Fino a pochi giorni fa di efficienza energetica, in Italia, si era parlato sempre troppo poco. Ora invece, verrebbe da dire, se ne parla abbastanza ma lo si fa male. Perché la recente discussione sulla revisione della direttiva europea che intende accelerare le prestazioni energetiche delle nostre abitazioni e degli edifici pubblici è diventata il più classico dei pretesti per marcare una posizione. La destra al governo, infatti, è scattata a difesa del principio della proprietà privata, con toni che hanno rasentato il fanatismo, perché “la casa non si tocca”.
Al momento la direttiva europea è in fase di discussione: il voto alla commissione Energia del Parlamento europeo è previsto per il 9 febbraio, e il punto di partenza sarà l’accordo raggiunto dal Consiglio europeo lo scorso ottobre, mentre la proposta iniziale della Commissione europea risale al dicembre 2021. Come è noto, infatti, i provvedimenti europei – soprattutto direttive e regolamenti – hanno una lunga fase di gestazione in cui gli Stati membri possono intervenire in più occasioni e a più riprese.
Quel che emerge però dalle trattative in corso, come ha recentemente denunciato l’esperto Davide Sabbadin su QualEnergia, è che il compromesso politico in corso ““lascia aperte le porte alle caldaie a gas“. In che modo? Col grimaldello dell’idrogeno. Proprio così: nell’ultima versione della direttiva si parla delle caldaie hydrogen ready, pronte cioè a funzionare con determinate percentuali di idrogeno. Il problema è che introdurre l’idrogeno nelle abitazioni private comporta al momento un costo particolarmente alto e, soprattutto, la percentuale di idrogeno che si può mischiare al gas è comunque bassa (il 20% secondo le previsioni più ottimistiche di SNAM).
Vale la pena ricordare che la direttiva sull’efficienza energetica costituisce uno dei tasselli del pacchetto Fit for 55, l’insieme di misure definito dalla Commissione europea che intende ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 a livello europeo, rispetto ai valori del 1990. La direttiva prevede che gli edifici residenziali esistenti raggiungano almeno la classe energetica E entro il 2030 e la classe energetica D entro il 2033, con l’obiettivo finale di diventare a emissioni zero entro il 2050.
Perché questi obiettivi spaventano uno stato come il nostro, un paese di proprietari di case? Perché il governo sceglie di supportare queste paure? E quali sono gli impatti di tali scelte?
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L’efficienza energetica a tutto gas
Prima della discussione sull’efficienza l’Italia era concentrata su un altro dibattito, cioè la volontà del governo di trasformare il nostro Paese in un “hub del gas”. E in realtà i due temi sono collegati. Perché scegliere il modo in cui incentivare l’efficienza fa tutta la differenza del mondo. Lo dimostra anche un recente documento di WWF, Greenpeace Italia, Legambiente e Kyoto Club, nel quale si palesa il timore che l’hub del gas sia soltanto un pretesto per incentivare infrastrutture che vengono definite inutili e costose.
“Il governo dovrebbe piuttosto investire da subito e in modo convinto su tutto ciò che realmente agevola la transizione alle fonti rinnovabili e pulite di energia, all’efficienza, alle reti, agli accumuli, alla mobilità elettrica, ecc – scrivono le associazioni ambientaliste – Tutte scelte che non solo hanno risvolti ambientali (climatici) e sanitari (miglioramento della qualità dell’aria) positivi ma anche sociali ed economici: dai benefici derivanti dalla diffusione delle comunità energetiche rinnovabili alla maggiore occupazione che le scelte green sono in grado di determinare”.
Va in tutt’altra direzione, come prevedibile, Assotermica, cioè l’associazione delle imprese di Confindustria che mette insieme i produttori di apparecchi e componenti per impianti termici. A commento di un articolo de IlSole24ore sull’abbandono graduale delle caldaie a gas entro il 2029, così come indicato dal piano REPowerEU (che ha l’obiettivo di rendere i Paesi europei indipendenti dal metano russo), in un post su LinkedIn l’associazione mostra la propria contrarietà anche all’introduzione di un’etichettatura energetica che disincentivi la vendita di apparecchi inefficienti
“Assotermica – si legge nel post – ritiene ancora prematuro il divieto alla commercializzazione delle caldaie a gas. Per l’associazione è fondamentale invece promuovere un approccio multitecnologico, che permetta la coesistenza di diverse tipologie di impianti di riscaldamento che rispettino elevati standard di efficienza energetica. A tal proposito, le aziende della meccanica italiana hanno già sviluppato tecnologie “green gas ready” in grado di sfruttare biocombustibili e idrogeno in blend al 20% e al 100%”.
