Esiste un ostacolo alla diffusione di nuove economie locali e circolari che accomuna molti territori montani: è la monocultura dello sci. L’industria dello sci sovrasta tutto: storie di comunità, studi scientifici, trasformazioni sociali, e anche i segnali preoccupanti della crisi climatica. L’inverno scorso è stato uno dei più miti, con anomalie nelle temperature e nelle precipitazioni, soprattutto nel Nord-Ovest. A farci salire in alta quota con lucidità e attenzione è il rapporto Nevediversa 2022 curato da Legambiente. “Le anomalie termiche più rilevanti, prossime o superiori a +1,5 °C rispetto alla media del nuovo (e già caldo) trentennio di riferimento 1991-2020, si sono registrate lungo le Alpi e in generale al Nord-Ovest. L’osservatorio del Santuario di Oropa, a 1181 m sui rilievi biellesi, con una temperatura media stagionale di 4,0 °C è riuscito a eguagliare il record di inverno più mite, il recentissimo 2019-20, mentre l’osservatorio del Campo dei Fiori, a quota analoga sopra Varese, con 4,2 °C (anomalia +2,3 °C) ha perfino superato il precedente primato dell’inverno 2006-07”, si legge nel rapporto.
Meno neve più impianti
“Nevica di meno ma fioccano gli impianti”, sintetizzano nella pubblicazione gli ambientalisti esperti di neve e montagna. Se le precipitazioni scarseggiano, non si può dire lo stesso dei progetti legati al turismo dello sci, pronti a essere centrali nei piani di sviluppo, negli investimenti privati e pubblici, nei discorsi di molti imprenditori del turismo montano. Molte di queste operazioni ricadono in zone protette e in siti di pregio della Rete Natura 2000 dell’Unione Europea. “Si dimentica – continua il rapporto Nevediversa – che invadere il bello per fruirne a tutti i costi ne mette a rischio la stessa sopravvivenza. Quel che emerge è un quadro problematico e non solo per le numerose proposte di impiantistica a quote molto basse, in contesti dove la neve sarà sempre più rara e gli inverni sempre più brevi. Per come si va profilando la situazione sulle nostre montagne, c’è il rischio concreto che i buoni intendimenti delle direttive europee vengano clamorosamente disattesi. Fintanto che si continuerà a non capire che la natura è ben-essere per tutti, oltre che un alleato vitale nella lotta ai cambiamenti climatici, in Italia sarà davvero difficile raggiungere gli scopi prefissati dalle direttive europee, ma anzi si assisterà ad un probabile arretramento dei siti Natura 2000 e delle aree protette in generale”.
In un reportage video uscito pochi giorni fa su Internazionale, Andrea Zinzani e Danilo Ortelli, ricercatori in geografia dell’università di Bologna, hanno raccolto le voci di chi vive e studia l’ambiente dolomitico. Tra queste voci, quella di Luigi Casanova di Mountain Wilderness lancia un messaggio chiaro: “Penso che il mondo dell’imprenditoria delle alpi e delle dolomiti proseguono sulle vecchie strade dello sviluppo e siano eccessivamente pigre nel ricercare altre forme di turismo invernale”.
Forse, più che di pigrizia, si tratta di dipendenza per un comparto che ormai sembra connaturato alle terre alte. È come se fosse impossibile immaginare altri percorsi imprenditoriali e altre possibilità di vivere la montagna, come se fosse indissolubilmente legata allo sci di massa. Può mancare la neve, ma la stagione sciistica non deve saltare. Così le aziende specializzate “creano la neve a comando, riproducendo l’operato della natura. L’impegno è continuo: ogni anno si investe per potenziare gli impianti di innevamento programmato, aumentare la disponibilità idrica con i bacini di accumulo e offrire così agli sciatori e agli snowboarders piste innevate durante tutta la stagione invernale”.
