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venerdì, Novembre 15, 2024

Il dito e la luna del diritto al clima, tra Italia ed Europa

Alla luce del recente pronunciamento della Corte europea dei diritti umani, che ha squarciato il velo della sepazione dei poteri, la sentenza del tribunale di Roma che respingeva l'inadempienza dello Stato sul clima assume il carattere di un incidente di percorso. E dire che bastava guardare alla Costituzione

Marta Buffoni
Marta Buffoni
Laureata cum laude in Giurisprudenza presso l’Università di Pavia, è avvocato civilista cassazionista e opera presso lo studio che ha fondato con sedi in Novara e Savona. È dottoranda di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale. È componente di redazione della rivista Trusts. Collabora con British Institute of International and Comparative Law sul tema del contenzioso climatico

È tutta una questione di prospettiva. Nel settembre 2021 alcune associazioni e un gruppo di cittadini si rivolgono al Tribunale di Roma chiedendo di accertare e dichiarare l‘inadempimento dello Stato italiano all’obbligazione climatica e, per l’effetto, di condannarlo ad assumere ogni misura necessaria per ridurre le emissioni climalteranti nazionali entro i limiti attualmente consentiti dagli studi scientifici in materia. Prende avvio, così, la prima lite climatica in Italia meglio nota come Giudizio Universale.

Nella sentenza del febbraio 2024 il giudice dichiara l’impossibilità a pronunciare (carenza assoluta di giurisdizione ordinaria), trattandosi di questione di natura politica che, cioè, era compito del Parlamento dirimere.

Nell’aprile 2024, nella sentenza KlimaSeniorinnen, la Corte Europea dei diritti Umani afferma (parr. 545-548) che il rispetto art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, che riconosce il diritto alla vita, alla salute, al benessere, alla qualità della vita, impone a ciascuno degli Stati aderenti alla Convenzione – tra cui l’Italia – l’obbligo di adottare e mettere in pratica, mediante atti normativi vincolanti, misure capaci di mitigare il rischio climatico esistente e potenzialmente irreversibile per assicurare il godimento di quei diritti. Quest’obbligo discende dalla relazione causale che sussiste tra il cambiamento climatico antropogenico e il godimento dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, nonché dal fatto che le norme convenzionali devono essere interpretate e applicate in modo da garantire diritti che sono concreti ed effettivi, non teorici ed illusori. L’adempimento o meno di tale dovere, quindi, è questione sindacabile dal giudice nazionale perché la discrezionalità riservata al potere politico attiene alla diversa questione delle scelta delle misure da adottare, specifiche per ogni Stato, in relazione al singolo contesto territoriale.

Ecco: dopo che la Corte Europea dei Diritti Umani ha squarciato il velo della separazione dei poteri – il dito che il giudice italiano si è incantato a guardare -, pressoché nessuna sostanza rimane della pronuncia resa dal Tribunale di Roma, se non quella di un “incidente di percorso” che uno sguardo aperto al diritto europeo – la luna – ben avrebbe potuto evitare.

Perché è successo? Perché la consapevolezza della “grave e preoccupante condizione planetaria di emergenza climatica”, che il Tribunale riconosce come fatto pacifico, non si è tradotta in una presa in carico della questione – dovuta, oltre che auspicabile, come si vedrà – ma, all’opposto, in una dismissione del problema. Sembra quasi di sentirlo, il buon Dante, che rimbrotta “Questi sciaurati, che mai non fur vivi” (Inferno, III, 21).

Sarebbe stato legittimo un dubbio interpretativo del Giudice italiano sulla portata dell’articolo 8 prima della pronuncia europea? Certamente. La novità della questione nel panorama italiano, ben poteva giustificarlo.

Tale dubbio, invero, potrebbe sussistere ancora, in quanto la Corte Costituzionale ha chiarito (sentenze 348 e 349/2007) che le norme della convenzione europea dei diritti umani non sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno, ma sottoposte al controllo di compatibilità con la nostra Costituzione.

Affrontare il dubbio è, all’evidenza, cosa ben diversa che scansarlo.

Va da sé che l’insorgenza del dubbio ha quale presupposto logico la fatica dell’indagine sul significato della norma, sul suo ambito di applicazione, sulla sua compatibilità con il sistema interno. Presuppone, insomma, una valutazione preliminare che, invece, il Tribunale di Roma ha completamente omesso.

Il dubbio, d’altro canto, è una situazione molto scomoda, finanche potenzialmente incompatibile con l’accelerazione dei tempi decisionali imposta dalla recente riforma del processo civile che – per certi versi – rende la velocità di smaltimento delle cause più apprezzabile della qualità dei provvedimenti resi.

Una fonte di pressione che, però, il giudice è chiamato a saper dominare anziché assecondare. E come si fa?

Leggi anche: Perché in Italia il diritto al clima è ancora un’utopia?

Le lezioni sul clima da imparare

L’obbligo di adeguamento alle norme convenzionali, secondo una lettura costituzionalmente conforme delle stesse, incombe prioritariamente sui giudici di merito (cioè, sui tribunali e le corti d’appello). Il testo degli articoli 9 e 41 della Costituzione, come riformato dalla recente legge costituzionale n. 1/2022, non sembra porre particolari problemi al riguardo.

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Infatti l’obbligo di indicare la tempistica entro cui lo Stato si propone di raggiungere la neutralità nelle emissioni di carbonio e la quota residua di emissioni ancora possibili entro il medesimo periodo (carbon budget), individuato – insieme ad altri – dalla Corte europea (par. 550 lett. a), costituisce una chiara specificazione del più generare dovere di tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi imposto allo Stato dall’art. 9. Allo stesso modo garantisce che l’iniziativa economica non sia esercitata in danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza umana, in conformità a quanto previsto dall’art. 41.

Laddove, tuttavia, il giudice dovesse ravvisare la presenza di una norma nazionale di contenuto contrario alla Convenzione, è chiamato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione del primo comma dell’art. 117 della Costituzione (che impone l’esercizio del potere legislativo anche nel rispetto dei vincoli comunitari e internazionali).

E sarebbe, invero, una bella occasione per la Corte Costituzionale per saggiare la compatibilità, nel sistema interno, di istituti stranieri che, se metabolizzati, consentirebbero di realizzare appieno il disegno sotteso alla riforma costituzionale del 2022.

Mi riferisco, in particolare, alla Public Trust Doctrine (PTD) elaborata negli Stati Uniti a partire dagli anni anni ’70, secondo cui la gestione delle risorse naturali, in ragione della loro vocazione a soddisfare un interesse diffuso, deve essere affidata agli Stati al fine di garantirne la sostenibilità, cioè l’uso responsabile anche nell’interesse delle generazioni future.

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Da questo angolo visuale, gli Stati sarebbero vincolati da un obbligo di natura fiduciaria che comporta il dovere di gestire le risorse naturali nell’interesse esclusivo dei cittadini, attuali e futuri, che ne sono beneficiari, senza conflitti di interessi né scopi ulteriori e/o diversi. Non sarebbe la prima volta, peraltro, che la Corte Costituzionale “recepisce” istituti e procedure di altre esperienze (penso all’ordinanza di incostituzionalità differita nel caso Cappato mutuata dall’esperienza tedesca). Se mai sarà, sarebbe davvero un bel risultato, per tutti noi.

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