“Parlare di economia circolare significa un cambio molto profondo, vuol dire ridefinire completamente prodotti e processi. É anche un tema che riguarda istruzione e formazione”. Per chi segue da tempo il percorso che faticosamente sta provando a portare avanti la Cgil le parole di Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, non costituiscono una sorpresa. Con oltre 5 milioni di iscritti, la Cgil resta il sindacato più grande d’Italia.
Anche se l’accusa principale che le viene mossa è quella di essere il “sindacato dei pensionati”, di non sapere più intercettare le sfide e i cambiamenti di questa fase complicata del capitalismo che è cominciata col neoliberismo degli anni ‘80 e va verso una transizione che a volte è più greenwashing che sostanza. Gianna Fracassi, che dopo la laurea in Giurisprudenza si è formata presso la Federazione Lavoratori della Conoscenza, è un’assidua frequentatrice dei tavoli e degli incontri sulla sostenibilità, la green economy e, appunto, l’economia circolare. A lei abbiamo dunque chiesto di spiegarci la visione del sindacato, a ridosso della scadenza per la presentazione delle osservazioni alla Strategia nazionale dell’economia circolare.
Dopo le linee programmatiche pubblicate dal governo lo scorso 30 settembre, c’è tempo fino al 30 novembre per inviare i propri contributi alla consultazione. La nostra testata intende raccogliere contributi e spunti per alimentare un dibattito che riteniamo fondamentale.
Leggi anche: Strategia nazionale per l’economia circolare, le proposte del Circular Economy Network
Transizione ecologica vuol dire transizione lavorativa, ma questo non sembra prioritario per i governi. O sbaglio? Anche la Cop26, al di là dell’esito più o meno deludente, da questo punto di vista non ha detto (quasi) nulla.
Al netto dell’esito della Cop26, che non mi sembra un straordinario successo ma un compromesso che non fa fare passi in avanti sulla crisi climatica, è evidente che c’è una sottovalutazione rispetto a due aspetti in qualche modo contrapposti. Da un lato bisogna chiedersi che cosa significa l’impatto della transizione verde, e la conseguente ristrutturazione produttiva del Paese, sull’occupazione che già c’è. Si pone insomma il tema della “giusta transizione”: per attuarla servono non soltanto politiche passive ma anche politiche attive del lavoro, insieme a investimenti mirati per sostenere le nuove filiere circolari e allo stesso tempo riconvertire le filiere esistenti. Dall’altro lato si continua a sottovalutare l’impatto sulla possibile nuova occupazione che la transizione ecologica può generare. In questo momento, dunque, il tema del lavoro non è centrale e questo è un grave errore.
La Cgil da tempo avanza la proposta di un sistema di formazione permanente per i lavoratori e le lavoratrici. Soprattutto, immagino, per quelle aziende che per forza di cose dovranno riconvertire le proprie produzioni, anche se continuano a rinviare questo momento, penso per esempio alle aziende fossili. In cosa consiste questa proposta e come si potrebbe applicare?
La nostra proposta non riguarda soltanto la transizione verde. Il tema più generale è legato alla necessità di riqualificazione e aggiornamento delle competenze e delle conoscenze. Abbiamo di fronte un decennio che vedrà profondi cambiamenti a livello strutturale, legati da un lato alla digitalizzazione (cambiamenti che stiamo già vedendo, penso per esempio allo smartworking) e dall’altro alla riconversione verde. Sarà, aggiungo, un decennio di prospettiva che ci farà comprendere l’importanza di creare un sistema basato sulla formazione permanente e continua che possa garantire l’inclusione nel mercato del lavoro. Per restare nel mercato del lavoro sarà necessario aggiornarsi costantemente di fronte ai rapidissimi mutamenti. E ciò avverrà non solo in Italia ma in tutto il mondo. Il diritto alla formazione permanente è tra l’altro stabilito per legge dal 2012, e ora deve diventare esigibile in un’ottica di sistema. Ad oggi, infatti, siamo di fronte a una frammentarietà di strumenti che spesso non parlano tra di loro, risorse spezzettate tra istituti diversi e risorse non adeguatamente valorizzate. Su questo si apre un terreno di sovrapposizione tra competenze dei vari enti accreditati per la formazione, le università e le regioni: bisogna trovare un punto di convergenza, perché non è possibile che in questo quadro di frammentazione di competenze e conoscenze si sovrapponga una frammentazione istituzionale. L’Unione europea stima che ci siano 128 milioni di lavoratori e lavoratrici che avranno bisogno di una riqualificazione, si parla di circa la metà dell’intera forza lavoro del Continente.
In questo quadro si colloca anche il Pnrr. Lei a Ecomondo ha detto che “avremmo voluto che fossero messe più risorse sulla transizione industriale verso l’economia circolare”. La sensazione è che anche sui fondi del NextGeneration EU le priorità siano altre, o no?
Quello che ho semplicemente detto in quell’occasione è che serve sostenere la riconversione produttiva, perché si tratta di un passaggio che le industrie dovranno fare e, più in generale, si tratta di qualcosa di molto più ampio perché significa rivedere dall’inizio il processo produttivo, a partire dalla progettazione dei servizi e dei prodotti. Trovo che il Piano nazionale di ripresa e resilienza, negli obiettivi che si è dato e che sono stati fissati dall’Europa col Green Deal, non dà adeguato sostegno al processo di riconversione circolare che deve essere accompagnato da tre aspetti: riqualificazione della forza lavoro, politiche industriali e sostegno al lavoro. Il rischio è che, se tutte queste e tre cose non si mettono in campo, il nostro Paese potrebbe restare in una posizione subordinata rispetto ad altri stati che invece investono da tempo, come ad esempio la Germania. Già vediamo l’antipasto di questo passaggio, con gli aumenti dei costi dell’energia e delle materie prime. Ci sono poi filiere già colpite da questo processo, penso per esempio all’automotive. Se non vogliamo subire solo gli impatti di questa doppia transizione, ecologica e digitale, serve sostenere le filiere più a rischio in questa fase.
Per restare all’economia circolare, il documento promosso dal governo per varare la Strategia nazionale dell’economia circolare è più una descrizione dello stato di fatto che un piano di programmazione e strumenti per realizzare i propositi. Qual è il parere della Cgil? Presenterete le osservazioni del sindacato in questa fase di consultazione?
Sì, stiamo facendo un lavoro interno tra le categorie e i territori interessati. Abbiamo già fatto una prima riunione, e stiamo lavorando in queste ore per presentare le nostre osservazioni. Il punto centrale è quello da lei sollevato: manca una strategia industriale, da intendere non solo come settore economicamente individuato. Io penso che il terreno di lavoro sia più ampio, perché l’economia circolare riguarda ad esempio anche il settore agricolo e quello della mobilità. E su questo punto abbiamo riscontrato una notevole mancanza nel documento presentato dal governo.
Leggi anche: Un’Agenzia nazionale per l’economia circolare? Ispra, ENEA e MiTe si oppongono: “le competenze ci sono già”
© Riproduzione riservata