A prescindere dalle posizioni, il nucleare in Italia non può fronteggiare il caro bollette. Eppure il ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani continua a tirar fuori l’argomento quando illustra i provvedimenti del governo. Il suo caso, però, è solo l’ultimo di una lunga serie. In parte inaspettatamente, infatti, il nucleare è tornato a far parlare di sè, anche a ridosso del voto del 25 settembre. Non tutti, però, sono d’accordo con questo eterno ritorno.
“Chi in campagna elettorale è a favore del ritorno all’energia nucleare in Italia non pensa al futuro, ma al mondo e alle tecnologie di trent’anni fa. Il nucleare non è la soluzione ma l’opzione più lenta, costosa, rigida e insicura per affrontare la transizione energetica. Ce lo racconta, ancora una volta, l’Ucraina di Chernobyl con quanto sta accadendo nella centrale nucleare di Zaporizhzhia”.
Nicola Armaroli è un chimico, dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), membro della Accademia Nazionale delle Scienze. È uno dei più noti esperti in Italia in tema di energia ed è apertamente contrario all’idea del nucleare come strumento per la transizione ecologica. Oggi lo è ancora ancora di più, nel pieno di questa drammatica crisi energetica, nella quale le sirene del nucleare tentano politica e opinione pubblica.
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L’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie) sostiene che l’energia nucleare avrà un ruolo significativo nell’aiutare i Paesi nella riduzione delle emissioni, perché non è d’accordo?
Ho letto l’ultimo rapporto dell’Aie. Certamente il nucleare non emette CO2 nella fase di produzione elettrica, ma troppo spesso ci si sofferma solo su questo aspetto, mentre ad esempio è fondamentale considerare il fattore tempo per combattere il riscaldamento globale. Se partiamo ora con un programma nucleare, avremo il primo kWh (kilowattora, ndr) tra vent’anni. Peccato che tra vent’anni dobbiamo aver già tagliato drasticamente le emissioni di gas serra. Evidentemente, in altro modo. È lo stesso riscaldamento globale a mettere in discussione l’efficacia dell’opzione nucleare. Nei mesi più caldi dell’anno le centrali nucleari sono spesso costrette a lavorare a intensità ridotta a causa della siccità e della mancanza di acqua per il raffreddamento degli impianti. Allo stesso tempo, l’innalzamento del livello dei mari rischia di far finire sott’acqua decine di reattori collocati sulle coste. Insomma, un elemento cardine nello studio dell’Aie è molto discutibile: il nucleare non potrà garantire in futuro la stessa potenza energetica in qualsiasi momento dell’anno.
Eppure è proprio questo l’argomento forte dei sostenitori del nucleare: energia garantita in grande quantità e in ogni circostanza.
Si pretende di piegare la realtà a una tecnologia, ma il mondo funziona esattamente all’opposto: si adattano le tecnologie alla realtà circostante. Il sistema elettrico sta evolvendo da un sistema in cui pochi grandi impianti (nucleari, a carbone, a gas) producono energia per milioni di utenti a uno di milioni di piccoli-medi produttori che condividono l’energia attraverso sistemi di reti intelligenti, che permettono di tenere sotto controllo domanda e offerta. Impianti nucleari progettati oggi e in funzione tra dieci o venti anni andranno a innestarsi in una rete elettrica radicalmente diversa: digitalizzata, intelligente, con milioni di impianti di stoccaggio di piccola taglia. Il rischio concreto è che diventino una sorta di elefante nella cristalleria perché il sistema che stiamo costruendo rende progressivamente obsoleto il concetto stesso di impianto di grande potenza per il baseload (il livello minimo di domanda su una rete, ndr).
Senza nucleare molti sostengono, però, sarà difficile avere l’indipendenza energetica.
Il consumo di energia mondiale continuerà a crescere per molti anni e questo è indispensabile per sradicare dalla povertà energetica milioni di persone. Molte nazioni consumano poca energia e la loro popolazione cresce a un tasso molto rapido. In un pianeta di 10 miliardi di persone al 2050, per dare dignità energetica a tutti dovremmo circa raddoppiare la produzione di energia primaria rispetto ad oggi. Aumentando l’efficienza, è un obiettivo assolutamente raggiungibile anche senza nucleare, che oltretutto ripropone vecchie dinamiche di colonialismo energetico. La filiera nucleare – anche per ragioni di sicurezza – è in mano a un manipolo di aziende e nazioni: Russia, Stati Uniti, Cina, Francia. Se guardiamo le stime contenute nel report Aie, la crescita del nucleare si concentrerà nelle nazioni in via di sviluppo. E questo fatto le condannerà inevitabilmente a una condizione di “sudditanza energetica”. Dei 31 reattori entrati in costruzione negli ultimi 5 anni, 27 utilizzano tecnologie cinesi e russe. L’uranio utilizzato per alimentare i reattori è concentrato solo in alcune nazioni e oltre la metà del minerale di partenza proviene dal Kazakistan, un Paese sotto la sfera di influenza russa. Ecco perché perde senso anche l’idea che il nucleare sia necessario per emanciparsi dalla dipendenza energetica di Mosca. È importante sottolineare che Rosatom, il colosso nucleare russo, è stato completamente esentato dalle sanzioni. È un argomento totalmente passato sotto silenzio che, adeguatamente approfondito, fornirebbe interessanti spunti.
