[di Claudio Zucca]
Recuperare la lana per recuperare il legame con il territorio: nella Valle dei Mòcheni, in Trentino, quattro donne hanno dato vita a un progetto di recupero della filiera della lana locale.
Sinossi
Nella Valle dei Mòcheni, in Trentino, quattro donne hanno dato vita a un progetto di recupero della filiera della lana locale. Partendo dalla constatazione dell’assurdità del settore tessile trentino, che utilizza materia prima proveniente dall’Australia, e dallo spreco della lana delle pecore autoctone, che rappresenta un costo in termini di smaltimento, si sono adoperate per dare nuovo valore a questo prodotto.
Con la collaborazione dei pastori locali, che hanno regalato la materia prima ben contenti di non doverla smaltire, le donne di Bollait hanno messo in piedi un comitato che si occupa del lavaggio della lana e della realizzazione di prodotti con le tecniche e gli strumenti della tradizione. Il riscontro da parte del pubblico è stato fin da subito positivo, grazie all’attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale e al legame con il territorio.
L’obiettivo principale in questo momento è uscire dal volontariato e creare qualche posto di lavoro, identificando un modello funzionante e funzionale nel contesto della valle. Il sogno è quello di aprire una scuola di lavorazione della lana, per dare continuità al progetto e tramandare le proprie tradizioni.
È dolce l’aria nella Valle dei Mòcheni. Sa di camomilla e di erba appena tagliata. È l’odore della montagna abitata e vissuta dall’uomo secondo Vea, una delle fondatrici del comitato Bollait, che ha accettato di incontrarmi.
La valle trentina dove abita e dove è sorto il progetto, che mira al recupero della filiera della lana locale, è piccola e poco conosciuta, lontana dal carosello turistico che, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha prima stregato e poi travolto altre aree della regione. Qui il rapporto con la natura è rimasto autentico e il tempo scorre lento, parola che Vea ripete spesso durante il nostro incontro, come un mantra.
In questo contesto nasce il progetto Bollait, grazie all’incontro fortuito di quattro donne che condividono la stessa passione, quella per la lana. Barbara, Daniela, Giovanna e Vea sono tutte provette filatrici, e la loro sensibilità e l’amore per il proprio territorio le ha portate a rendersi conto del grande controsenso del settore tessile Trentino. Nella regione, per la realizzazione di prodotti locali, si usa perlopiù lana merino, proveniente dall’Australia, mentre quella autoctona va sprecata e anzi rappresenta un problema in termini di smaltimento. “Ci siamo dette, è assurdo!”, racconta Vea, “e abbiamo deciso di fondare Bollait con l’obiettivo di recuperare una filiera corta, locale”.
Un motivo in realtà per cui la lana australe va per la maggiore c’è: arriva in quantità enormi, tanto da ammortizzare i costi di trasporto, ed è di alta qualità. La lana italiana rappresentava la prima scelta fino agli anni ’70, quando la globalizzazione non aveva ancora accorciato le distanze come oggi e quando ai pastori conveniva investire soldi e tempo nella selezione di pecore per la qualità della loro lana, apprezzata e ben pagata. Il cambiamento del mercato, l’invasione del sintetico e la riduzione del margine di guadagno degli allevatori hanno portato all’abbandono totale di questo settore, tranne che per poche isole felici.
Se un tempo quindi si diceva che “la lana paga la montagna”, oggi rappresenta addirittura un peso e un costo economico per i pastori, che devono smaltirla come rifiuto speciale. È intuibile come questi ultimi siano più che felici di collaborare con Bollait, fornendo la materia prima a costo zero: “Da quando abbiamo aperto ci capita di trovare sacchi di lana fuori dalla porta”, racconta Vea. “Ma non vogliamo continuare sempre così, aggiunge. Vorremmo arrivare a offrire un compenso”.
Ci sono due tipi di allevatori di pecore nella regione: pastori transumanti, presenti solo in Trentino, che hanno grandi greggi, fino anche a 3000 capi. Sono quelli che hanno più difficoltà con lo smaltimento, viste le quantità, e Bollait collabora con un paio di loro. Tuttavia, come spiega Vea, la qualità della loro lana è mista, perché le greggi possono contenere capi di razze differenti, e anche perché i pastori tosano tutte le parti della pecora insieme, senza far distinzione tra il pelo delle gambe, della schiena o della pancia, che è molto diverso. La selezione rappresenterebbe un grosso carico di lavoro in più, che necessariamente va retribuito.
Ci sono poi, soprattutto in Alto-Adige, piccoli allevatori, che hanno al massimo qualche decina di pecore. Si tratta di appassionati, che ben volentieri regalano la lana offrendosi anche di selezionarla, per evitare di sprecarla. Ma spesso sono difficili da raggiungere e bisogna girare molti allevamenti per ottenere una certa quantità di lana, e c’è sempre il problema delle razze diverse.
