La pandemia da Covid-19 sta mettendo in ginocchio l’economia mondiale. È parere unanime però che la ripresa possa, anzi debba essere “trasformativa”, fondarsi cioè sull’adozione di un modello di sviluppo sostenibile e basato sull’economia circolare. Lo ha messo nero su bianco anche un team di ricercatori dell’università di Warwick nel documento “Un’analisi critica degli impatti di COVID-19 sull’economia e gli ecosistemi globali e le opportunità per le strategie di economia circolare”, pubblicato sulla rivista Resources, Conservation & Recycling. Secondo lo studio, l’attuale situazione di difficoltà può trasformarsi in una vera opportunità per abbandonare un modello economico lineare, non sostenibile nel lungo periodo, e abbracciare con fiducia soluzioni di circolari in tutti i settori. EconomiCircolare.com dedica un focus alle potenzialità della finanza per il raggiungimento di quest’obiettivo in vista della nona edizione della Settimana SRI, Sustainable and responsible Investment (vale a dire “investimento sostenibile e responsabile”) che si svolge dall’11 al 25 novembre con un intenso programma di incontri.
Risorse per fare cosa?
Sebbene nel mondo sia sempre più difficile trovare una volontà politica comune, anche in virtù delle posizioni riluttanti delgi Usa (almeno finché non sarà terminato il mandato di Donald Trump), Brasile, Australia e Cina, l’Unione Europea ha adottato un nuovo piano d’azione per l’economia circolare, uno dei pilastri del Green Deal europeo, il nuovo programma per la crescita sostenibile da cui ripartire dopo l’emergenza Covid-19. Nuove risorse economiche saranno messe a disposizione delle imprese europee per sostenerle in questa fase di transizione, ma occorre comprendere quali siano le modalità più efficaci ed efficienti per impiegarle. Il passaggio all’economia circolare potrebbe generare 4,5 miliardi di dollari di produzione economica annua entro il 2030 e le istituzioni finanziarie possono aiutare a ridisegnare le economie globali cambiando il modo in cui consumiamo e produciamo. In che modo?
Come illustra un nuovo rapporto dell’UNEP FI (qui in pdf), una partnership tra il Programma ambientale delle Nazioni Unite e il settore finanziario globale per mobilitare i finanziamenti del settore privato per lo sviluppo sostenibile, gli investitori responsabili sono chiamati a selezionare attentamente le imprese nelle quali investire, coniugando il rendimento finanziario con impatti socio-ambientali positivi di medio-lungo periodo. In questo modo, gli investimenti saranno indirizzati verso le imprese impegnate a trasformare i propri modelli di business e a mitigare i propri impatti ambientali. Sui mercati finanziari le decisioni d’investimento sono sempre più legate ai temi della sostenibilità e più in generale della responsabilità sociale. O, più correttamente, dobbiamo dire che l’approccio di investimento sostenibile e responsabile (SRI, Sustainable and responsible investment) che sta prendendo sempre più piede rispetta i criteri ESG, acronimo che sta per Environmental, Social, Governance. Aumenta infatti l’attenzione verso l’impatto sull’ambiente, che comprende rischi come cambiamenti climatici, emissioni di CO2, inquinamento dell’aria e dell’acqua, sprechi e deforestazione. Lo stesso vale per il sociale, ossia le politiche di genere, i diritti umani, gli standard lavorativi e per la governance, cioè le pratiche di governo societarie, comprese le politiche di retribuzione dei manager, la composizione del consiglio di amministrazione, le procedure di controllo e i comportamenti dei vertici e dell’azienda in termini di rispetto delle leggi e della deontologia.
La tendenza non è circoscritta al solo ambito della finanza: anche le aziende, tra cui alcune multiutility, fanno crescente ricorso agli strumenti SRI per raccogliere capitali con cui sostenere le proprie attività ad alto impatto ambientale, come dimostra il ricorso crescente all’emissione di green bond. Attenzione quindi: per le aziende ricorrere al cosiddetto greenwashing non sarà più sufficiente. Adottare una strategia di comunicazione tesa a “ripulire” la reputazione aziendale in chiave sostenibile, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dagli aspetti negativi non paga.
Un fenomeno in costante crescita
Negli ultimi anni il mercato della finanza sostenibile registra una crescita importante a livello mondiale, europeo e anche italiano. Secondo i dati della Global Sustainable Investment Alliance (qui in pdf), all’inizio del 2018 il mercato degli investimenti sostenibili nel mondo ha raggiunto i 30,7 miliardi di dollari. In appena due anni, gli investimenti sostenibili e responsabili sono cresciuti del 34%, contro il 25,2% del biennio precedente, quando in totale si fermavano a 22,9 miliardi di dollari.
La maggioranza degli investimenti si concentra in Europa, che rappresenta il 46% del mercato SRI globale (per un valore 14 miliardi di dollari), mentre gli Stati Uniti si fermano al 39%. Ma anche in Italia la scelta di politiche di investimento ESG si sta diffondendo presso un numero sempre crescente di operatori finanziari, banche e advisor.
Nel nostro Paese il numero di fondi ESG cresce a un tasso comparabile a quello europeo: parliamo di 167 nuovi fondi catalogati da Assogestioni come sostenibili e responsabili (dati aggiornati al 31 dicembre 2018). Un patrimonio di 18,5 miliardi di euro, su un mercato interno che conta 4.881 fondi aperti, per un giro d’affari totale di 905 miliardi di euro.