A leggere il comunicato della Ski area di Campiglio Dolomiti del Brenta, la più grande area sciabile del Trentino, sembra proprio che tutto possa risolversi con dei cannoni sparaneve. Ma come ha fatto l’industria dello sci a diventare l’unico immaginario di queste terre? Per capirlo possiamo leggere Inverno Liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine dello sci di massa, a cura di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli.
Leggi anche: “Rachel dei pettirossi”, il libro su Rachel Carson che parla all’ambientalismo di domani
Gli investimenti pubblici mantengono in vita la favola dello sci di massa
Uscito per i tipi di Derive Approdi, il saggio di Dematteis e Nardelli permette di risalire alle origini del fenomeno dello sci di massa, accompagnando chi legge sulle montagne italiane, tra grandi stazioni sciistiche e operazioni fallimentari, tra paesi che cambiano volto e una classe dirigente che somministra una visione posticcia di futuro a colpi di investimenti pubblici per nuovi impianti.
“Stiamo cercando di allontanare lo spettro della fine di un sistema turismo di massa legato allo sci invernale attraverso ingenti immissioni di denaro pubblico, per spostare in avanti il punto di break even delle stazioni più popolari e accessibili. Ma oggi la pratica dello sci ha visto lievitare i costi, e che sta diventando sempre più sport elitario, spesso senza neve a Natale, oggi che del cambiamento climatico si legge anche sulla gazzetta dello sport nel bar sotto casa. Alla favola dell’oro bianco non credono nemmeno i montanari”, scrivono gli autori nel capitolo dedicato ai finanziamenti pubblici previsti dalla Regione Piemonte. Tra tutti stupisce l’approvazione di un investimento da 6 milioni di euro per realizzare 22 nuovi invasi artificiali in montagna, dove stoccare 650mila metri cubi d’acqua necessari per l’innevamento artificiale.
Gli autori, entrambi grandi appassionati di montagna, hanno il merito di aver messo su carta un compendio sulla storia del turismo in alta quota, che in realtà trova le sue origini in città. “Questa ha come conseguenza che le prime località sciistiche hanno trovato collocazione nei pressi dei grandi centri urbani, che alla fine dell’Ottocento coincidevano con Milano e Torino”, raccontano Dematteis e Nardelli, citando anche gli studi dell’economista Andrea Macchiavelli, esperto di turismo montano. È una montagna addomesticata quella pensata dagli investitori delle grandi città italiane; uno spazio bonificato in cui per molto tempo è stato facile nascondere tutto sotto la neve: conflitti sociali, varianti ai piani regolatori, fragilità territoriali e permessi per costruire residence, reti comunitarie che si sfilacciano in favore di skipass e resort.
Neve e cemento, l’eredità del modello Ski total
Anche il mattone è il protagonista di questa storia, come ricordano sia gli autori che Andrea Macchiavelli: a partire dagli Settanta in Piemonte, in Lombardia, come in Veneto con Cortina D’Ampezzo e in Trentino con Madonna di Campiglio, gli impianti a fune gemmano insieme alle seconde case. Leggendo Inverno Liquido possiamo conoscere la storia di San Sicario, frazione di Cesana Torinese, piccolo comune in Val di Susa. È una vicenda rappresentativa del legame tra neve e cemento: “Un luogo avulso dal territorio che riproduce i connotati delle città. Una sorta di grande residence, più di 1500 seconde case sorte dal nulla, che per lungo tempo ha rappresentato un progetto vincente”, spiegano così la genesi di questa frazione, costruita da zero negli Settanta come un grande centro turistico in funzione della stazione sciistica. La discoteca, la pizzeria, il centro estetico, la sauna, il negozio di prodotti tipici. È il modello Ski total, dove ogni spazio è pensato come complementare alla sciata. Oggi San Sicario è un complesso di case vuote alla ricerca di una nuova vocazione, perché i turisti diminuiscono, le mete invernali cambiano e le recensioni delle piattaforme portano i flussi di villeggianti su altre montagne. San Sicario resta lì, a fare i conti con l’eredità di una monocoltura che l’ha disegnata e poi imprigionata, fino a condannarla alla crisi economica e d’identità.
