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giovedì, Novembre 14, 2024

Per l’ONU la crescita economica non serve a combattere la povertà

Un rapporto delle Nazioni Unite afferma che l’ideologia della crescita illimitata del Pil per contrastare la povertà ha creato un mondo pieno di disuguaglianze e sull’orlo del collasso climatico. Per cambiare rotta l’economia deve fondarsi, invece, sui diritti umani e su politiche inclusive tra le nazioni

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Pensare di risolvere il dramma della povertà globale solo con la crescita economica è puramente un’illusione. A sostenerlo, senza mezzi termini, è il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in un rapporto firmato da Olivier De Schutter, relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani per l’Onu: l’ideologia economica che vede nella crescita del Pil (il Prodotto interno lordo) lo strumento per portare prosperità in tutto il mondo è “un mito pericoloso”, che guida la scelta di politici e di economisti, ma si scontra con le evidenze della realtà.

Una realtà in cui la ricchezza non arriva a chi sta in basso (come sostiene la teoria del “gocciolamento” o trickle down) e invece di essere redistribuita è concentrata nelle mani di pochi privilegiati, che rappresentano meno dell’1% della popolazione. Oltre alle diseguaglianze, nel suo rapporto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, De Schutter ha descritto nel dettaglio i danni ambientali causati dalle attuali politiche economiche e ha esortato i governi e le organizzazioni internazionali a smettere di usare il Pil come misura del progresso e a concentrarsi, invece, sulla difesa dei diritti umani e sul benessere sociale.

Il punto di partenza del ragionamento è che l’aumento del prodotto interno lordo non è un prerequisito per la realizzazione dei diritti umani o per combattere la povertà e le disuguaglianze, come ci è stato raccontato. Anzi, secondo De Schutter, la strategia tradizionale di promuovere la crescita economica per combattere la povertà ha creato un pianeta sull’orlo del collasso climatico, con un’élite che accumula ricchezze mentre milioni di persone vivono in estrema povertà.

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La crescita economica è nemica dell’ambiente

La crescita economica richiede un aumento del consumo di energia e di risorse a livelli non più sostenibili. Forme di consumo insostenibili da parte di alcuni gruppi della popolazione, soprattutto nei Paesi ricchi, hanno spinto la Terra ben al di fuori di uno spazio operativo sicuro definito dai planetary boundaries. Sei dei nove confini planetari che definiscono la stabilità della Terra e il supporto alla vita che favorisce il benessere umano e lo sviluppo della società sono già stati oltrepassati.

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Sebbene le emissioni di gas serra che causano pericolosi sconvolgimenti climatici ed eventi meteorologici estremi siano forse il problema più noto e quello su cui si discute maggiormente, non sono l’unica pressione ambientale imposta dall’uomo agli ecosistemi. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha recentemente sottolineato che l’estrazione di risorse è triplicata dalla metà degli anni Settanta e prevede un ulteriore aumento del 60% entro il 2060.

Mentre nel 2019 la Piattaforma intergovernativa per la scienza e le politiche sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (IPBES) ha stimato che, a causa delle attività umane, il 75% della superficie terrestre è stato alterato in modo significativo, il 66% dell’area oceanica sta subendo impatti cumulativi crescenti, più dell’85% delle zone umide è andato perduto e circa un milione di specie rischia l’estinzione entro pochi decenni, a meno che non si intervenga per ridurre l’intensità delle cause della perdita di biodiversità. La crescita economica è uno dei principali motori di queste tendenze. “Gli incentivi economici hanno generalmente favorito l’espansione dell’attività umana, e spesso il danno ambientale, rispetto alla conservazione o al ripristino”, nota l’IPBES.

La crescita economica a tutti i costi, infatti, è un sistema aggressivo e predatorio, basato su un concetto di sviluppo e ricchezza che si sostiene solo grazie a un modello produttivo estrattivista che saccheggia le risorse fino al loro esaurimento o alla completa distruzione degli habitat. Sebbene la maggior parte delle persone oggi “sembrano credere che l’attività economica possa espandersi all’infinito, come se la Terra dovesse fornire risorse illimitate per l’eternità e assorbire i rifiuti derivanti dalla nostra ambizione apparentemente senza limite”, accusa De Schutter, è la causa principale della crisi climatica. E a sua volta non solo mette a rischio la sopravvivenza della Terra, ma genera disuguaglianze.

La crescita del Pil non combatte la povertà

L’approccio dominante allo sradicamento della povertà è rimasto in gran parte all’interno dell’egemonia culturale della “crescita senza limiti”: si è fatto affidamento sull’aumento Pil con l’idea che a esso sarebbe seguito una ridistribuzione della ricchezza attraverso tasse e trasferimenti. I governi si sono concentrati sullo stimolo della crescita, ritenuta come una condizione preliminare per la creazione di posti di lavoro e per il finanziamento dei servizi pubblici e delle politiche sociali.