La stessa Banca d’Italia ha deciso di modificare le modalità di gestione dei propri investimenti attribuendo un peso maggiore ai fattori che favoriscono una crescita sostenibile. La volontà è quella di premiare le imprese attente ai fattori ESG sia perché più solide, efficienti, innovative, sia perché meno esposte a rischi operativi e reputazionali. Banca d’Italia ha anche calcolato gli impatti delle modifiche in portafoglio secondo precisi indicatori di “impronta ambientale”, come l’emissione di gas serra (-23% circa), il consumo di energia (-30% circa) e il consumo di acqua (-17% circa, pari a 6,95 milioni di metri cubi).
Secondo la classifica di Assogestioni, al primo posto nel mercato italiano troviamo il gruppo Intesa Sanpaolo, con 26 fondi ESG a fine 2018, per un patrimonio di 5,74 miliardi di euro. Al secondo posto c’è Etica Sgr, che gestisce 3,5 miliardi con sei fondi, pari al 18,9% del mercato, seguita dalla britannica Schroders con il 17,7% per circa 3,3 miliardi di euro e 39 fondi sostenibili.
C’è ancora strada da fare, se pensiamo che nel nostro Paese sono solo sei le società che gestiscono patrimoni superiori al miliardo di euro. Per tutte le altre i numeri sono molto minori, basti pensare che un player come il gruppo assicurativo Generali, su un totale di 468 miliardi di euro, gestisce un solo fondo ESG per appena 26,8 milioni di euro.
Qualcosa però si sta muovendo: nel 2019, ad esempio, Cassa depositi e prestiti e altri 4 istituti europei hanno lanciato, insieme alla Banca europea per gli investimenti (Bei), una iniziativa congiunta, del valore di 10 miliardi di euro, sostenendo lo sviluppo e l’attuazione di progetti per accelerare la transizione verso un’economia circolare all’interno dell’Unione europea nei prossimi 5 anni (2019-2023).
Le mosse dell’investitore responsabile
Un trend sicuramente in crescita, dunque, enche risponde a delle regole ben precise. Gli investimenti ESG infatti, si possono realizzare secondo diverse strategie. Alcune più rigide, che prevedono l’esclusione di determinati settori dal portafoglio sulla base di principi etici degli investitori (per esempio, aziende di settori del tabacco, alcol, gioco d’azzardo, armi e pornografia). Altre più flessibili (impact investing), che abbinano ai risultati finanziari un beneficio concreto anche per ambiente e società civile.
La strategia più utilizzata nel 2018 è stato l’approccio di esclusione, che prevede appunto di escludere a priori dall’investimento singoli emittenti, settori o Paesi sulla base di determinati principi e valori, per un totale di investimenti di circa 19,8 miliardi di dollari. Sempre più diffuse le esclusioni di società legate ai combustibili fossili per promuovere il finanziamento dell’economia verde. Ma stanno crescendo molto anche gli approcci cosiddetti “positivi”.
Pensiamo ad esempio all’integrazione dei fattori ESG (17,5 miliardi), l’inclusione sistematica ed esplicita di considerazioni ambientali, sociali e di governance per la selezione di aziende e progetti virtuosi da finanziare. Ci sono l’engagement e l’azionariato attivo (circa 10 miliardi), che prevedono un continuo dialogo con l’impresa su questioni di responsabilità sociale e ambientale e l’esercizio dei diritti di voto connessi alla partecipazione al capitale azionario. Si tratta di un processo di lungo periodo, finalizzato a influenzare positivamente i comportamenti dell’impresa e ad aumentarne il grado di trasparenza.
Si parla poi di “best in class” (1,8 miliardi) quando gli emittenti in portafoglio vengono selezionati o pesati secondo criteri ambientali, sociali e di governance, privilegiando i migliori all’interno di un universo o una particolare categoria. Ad esempio, un investitore può scegliere di esaminare le imprese attive in un determinato ambito e, sulla base di una comparazione con i concorrenti, selezionare quelle che hanno integrato nel loro business modelli di economia circolare.
L’impact investing (444 miliardi) prevede investimenti in imprese, organizzazioni e fondi realizzati con l’intenzione di generare un impatto socio-ambientale positivo e misurabile, assieme a un ritorno finanziario per gli investitori. Ci sono ancora gli investimenti tematici (un miliardo), ossia titoli in portafoglio selezionati focalizzandosi su uno o più temi specifici, come i cambiamenti climatici, l’efficienza energetica o la salute e quelli basati su convenzioni internazionali (4,7 miliardi), che implicano il rispetto di norme e standard, come ad esempio quelli definiti dall’Ocsa.
Economia post Covid-19
In conclusione, gli investitori dovranno concentrare i propri investimenti su progetti sostenibili che riducano gli impatti negativi delle attività umane sull’ambiente e sulla salute. E inoltre finanziare l’economia reale, costituita soprattutto da piccole e medie imprese, supportando le aziende impegnate nella transizione verso un nuovo modello economico improntato alla circolarità.
Anche le aziende dovranno pensare alla sostenibilità come uno strumento chiave per la creazione di valore e per sostenere la loro competitività in un’ottica di lungo periodo. Il rischio infatti è che, superata la crisi, soprattutto la nostra piccola e media impresa riparta con i modelli lineari consolidati.
Sarà un processo complesso, che necessiterà dell’impegno di tutti gli attori in gioco. Le imprese dovranno capire che non basta più solo produrre qualcosa, ma è fondamentale investire sempre di più nella sostenibilità, rintracciandone il valore economico e finanziario e facendo ricorso a strumenti di finanza sostenibile.
Certamente in alcuni settori ci saranno maggiori difficoltà e alcune aziende necessiteranno di aiuti per sopravvivere, ma le istituzioni dovranno agevolare questo percorso favorendo, attraverso condizioni stabili, gli investimenti sostenibili. Infine, ogni singolo cittadino dovrà essere partecipe del cambiamento attraverso una sempre maggiore consapevolezza delle ripercussioni che le proprie scelte d’investimento e di risparmio possono provocare in chiave ambientale e sociale.
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