Si riferisce al dibattito politico nel corso di questa campagna elettorale?
Guardi, preferisco non entrare su temi politici, ma una cosa devo dirla. Il piano proposto da Carlo Calenda per il Terzo Polo non è credibile, numeri alla mano. L’ex ministro dello sviluppo economico propone di arrivare in Italia a installare 40 GW di energia nucleare nei prossimi vent’anni. Per dare un’idea: in tutto il mondo negli ultimi dieci anni la potenza installata è cresciuta di 56 GW. Non solo. Per raggiungere l’obiettivo propone otto impianti da 5 GW: in pratica, otto Zaporizhzhia (la centrale ucraina è la più grande in Europa ndr) in Italia. Una concentrazione di reattori di questa potenza non c’è neppure in Paesi immensi come Stati Uniti e Russia. Neanche in Francia ci sono 6 impianti di quelle dimensioni. Il 94 per cento dei Comuni italiani è a rischio idrogeologico medio-alto: dove li mettiamo? E i depositi per le scorie? La tassonomia dell’Unione europea impone che, per essere finanziabili, i nuovi piani devono individuare siti adeguati per i rifiuti radioattivi entro il 2050, sul territorio nazionale e non altrove. In Italia non li abbiamo ancora trovati per i rifiuti nucleari prodotti 50 anni fa. E ancora: in Italia i governi cambiano mediamente ogni 15 mesi. Un programma nucleare potrebbe reggere 8-10 governi diversi, prima di arrivare all’accensione degli impianti? Ci rendiamo conto che stiamo parlando di un tema a bassissima accettabilità sociale che impegna una nazione per centinaia di anni? Saremo inoltre in grado di trovare in tempi rapidi attori economici che investano 200-300 miliardi di euro in Italia su questo settore? Siamo una delle nazioni meno attrattive dell’Occidente per gli investimenti stranieri a causa di una burocrazia lenta e un sistema della giustizia farraginoso. Cerchiamo di essere realisti: l’Italia è l’ultimo Paese al mondo – non per una, ma per tante ragioni – in cui sia realizzabile un programma nucleare. Un massiccio piano nucleare non è stato fatto neppure in Francia, che ora si trova a gestire un parco vecchio e pieno di problemi: metà dei reattori è fermo per manutenzione. In Germania e in Svizzera le stanno chiudendo. Noi invece dovremmo partire adesso, in controtendenza. Chi può prendere veramente sul serio un’idea del genere?
L’Aie in effetti mette come condizione dello sviluppo del nucleare una modifica del quadro normativo.
L’Aie chiede di cambiare il quadro normativo per impedire che i costi dei reattori non cambino in corso d’opera. È più facile a dirsi che a farsi. Intanto la realtà è che nei pochissimi cantieri europei, negli ultimi trent’anni, i costi sono lievitati fino a raddoppiare e in alcuni casi arrivare a 3-4 volte in più rispetto a quanto inizialmente stimato. In un sistema economico fatto di mercati finanziari, materie prime scarse, inflazione nei costi dei materiali e della manodopera, shock esogeni imprevedibili come una guerra o una crisi finanziaria, è impossibile sperare di poter imporre con un tratto di penna che i costi non schizzino verso l’alto. Senza contare che sono prevedibili aumenti anche per migliorare la sicurezza per prevenire attacchi informatici o terroristici. Se poi si adottasse l’opzione dei cosiddetti reattori modulari (più piccoli) i problemi crescerebbero ulteriormente, perché una delle ragioni che avevano spinto ad aumentare la dimensione dei reattori era stata proprio la necessità di tagliare i costi e aumentare il tasso di controllo e sicurezza. Questo avrà ricadute anche nei tempi di costruzione. Hinkley Point C, nel Regno Unito doveva entrare in funzione nel 2017 e costare 16 miliardi di sterline, ne costerà 26 e non sarà collegato alla rete prima del 2028. Produrrà elettricità a un prezzo garantito di 123 €/MWh, che è almeno il doppio del prezzo dell’eolico offshore nel Regno Unito negli ultimi anni. E i costi aumenteranno ancora dopo le vicende di quest’anno: le centrali dovranno rinforzare ulteriormente la sicurezza per contemplare scenari di guerra. Mancava solo quello per mettere ulteriore sabbia negli ingranaggi…
La Francia è il modello da seguire per Matteo Salvini perché solo così, afferma, le bollette dei cittadini scenderanno.
Io chiamerei la Francia un malato energetico piuttosto che un esempio da seguire. L’elettricità in Francia è oggi tra le più care d’Europa. EDF, il colosso nucleare francese, è stato definitivamente nazionalizzato alcune settimane fa perchè in bancarotta. Se vuoi abbattere le bollette e i costi, il nucleare è esattamente l’ultima cosa da fare. Gli italiani lo sanno bene, visto che continuano a pagare in bolletta i costi per la dismissione degli impianti chiusi oltre 30 anni fa. Il nucleare ha già perso su tutti i fronti. E non sono stati gli ambientalisti a sconfiggerlo. È una tecnologia che in 70 anni non è mai riuscita a risolvere i problemi che la attanagliano: costi, tempi, sicurezza. E il “nuovo nucleare pulito” di cui si parla, non esiste. Blandire i cittadini per ragioni elettoralistiche non va bene, specie in una crisi drammatica come quella che stiamo vivendo.
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