“Scelte politiche come la liberalizzazione del commercio – si legge nel rapporto delle Nazioni Unite – il lavoro flessibile o la creazione di un ‘clima favorevole agli investimenti delle imprese’ (parole in codice per ridurre le tasse e gli oneri normativi alle imprese più grandi) sono state prese in nome dell’aumento del Pil, nonostante tali misure causino esclusione sociale e mettano a dura prova la resilienza delle comunità”.

Il rapporto evidenzia, però, come la crescita economica nel Sud globale non sia riuscita a far uscire le persone dalla povertà. La “ricchezza” in questi Paesi dipende spesso dallo sfruttamento della manodopera e dall’estrazione di risorse per favorire il Nord globale e pagare il debito estero. De Schutter sostiene che anche nei Paesi a basso reddito, dove la crescita economica resta necessaria, lo sviluppo dovrebbe concentrarsi sul benessere sociale e ambientale piuttosto che sull’aumento del Pil. Mentre “le economie dei Paesi ricchi sono cresciute ben oltre il necessario per consentire alle persone di prosperare; sono diventate obese”. Eppure, in questi Paesi, la crescita del Pil non riesce ugualmente a ridurre la povertà e le disuguaglianze e a creare nuovi posti di lavoro.

Crescita verde e sviluppo senza crescita

Poiché ha acquisito lo status di imperativo di Stato “la ricerca infinita della crescita limita l’immaginazione politica: non vengono esplorate a sufficienza strade più promettenti per lo sviluppo, che potrebbero contribuire meglio al benessere umano e alla realizzazione dei diritti umani”, sostiene De Schutter. Che nella sua critica serrata non risparmia un’altra formula su cui si è affidato eccessive speranze negli ultimi anni: la “crescita verde”, ovvero una crescita svincolata dalle pressioni ambientali grazie a tecnologie più pulite e a mezzi di produzione più efficienti, con un uso ridotto di risorse e meno rifiuti e inquinamento.

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I limiti di questo approccio stanno però diventando evidenti. “Non esistono prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un disaccoppiamento assoluto, globale, permanente e sufficientemente rapido e ampio delle pressioni ambientali (sia delle risorse che degli impatti) dalla crescita economica”, ricorda il report Onu. Sebbene all’interno degli stessi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite l’obiettivo 8 faccia riferimento a una “crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile” e nell’obiettivo 8.1 sia stato inserito un target di crescita annua del 7% per i Paesi meno sviluppati, l’obiettivo 17.19 chiede di misurare i progressi “a complemento” del Pil.

Gli stessi leader mondiali riuniti al Vertice sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile nel settembre 2023 hanno concordato sulla necessità di “andare oltre” il Pil. Quest’idea sta prendendo sempre più campo, tra economisti e studiosi, ed è iniziata la ricerca di forme di sviluppo post-crescita, anche su stimolo della stagnazione in cui sono entrate le economie avanzate. È bene ricordare che orientare le economie verso scenari di post-crescita non significa imporre l’austerità, né va confusa con la recessione, anche se le recessioni sono caratterizzate da tassi di crescita negativi.

I temi su cui dovrebbe concentrarsi la politica economica

“Piuttosto, indirizzare l’economia verso un futuro post-crescita – si legge nel rapporto delle Nazioni Unite – significa pianificare democraticamente una transizione verso un’economia che riduca la sua dipendenza dalla crescita, in modo da contribuire alla realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali e alla riduzione delle disuguaglianze”.

E in tutto ciò, l’ideologia della crescita del Pil è un ostacolo e uno strumento di distrazione. “Finché l’economia sarà guidata principalmente dalla massimizzazione del profitto, risponderà alla domanda espressa dai gruppi più ricchi della società, portando a forme di produzione estrattive che peggiorano l’esclusione sociale in nome della creazione di maggiore ricchezza, e non riuscirà a soddisfare i diritti di chi è in povertà. Passare da un’economia guidata dalla ricerca della massimizzazione dei profitti a un’economia dei diritti umani è possibile e, per rimanere entro i confini planetari, necessario”.

Per questo motivo, a conclusione del suo studio, De Schutter ha chiesto un cambiamento radicale nella lotta alla povertà, promuovendo un’economia basata sui diritti umani che dia priorità ai servizi pubblici e alla protezione sociale, rifiutando il Pil come unico indicatore di progresso. Servono misure concrete che vanno dalla ristrutturazione e cancellazione del debito nelle nazioni povere al finanziamento dei servizi pubblici e sociali attraverso tasse progressive sulle eredità, sul patrimonio e sul carbonio, limitando la ricchezza delle industrie che distruggono l’ambiente, per finanziare, invece, misure a sostegno del lavoro domestico e di cura non retribuito o l’istituzione di un salario minimo.

Leggi anche: la rubrica In Circolo sulla Crescita (in)finita

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