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lunedì, Dicembre 16, 2024

Cara Terra, quanto ti costiamo?

Sovraconsumo delle risorse, estrazione, perdita di biodiversità. Nella giornata mondiale della Terra ecco il conto salato delle risorse che consumiamo

Simone Fant
Simone Fant
Simone Fant è giornalista professionista. Ha lavorato per Sky Sport, Mediaset e AIPS (Association internationale de la presse sportive). Si occupa di economia circolare e ambiente collaborando con Economia Circolare.com, Materia Rinnovabile e Life Gate.

Era il 1969 e durante una conferenza di San Francisco l’attivista per la pace John Mc Connell propose di onorare la madre Terra e il concetto di pace con una giornata dedicata, che dal 22 aprile dell’anno successivo avrebbe ricordato agli esseri umani la limitatezza delle risorse naturali a disposizione. Nasceva la giornata mondiale della Terra. Tuttavia, proprio da quel 1970, secondo i dati del Global Resources Outlook 2019, l’estrazione di risorse è più che triplicata (da 27 miliardi di tonnellate a 92) ed entro il 2060 l’uso globale di risorse materiali potrebbe raddoppiare a 190 miliardi di tonnellate.

Solo negli ultimi sei anni, tra la COP21 di Parigi nel 2015 e la COP26 di Glasgow, il think-tank Circle Economy ha calcolato che sono state consumate globalmente cinquecento miliardi di tonnellate di risorse. Nonostante il tema sia spesso dimenticato ai meeting per il clima, sono proprio i processi di estrazione, lavorazione, consumo e smaltimento dei materiali ad emettere la maggior parte dei gas a effetto serra (circa il 70%).

Lo studio su Lancet

Alla voce “danni ambientali causati da uso eccessivo di risorse naturali” sembra che siano gli Stati Uniti ed Europa ad essere i maggior responsabili per numero di abitanti. Nella giornata mondiale della Terra, ricordiamo un importante studio pubblicato sulla rivista Lancet Planetary Health, secondo il quale gli Stati Uniti sono colpevoli per il 27% dell’eccesso di uso di risorse, seguiti dall’Unione europea (25%) che includeva il Regno Unito al momento delle analisi. Altri Paesi ricchi come Australia, Canada, Giappone e Arabia Saudita sono collettivamente responsabili del 22%, mentre i più poveri del sud del mondo solo dell’8%.

Nel computo della quota di utilizzo delle risorse, 58 paesi tra cui India, Indonesia, Pakistan, Nigeria e Bangladesh sono rimasti invece entro i propri limiti di sostenibilità. L’autore dello studio, Jason Hickel dell’Istituto di Scienze e Tecnologie Ambientali di Barcellona, ha dichiarato che se venissero bandite le pratiche di obsolescenza e incentivati il riutilizzo, la riparazione, e il riciclo, lo spreco di risorse si ridurrebbe drasticamente.

Le disuguaglianze globali si notano anche alla voce ”Material Footprint”, la quantità di materie prime necessarie per coprire la domanda interna di un Paese. Quelli ad alto reddito consumano in media 27 tonnellate di materiale pro capite; 60% in più rispetto alla fascia di reddito medio-alta; e 13 volte in più del gruppo a basso reddito. Il livello pro capite di consumi nei Paesi ad alto reddito sono, a seconda della categoria di impatto, dalle tre alle sei volte più grandi di quelli dei Paesi a basso reddito.

“L’intensità del materiale” (Material Intensity) invece è un valore calcolato per valutare la produzione, la lavorazione e lo smaltimento di un’unità di un bene o servizio. Grazie all’implementazione di un’economia circolare secondo le proiezioni dell’OCDE il valore decrescerà ad un tasso dell’1,3% all’anno.

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L’intensificarsi dell’estrazione ai tempi della transizione energetica

Una forte crescita nell’utilizzo e consumo di materie si sta verificando anche nelle economie emergenti come la Cina, soprattutto nel settore edile. Secondo un recente rapporto di Chatham House, il cemento, il materiale da costruzione più utilizzato al mondo, è una delle principali fonti di gas serra e rappresenta circa l’8% delle emissioni di anidride carbonica. La sua produzione potrebbe arrivare al 12% delle emissioni totali entro il 2060.

Anche l’utilizzo di carbone, petrolio, gas naturale e sabbie bituminose è cresciuto in termini assoluti (da 6.2 miliardi di tonnellate a 15), ma dal 1970 l’estrazione globale è diminuita del 7% (2017). Secondo il Global Resource Outlook si è registrato invece un aumento dell’estrazione globale di ferro, alluminio, rame e altri metalli (da 2,6 miliardi di tonnellate del 1970, ai 9 del 2017). Estrazione che per via della transizione energetica si intensificherà e metterà sotto pressione la domanda di questi minerali. Per fare degli esempi, gli impianti fotovoltaici richiederanno fino a 40 volte più rame rispetto alla combustione dei combustibili fossili e l’energia eolica fino a 14 volte più ferro. Secondo un articolo di Nature, i miglioramenti nell’efficienza dei materiali e nel riciclo non sono ancora sufficienti per soddisfare la crescente domanda e le implicazioni sociali e ambientali non saranno semplici da gestire.

Intanto l’accelerazione nell’estrazione di materiali dal 2000 in poi ha coinciso con un rallentamento globale del PIL e una crescita demografica. L’economista Fridolin Krausmann ha scritto che “un fattore del fenomeno potrebbe essere dato dall’aumento esponenziale della crescita del PIL in quei Paesi dove si è verificata una transizione – da un’economia agricola ad una industriale – particolarmente intensa nell’uso di materiali ed energia”.

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La giornata mondiale della Terra e gli impatti dell’Antropocene sulla biodiversità

Secondo l’ultimo report dell’IPCC circa 3,6 miliardi di persone vivono in contesti altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Quelli a rischi però non sono solo gli essere umani, ma anche milioni di specie animali.

L’influenza dell’umanità sul declino della natura è così evidente che alcuni scienziati hanno ribattezzato quest’era geologica come Antropocene, inoltre l’indice globale degli esseri viventi presenti nel pianeta continua a diminuire. Per il Living Planet Report emerge una diminuzione media delle dimensioni per il 68% della popolazione di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci tra dal 1970 al 2016. Il calo del 94% osservato nelle subregioni tropicali delle Americhe è stato il più significativo rispetto a qualsiasi altra parte del mondo.

Secondo il report, il 75% della superficie libera dai ghiacciai è già stata significativamente alterata, la maggior parte degli oceani sono inquinati e più dell’85% delle zone umide è andato perso.

I trend delle specie sono importanti perché sono la misura della salute generale dell’ecosistema. Misurare la biodiversità, la varietà di tutti gli esseri viventi è complesso e non esiste un singolo strumento in grado di fotografare tutti i cambiamenti. Tuttavia, la stragrande maggioranza degli indicatori mostra cali netti ultimi decenni. Fino al 1970, l’impronta ecologica dell’umanità era inferiore al tasso di rigenerazione terrestre, oggi, con l’attuale stile di vita dei Paesi ad alto reddito, si sta sfruttando in modo improprio il 56% della biocapacità del pianeta.

“Una vera e propria distruzione degli ecosistemi – denuncia lo studio realizzato in collaborazione con WWF – che ha portato a 1 milione di specie (500mila animali e piante, e 500mila insetti) sull’orlo dell’estinzione. Ma siamo ancora tempo per ripristinare alcuni ecosistemi ed evitare le estinzioni”.

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