Leggi anche: “Nelle aree interne non c’è alternativa all’economia circolare”. Intervista al ricercatore Filippo Tantillo
Le olimpiadi invernali Milano-Cortina del 2026
Storie come quella di San Sicario dovrebbero spingere a un ripensamento dello sci di massa, e in generale dovrebbero portare a diversificare le economie territoriali. Invece, le olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026 dimostrano che non c’è alcun cambio di rotta in corso. “Imparare dal passato sembra impossibile. Lo provano la Regione Lombardia e Regione Veneto con le olimpiadi invernali del 2026. Al momento c’è solo la frenesia per aver vinto, senza alcun ragionamento sulle condizioni climatiche e sull’impatto dell’evento. Anzi, al centro c’è solo la logica del grande evento. In sostanza il paradigma è sempre quello, ossia la città arriva in alta quota insieme a grandi investimenti, nuove infrastrutture, si approvano nuovi impianti, si allargano le piste senza tener conto dei segnali climatici”, racconta a Economiacircolare.com Maurizio Dematteis. Nel capitolo dedicato alle olimpiadi invernali del 2026, che prevedono un investimento complessivo di 1,3 miliardi di dollari, Dematteis e Nardelli contrappongono l’entusiasmo delle istituzioni alla lucidità e alle preoccupazioni di chi conosce le montagne lombarde. Accostare l’euforia per le olimpiadi invernali ai dati è un esercizio utile, ma che lascia comunque spiazzati. Presentare le olimpiadi come una soluzione concreta e una prospettiva di ripartenza sembra quasi impossibile dopo aver letto i dati di osservatori importanti sul cambiamento climatico in Lombardia. ClimAlptour, un progetto europeo sugli effetti del riscaldamento globale sul turismo alpino, da più di dieci anni segnala i rischi per le stazioni sciistiche regionali. “Secondo gli studiosi la Lombardia è la regione che maggiormente ha risentito del cambiamento climatico che a partire dagli anni Novanta ha prodotto un accorciamento del periodo di copertura nevosa”. Ma la soluzione alle evidenze scientifiche sembra essere soltanto una: sparare neve artificiale. Da Inverno liquido scopriamo che la Regione Lombardia ha approvato Neve Programmata h48, un piano che dovrebbe salvare le Olimpiadi del 2026 con otto milioni di investimento per assicurare l’innevamento delle piste. Il gruppo olimpico e la politica regionale le hanno già definite olimpiadi low cost e green. Ma questo storytelling non convince più, sono pochi a crederci.
“In questo viaggio tra Alpi e Appennino abbiamo conosciuto nuove consapevolezze, maggiore attenzione agli investimenti da parte di chi vive la montagna. È difficile liquidare le proteste per i grandi eventi o per gli impianti come il popolo del No. C’è uno scontro di visioni, tra chi non nasconde la realtà e chi prova a immaginare rotte diverse per la montagna. Anche se viene fuori un disegno impetuoso, con Inverno liquido vogliamo dare un messaggio di speranza, perché le storie di progetti fallimentari e senza futuro hanno una controparte piena di idee e di coscienza ecologica. Sciare solo se c’è la neve, pensare alla montagna senza l’arrivo della città e del turismo, ricomporre filiere circolari e legami comunitari, sono tutti orizzonti che accomunano molte realtà montane”, racconta Dematteis.
Chi legge Inverno liquido capisce facilmente che il turismo alpino non è affatto un campo neutrale. È uno spazio conflittuale, un campo di discussione destinato ad allargarsi insieme allo scontro tra chi vuole preservare la monocultura dello sci e chi vuole difendere la possibilità di muoversi verso altri immaginari in cui la montagna sia soggetto e non un mero sfondo per una discesa a tutti i costi.
© Riproduzione riservata