Il cambiamento climatico è lo spettro dei nostri tempi. Per questo, lo scorso settembre la Commissione Europea ha proposto “di elevare l’obiettivo della riduzione delle emissioni di gas serra per il 2030 […] ad almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990” con l’obiettivo finale di un’economia climaticamente neutra come stabilito dall’accordo di Parigi. All’interno di questo quadro i processi di economia circolare rivestono un ruolo chiave per il raggiungimento di questo obiettivo.
Accanto ai buoni propositi, però, si stagliano poi le cattive azioni. Secondo il report “The Green Central Banking Scorecard”, pubblicato il 31 marzo da Posite Money UK (una ong britannica che dal 2014 si batte per un’economia “equa, sostenibile e democratica”), le pratiche delle banche centrali dei Paesi del G20 non sono coerenti con gli scenari di transizione ecologica e decarbonizzazione stabiliti dall’Accordo di Parigi sul clima. Il dossier, promosso e sostenuto da 24 istituti di ricerca e ong, è stato diffuso in vista dell’incontro del 7 aprile dei ministri dell’Economia e dei banchieri centrali del G20, che si sono riuniti proprio per discutere, tra gli altri aspetti, di sostenibilità ambientale.
Il ruolo dell’economia circolare nel contrasto al cambiamento climatico
Oggi l’approccio per gestire la crisi climatica è basato sulla transizione verso energie rinnovabili ed efficienza energetica, ma “queste misure riguardano soltanto il 55% delle emissioni. Il restante 45% deriva dalla produzione di macchine, vestiti, cibo e altri prodotti che usiamo ogni giorno”, come spiegato dalla Ellen MacArthur Foundation nel dossier “Completing the picture. How the circular economy tackles climate change”. Mantenendo questo scenario, anche con il più alto tasso di efficienza energetica e uso di energie rinnovabili, sempre lo stesso studio ci dice che arriveremmo al 2100 con 649 miliardi di tonnellate di CO2 derivanti soltanto dalla produzione di acciaio, cemento, alluminio e plastica.
Incentivare processi di economia circolare significa invece puntare alla totale riduzione delle emissioni di CO2, affrontando in un’ottica circolare e trasversale la questione. Sempre la MacArthur Foundation, stabilisce tre punti chiave che possono guidare verso un approccio di questo tipo e che possono essere adottati da tutti i settori produttivi: progettare contro gli sprechi e i rifiuti in ottica circolare, riutilizzare i materiali e riciclare e, infine, incentivare sistemi di rigenerazione naturale per quanto riguarda la gestione dei terreni coinvolti in produzioni alimentari.
Si tratta di processi che possono essere implementati già sul breve termine e che permetterebbero di avvicinarsi all’obiettivo finale in tempo. Al momento, infatti, soltanto il 14% delle imprese è allineato agli standard dell’accordo di Parigi, come segnalato dalla Transition Pathway Initiative, un’iniziativa a livello globale guidata da proprietari e manager che valuta le imprese riguardo i criteri per una transizione ecologica delle stesse.
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Cemento, plastica, acciaio e alluminio
Oggi le industrie del cemento, della plastica, dell’acciaio e dell’alluminio sono responsabili del 60% delle emissioni di CO2 dell’industria in generale. Queste emissioni sono dovute ai processi ad alte temperature, alla produzione in sé e alle emissioni dei prodotti quando giungono a fine vita che, solitamente, vengono inceneriti rilasciando CO2 nell’aria. Fra questi materiali, la sola produzione di cemento comporta 2.4 miliardi di tonnellate di CO2 annui, secondo il dossier “The Circular Economy. A powerful force for climate mitigation”, promosso da Material Economics.
La MacArthur Foundation ha calcolato che se tutte queste industrie adottassero processi di economia circolare nel 2050 avremmo il 40% di emissioni in meno, e cioè eviteremmo 3.7 miliardi di tonnellate di CO2.
Il settore delle costruzioni rappresenta un esempio di un ambito in cui è importante intervenire con politiche di economia circolare. Questo settore, infatti, richiede un’intensa produzione di cemento, acciaio, plastica e alluminio ed è in crescita costante. Non si può pensare dunque di eludere il problema.
In questo caso, allora, economia circolare vuol dire agire su più fronti: non solo eliminare il rifiuto, ma anche incrementare modelli di condivisione degli spazi, che facciano sì che venga usato ciò che già esiste e che vi sia una minore necessità di nuove produzioni; prediligere materiali diversi, progettati per durare e per essere riciclati se necessario; riusare ciò che può essere rimesso in circolo; eliminare il superfluo anche nella composizione stessa dei materiali. Tutto questo porterebbe ad una riduzione del 38% di emissioni di CO2 entro il 2050 per quanto riguarda il settore delle costruzioni.
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L’industria del cibo
Un altro settore che deve essere ripensato è quello della produzione del cibo, che comprende, oltre la produzione in sé, anche il piano della logistica e quello delle emissioni dei rifiuti organici.
Secondo i dati forniti dalla MacArthur Foundation, questo settore è responsabile del 24% delle emissioni totali di CO2. Anche qui, si può puntare ad eliminare 5.6 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2050. Un esempio potrebbe essere incentivare le iniziative contro gli sprechi di cibo (dai supermercati alle grandi imprese) per far sì che lo scarto venga ridotto il più possibile. O ancora, far sì che quello spreco possa diventare compost o essere usato in altre produzioni (cosa che permetterebbe di risparmiare 0.3 miliardi di CO2 all’anno). Infine, all’interno di questo ambito è fondamentale istituire sistemi naturali di produzione, sia per quanto riguarda i pascoli che i terreni, che mantengono l’integrità del terreno e producono meno emissioni.
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Il caso dell’Italia
L’Italia all’interno del panorama europeo rappresenta un caso positivo in quanto è il paese con il tasso più alto di circolarità dei rifiuti (urbani e industriali). Grazie al riciclo dei rifiuti da imballaggio gestiti da CONAI nel 2019 sono stati evitati oltre 4 milioni e 300mila tonnellate di CO2, che “corrispondono al quantitativo di emissioni generate da circa 10mila tratte aeree Roma-New York andata e ritorno”.
In particolare, la filiera della carta rappresenta un’eccellenza nel paese: l’80% degli imballaggi del settore viene riciclato. A questo si aggiunge il fatto che il Paese importa materia seconda (e cioè di scarto) per le proprie produzioni industriali e questo ha un impatto decisivo a livello energetico.
Secondo i dati del dossier “L’Economia circolare in Italia per il Next Generation EU, 2021” realizzato da Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica) e da Symbola – Fondazione per le qualità italiane, «considerando solo il riciclo di 44 milioni di tonnellate di materia infatti, i consumi energetici evitati e le emissioni evitate rispetto ad una produzione da materia prima vergine sono pari a […] 63 milioni di tonnellate di CO2». Che corrispondono all’85% delle emissioni generate dalla produzione di energia elettrica in Italia nel 2020.
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Ripensare il paradigma
Anche alla luce di questi ultimi dati si comprende quanto incentivare politiche di economia circolare possa incidere anche a breve termine sulle emissioni di CO2. Sul lungo termine il risultato non sarebbe, però, soltanto questo, ma un ripensamento generale del paradigma produttivo, che comporterebbe benefici anche in termini economici e di salute sia per chi produce che per chi consuma.
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