In questa partita il governo ha scelto di schierarsi dalla parte di chi incentiva il ricorso ai combustibili fossili. Lo dimostra anche il recente avviso pubblicato sul sito del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, “relativo alla concessione di contributi a fondo perduto per la realizzazione di interventi di efficienza energetica anche tramite interventi per la produzione di energia rinnovabile negli edifici delle amministrazioni comunali”. Se lo scopo del finanziamento pubblico, come si legge nell’avviso, è di incentivare le “riduzioni nella spesa energetica a carico dei Comuni”, allora perché vengono previsti agevolazioni anche per le caldaie a gas, che in questo momento ha un prezzo più alto rispetto alle rinnovabili? Perché nell’avviso di parla espressamente di “energia rinnovabile” e poi nel capitolato 6 si prevede la possibilità di installare “caldaie a condensazione a combustibile gassoso”, con le sole richieste che il nuovo impianto sostituisca una caldaia più vecchia e meno performante e che sia dotato di una termoregolazione evoluta?
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Il ruolo dell’idrogeno nel riscaldamento degli edifici
Che la sostituzione del gas con l’idrogeno nelle caldaie, e dunque nel riscaldamento degli edifici, sia uno scenario poco realistico, almeno in Italia e almeno nell’immediato, sembra dimostrarlo il fatto che l’avviso del MASE per l’efficienza energetica dei Comuni non fa alcuna menzione dell’idrogeno. Ancora più interessante in questo senso è uno studio, appena pubblicato sulla nota rivista Science Direct, che prende le mosse dalla contestata direttiva Ue sull’efficienza energetica. Lo studio, intitolato “Planetary boundaries assessment of deep decarbonisation options for building heating in the European Union”, è stato realizzato da Till Weidner e Gonzalo Guillén-Gosálbez, entrambi docenti presso l’Institute for Chemical and Bioengineering di Zurigo.
“Il riscaldamento degli edifici è uno dei settori per i quali esistono molteplici opzioni di decarbonizzazione e le attuali tensioni geopolitiche impongono l’urgenza di progettare adeguate politiche – scrivono i due esperti – Pompe di calore e caldaie a idrogeno, insieme a sistemi alternativi di teleriscaldamento, sono le alternative più promettenti. Sebbene esistano numerosi studi a livello locale o nazionale, rimane controverso quale ruolo dovrebbe svolgere l’idrogeno per il riscaldamento degli edifici nell’Unione europea rispetto all’elettrificazione e in che modo l’idrogeno blu e quello verde differiscono in termini di costi e impatti ambientali”.
Attraverso una serie complicata di calcoli Weidner e Guillén-Gosálbez hanno riscontrato che è preferibile un sistema di riscaldamento degli edifici attraverso l’elettrificazione se si vogliono perseguire gli obiettivi della decarbonizzazione al 2050. “L’aumento della capacità degli interconnettori o dell’energia eolica onshore è fondamentale per rimanere entro i confini – si legge ancora nel report – È stato identificato un forte compromesso per l’idrogeno, con l’idrogeno blu competitivo in termini di costi ma ampiamente insostenibile (se applicato al riscaldamento) e l’idrogeno verde che è 2-3 volte più costoso dell’elettrificazione. Le intuizioni di questo lavoro indicano che le pompe di calore e l’elettricità rinnovabile dovrebbero avere la priorità rispetto al riscaldamento a idrogeno nella maggior parte dei casi e gli aspetti della stabilità della rete e dello stoccaggio dovrebbero essere ulteriormente esplorati, rivelando la necessità di strumenti politici per mitigare l’aumento dei costi per i consumatori”.
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