CO2 legati al riscaldamento domestico a parità di comfort da parte del consumatore?
- Il ricorso a pratiche di simbiosi industriale (articolo 6.1.d), encomiabile ed incoraggiabile, non necessariamente si realizza esclusivamente con la “mischia delle fibre” in un distretto, o ha come unico obiettivo quello di ridurre i rifiuti della produzione industriale. La simbiosi industriale potrebbe essere implementata da uno stabilimento produttivo esulando completamente dalla filiera del tessile.
Appare dunque evidente che il decreto contenga svariate suggestioni ed elementi che possano essere condivisibili – almeno in parte – da un punto di vista programmatico, ma che manchino completamente di una valutazione concreta e pragmatica della possibilità di essere monitorati ed attuati sia da parte degli organi di vigilanza che da parte dei consorzi istituiti dai produttori senza andare a toccare elementi strategici e competitivi propri di ogni singola azienda tra cui: le scelte progettuali e di design, la gestione del processo produttivo e la scelta di materiali e fornitori, il posizionamento sul e la segmentazione del mercato e in generale tutta una serie di elementi che concorrono a definire la strategia industriale di un brand.
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Chiudere i cerchi…
Lo schema di decreto, in linea con i principi generali della gerarchia dei rifiuti, mira a promuovere non solo il riciclaggio e recupero ma anche la preparazione per il riutilizzo e, almeno in maniera programmatica, la riduzione della produzione di rifiuti; e se alcune precedenti Direttive – quali la prima versione della Direttiva RAEE – non includevano nei target la preparazione per il riutilizzo e lo hanno integrato in fase di revisione, lo schema di decreto – all’articolo 5 comma 2 – lo considera già nella sua formulazione iniziale con un target pari al 25% al 2025 che sale sino al 50% al 2035.
Si pensi che la Francia, il primo Paese europeo ad istituire un sistema per la responsabilità estesa nel settore del tessile, ad oltre 15 anni dall’entrata in vigore del sistema, si attesta su un tasso di raccolta del 38%, di cui il 58% è riutilizzato, il 33.5% è riciclato e l’8% è destinato al recupero energetico. In tal senso non è chiaro se l’articolo 5 debba considerarsi come obiettivo in termini di raccolta separata (primo indicatore dell’efficacia del sistema di raccolta), o se il legislatore intenda focalizzarsi solamente sull’efficacia dei processi a valle della raccolta separata; nel secondo caso risulta evidente come l’indicatore abbia una valenza limitata nel momento in cui l’attuale sistema di gestione dei rifiuti tessili in Italia è in grado di intercettare e processare solo una minima parte rispetto alla stima dei rifiuti che vengono generati.
Nel successivo articolo 7 diventa ancora più chiaro rendendo i produttori responsabili, in prima persona o attraverso i consorzi, dello sviluppo di misure dedicate alla promozione della filiera del riutilizzo e della riparazione e addirittura del riutilizzo. Tale impianto non risulta tuttavia sufficientemente chiaro, e lascia dubbi sulla effettiva implementazione delle misure in particolare:
- Sulla corretta contabilizzazione e rendicontazione dei target nel momento in cui i produttori o i consorzi istituiti gestiscano sia prodotti qualificati come rifiuti, che prodotti che ancora non lo sono, o siano chiamati a favorire (articolo 7.1.h) addirittura pratiche di “sharing attraverso piattaforme digitali” la cui reale implementazione risulta sicuramente foriera di molteplici complessità ed implicazioni che mal si coniugano con una semplice riga di testo nello schema di decreto attuale.
- Sulle responsabilità dei soggetti che effettuano la preparazione per il riutilizzo e reimmettono successivamente sul mercato un prodotto: è opportuno chiarire la responsabilità di tali soggetti relativamente al secondo ciclo di vita e, in tal senso, interessante risulta l’approccio del nuovo Regolamento batterie che ha chiaramente identificato negli operatori economici che effettuano tali operazioni i responsabili in relazione ai successivi obblighi per il nuovo prodotto reimmesso sul mercato.
Se l’obiettivo del decreto è quello di integrare in un’unica piattaforma operativa diverse filiere e competenze – che vanno dalla gestione dei rifiuti, allo sviluppo ed incentivazione di pratiche di riparazione e riutilizzo, addirittura attraverso l’incentivazione di meccanismi peer-to-peer tra i consumatori – risulta evidente che è necessario definire i meccanismi operativi e garantire allineamento dei diversi stakeholders in modo molto più preciso e dettagliato, eventualmente nell’ambito del Centro di Coordinamento da istituirsi.
È tuttavia lecito chiedersi se tali complessità non distolgano dall’obiettivo di garantire una partenza snella ed efficace ad un sistema che risulta totalmente nuovo per la maggior parte dei soggetti chiamati a rispondere di tali obblighi.
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Consumatori sì…ma non a tutti i costi…
Il ruolo dei consumatori in qualunque sistema di gestione dei rifiuti è pivotale in quanto primi responsabili della corretta dismissione del prodotto o della scelta di estenderne la vita utile attraverso la riparazione o, nel caso del settore tessile, il riutilizzo o l’eventuale scambio.
In tal senso il decreto riconosce un ruolo fondamentale anche ai distributori e ai punti vendita che rappresentano la vera interfaccia tra produttori ed utenti finali anche se necessitano chiarimenti e riflessioni “operative” i requisiti ad esempio contenuti nell’articolo 12 comma 2 in merito al ritiro in ragione di “uno contro uno” e alla tipologia di “equivalenza”: vale in unità? In peso? Per categorie merceologiche come da allegato 1? Per tipologie più specifiche di prodotto?
È tuttavia bene ricordare che la necessità di coinvolgere i consumatori in un ruolo “attivo” all’interno del sistema non deve risultare in una proliferazione di requisiti o una sovraesposizione di informazioni la cui gestione e manutenzione – così come definita all’articolo 15 dello schema di decreto – risulta di notevole complessità; in particolare è bene definire i limiti tra la necessità ed eventuale utilità – in ottica di gestione del fine vita – delle caratteristiche del prodotto, incluse la loro origine e le modalità di utilizzo, tali da evitare il deterioramento che può essere influenzato da molteplici fattori. Inoltre, una mappatura esaustiva ed aggiornata di “centri per il riutilizzo” prescinde le capacità di un singolo produttore, soprattutto considerando che tali centri difficilmente sono relativi ad un singolo prodotto o brand; si pensi che su prodotti tecnologicamente più complessi come i grandi elettrodomestici, sono oltre 29.000 i centri di assistenza gestiti in Europa dai principali produttori membri dell’associazione di categoria APPLiA.
Se da un lato alcuni dei requisiti indicati nell’articolo 15 sono in linea con le aspettative di sviluppare i cosiddetti “digital product passports”, è bene ricordare come su prodotti relativamente più semplici come le batterie, gli attuali progetti pilota e tentativi di definire l’architettura, il funzionamento operativo e le politiche di gestione del dato, stiano incontrando notevoli difficoltà e si stiano scontrando con l’esigenza di gestire centinaia di data-points senza che esista una chiara e netta corrispondenza tra gestione del singolo dato ed effettivo impatto che tale informazione ha sul consumatore finale.
Seppur condivisibile l’obiettivo di “formare una generazione di cittadini critici, consapevoli e informati, in grado di assumere decisioni orientate verso acquisti sostenibili e buone pratiche ambientali” è lecito chiedersi se tale ruolo spetti semplicemente ed esclusivamente ai produttori o se – probabilmente – non sia un obiettivo più grande che il legislatore dovrebbe perseguire in modo più organico rispetto ad un singolo decreto.
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