Il primo anno, il comitato è comunque riuscito a raccogliere un’alta quantità di lana sucida, ben 1000kg, che è stata poi spedita per il lavaggio a Biella, dove opera un consorzio tessile specializzato in tutta la filiera. Ma nonostante l’esperienza positiva, le donne hanno scelto per il futuro di rivolgersi a centri più piccoli, con una maggiore attenzione sia alla sostenibilità ambientale che ai rapporti personali. “Abbiamo bisogno di un impianto a conduzione familiare, che sia interessato a seguirci e anche a darci dei consigli per andare avanti”.
L’obiettivo, nell’immediato, è sperimentare per arrivare a definire un modello, sia per la raccolta che per il lavaggio della lana. “Ci piacerebbe diversificare il processo, raccogliendo in grandi quantità ‘lana da battaglia’ dai pastori transumanti, da utilizzare per le imbottiture, e lana più selezionata per il filato”. Attualmente, parte della materia prima è in lavorazione in Austria per la cardatura, in un piccolo stabilimento della valle Ötztal a cui si rivolgono molte aziende artigianali, mentre per il filato il comitato si è rivolto a un centro veneto.
I prodotti Bollait sono comunque piaciuti fin da subito al pubblico. I piumini, i cuscini, le babbucce, i copricapi, persino i gomitoli di lana grezza o colorata con tinte naturali: è andato tutto a ruba, e la domanda ha ben presto superato l’offerta. “È un buon periodo per questo tipo di progetti: inizia a esserci un maggiore interesse per la sostenibilità e la provenienza dei prodotti che usiamo. Le persone sono molto ricettive alle tematiche ambientali e sociali, e cercano prodotti del territorio. Ha senso anche il contesto in cui li vendiamo: un conto è un mio filato buttato su uno scaffale di un negozio accanto magari a un altro sintetico e più economico, un conto è dedicargli un angolo in una struttura della valle, come una malga o un agriturismo, dove tutto fa richiamo alle tradizioni e a un certo tipo di cultura”.
Proprio la commercializzazione è forse il maggiore limite attuale del progetto: richiede tempo, dedizione, competenza e contatti, difficili da acquisire e perseguire per un piccolo gruppo che opera su base volontaria. “Ma per adesso ci va bene così: l’importante è trovare un modello che funzioni, che fili, e che si autosostenga senza bisogno di finanziamenti esterni”. L’obiettivo è sì quello di continuare il percorso, ma la parola chiave è la lentezza: lentezza intesa come rispetto dei tempi fisiologici, evitando di inseguire la chimera della crescita e dei grandi numeri a tutti i costi, dietro alla quale molti progetti finiscono per perdere l’entusiasmo iniziale e morire. “Il nostro bene primario è la nostra voglia, il tempo e la passione: è ciò che dura di più”.
I propositi sono pochi ma chiari: innanzitutto uscire dal volontariato creando uno o due posti di lavoro fissi e diverse collaborazioni stabili. Uno dei sogni è l’apertura di una scuola dove insegnare le tecniche di lavorazione della lana, per evitare che si perdano nello spazio di una o due generazioni e per dare continuità al progetto. I filati potrebbero diventare un prodotto di spicco per la valle, e contribuire a fare da volano per il turismo. “Un certo tipo di turismo”, specifica Vea, “di cui la valle ha bisogno. Un turismo di nicchia, di persone con la mente aperta, interessate a sperimentare un modello di vita diverso dal proprio e autentico”. Si potrebbe dire, in un certo senso, un turismo lento.
Questo è in fondo il vero significato di Bollait, nome che deriva dall’associazione delle due parole tedesche per “lana” e “gente”, e si può tradurre sia come “gente per la lana” che come “lana per la gente”: un modello di scambio mutuo e sostenibile tra natura, pastori, pubblico e naturalmente le donne da cui tutto è partito, che adottano la lentezza come stile di vita.
Nel silenzio della valle, il suono ritmico del filatoio tra le mani esperte di Vea scandisce il tempo. “Utilizziamo tecniche antiche per la lavorazione della lana e pochi apparecchi, lo strumento più tecnologico che abbiamo è una macchina da maglieria degli anni ‘70”. E così per realizzare 100 grammi di filato si impiega anche mezza giornata, tempi inconcepibili per l’industria, che insegue la velocità e l’abbassamento dei costi. Proprio a questo modello le donne di Bollait vogliono offrire un’alternativa: “Il mondo di oggi è basato sul consumo usa e getta, e se il riciclo è importante, ancora più importante è trasmettere ai nostri figli un ideale diverso, insegnare a non usare”. Vea si infervora quando tocca questi argomenti, ed è qui che traspare il suo entusiasmo e la consapevolezza di aver creato qualcosa che, nel recupero di certi tempi e valori, risulta profondamente innovativo e rivoluzionario.
Mentre me ne vado, assaporo ancora quell’aria dolce, e mi tornano in mente i versi di Alberto Pattini, poeta e fotografo di Trento che ha organizzato una mostra sulla transumanza in collaborazione con Bollait:
“Vivo su un altro livello / nell’eclissi della parola / dove la meraviglia dell’alba /
il calore profondo del tramonto / il canto sinfonico di fringuelli / il rossore pudico delle acque / acquietano e abbeverano il silenzio dell’anima”.
“Un mondo invisibile di lana che vive lentamente percorrendo
le radici della cultura del territorio”