Da più parti, come amiche e amici della nonviolenza, veniamo sollecitati ad esprimere un nostro parere sulle svariate posizioni pacifiste – non solo diverse di accentuazione ma finanche contrastanti, seppur tutte richiamantesi al comune principio della nonviolenza – che sono state messe in campo durante queste travagliare settimane in riferimento all’invio di armi e l’impegno della forza militare in Ucraina.
Non siamo rimasti sorpresi da tale articolarsi di posizioni “nonviolente”, poiché come già aveva avuto modo di scrivere Piero Pinna allo scoppio della Guerra del Golfo: “Da tempo veniamo segnalando, nel dilagante superficiale uso attuale del termine nonviolenza (da parte persino di Capi di Stato, detentori e fautori di violenza bellica!), tutta l’improprietà e stortura dei modi di intenderla”.
Nella macchina della propaganda bellica è finito pure Aldo Capitini – insieme a Gandhi, Langer e altri – tirato in ballo e utilizzato come schermo morale da chi non si vuole assumere la responsabilità delle sue scelte nette per l’invio di armi all’Ucraina e per l’aumento delle spese militari; ma Capitini non può essere un paravento nemmeno per un certo “pacifismo da divano” che si limita a scrivere e lanciare appelli, senza contribuire realmente alla costruzione di politiche attive della nonviolenza. La conseguenza pratica della nonviolenza politica, da Gandhi a Capitini, infatti, è l’azione diretta antimilitarista, cioè il rifiuto di collaborare a tutto ciò che tiene in piedi gli eserciti e che prepara le guerre.
Ci sembra opportuno quindi almeno concordare su una condizione minima di partenza senza di cui lo stesso nuovo termine di nonviolenza non avrebbe motivo di essere, privo come sarebbe di un proprio specifico significato: ciò che caratterizza la nonviolenza è l’uso di mezzi nonviolenti anche quando le teorie tradizionali giustificano l’uso della guerra. Ovvero l’uso di mezzi nonviolenti in sostituzione dei mezzi violenti, anche nel caso in cui sembra che di questi non si possa assolutamente fare a meno, e pertanto siano moralmente giustificati. Tale essendo dunque la nonviolenza, vincolati come noi siamo a questa sua essenziale irrinunciabile condizione, non vediamo come non si possano e debbano giudicare improprie, illegittime e inaccettabili tutte quelle posizioni che, anche se affermano di riferirsi alla nonviolenza, arrivano però a giustificare l’impiego della violenza bellica.
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Azioni noviolente per prevenire e far finire le guerre, l’esempio di Capitini
La nonviolenza, dunque, è soprattutto prevenzione della guerra, ma anche quando sono solo le armi a prendersi la scena, qualcosa si può (e deve) fare. In «Il Mattino del Popolo», del 13 marzo 1948 a questo proposito Capitini scriveva: “In quanti modi si può ostacolare l’invasore senza uccidere nessuno! Ma bisogna imparare, bisogna avere pronti certi mezzi. Una noncollaborazione attivissima di moltitudini non è una terza via oltre la guerra e il cedere? […] L’Italia deve dare l’esempio a sé, all’Europa e agli altri del mondo, insensualiti dal possesso selle armi, di modi diversi nell’affermare la civiltà.”
E questi modi (il metodo della nonviolenza) ce li indica lo stesso Capitini:
- Rifiuto di prestare il servizio militare (obiezione di coscienza) o di essere considerati membri dell’esercito (restituzione del congedo militare);
- Rifiuto di pagare la percentuale delle tasse che vanno al bilancio militare (obiezione fiscale);
- Rifiuto di lavorare per ricerche scientifiche destinate all’esercito;
- Rifiuto dell’educazione militarista e della propaganda bellica sui giovani;
- Rifiuto di trasportare materiale bellico, rifiuto dell’industria bellica
Sono tutte azioni all’immediata portata delle singole persone e sostenibili dall’opinione pubblica. Non vederne la possibilità di attuazione, è già una precisa scelta politica; e la guerra in Ucraina sta diventando sempre più anche una catastrofe politica oltreché umanitaria ed ecologica. Non soltanto abbiamo fallito nel preparare condizioni socio-economiche in grado di prevenire la violenza su larga scala; non soltanto abbiamo fallito nel riconoscere per tempo le cause e la responsabilità del danno da parte delle principali parti interessate e né siamo riusciti a impegnarci, in particolare come europei, in una diplomazia che dà la priorità alla dignità e ai bisogni umani delle parti interessate, con una disponibilità al compromesso e l’obiettivo di salvare vite.
Abbiamo fallito pure perché non abbiamo impegnato risorse, economiche ed umane, all’addestramento di persone per un conflitto nonviolento, nella resistenza e nella difesa civile. E continueremo a fallire se non useremo questo tempo della guerra per proposte serie e concrete di una doppia riconversione dell’industria militare e delle relazioni internazionali fondate sugli eserciti.
E a chi ci chiede, come a ogni vento di guerra: “Dove sono i pacifisti? Cosa fate per aiutare l’Ucraina?”, occorrerebbe prima chiedere invece dov’erano loro mentre noi dal 2014 condannavamo l’invasione russa di parti dell’Ucraina e scrivevamo su Azione nonviolenta (come già avevamo fatto per la Siria e per tutte le guerre recenti) che: “In Europa, la guerra, la sua preparazione e la sua minaccia non sono solo memoria, ma ancora realtà. Poco più di un secolo fa l’Europa ‘scivolava’ nella prima guerra mondiale: anche allora le caste al potere non volevano una grande guerra in Europa, ma neppure volevano rinunciare alla guerra, agli armamenti e alla politica delle minacce come mezzo della politica internazionale. Queste stesse ragioni potrebbero portarci nuovamente a ‘scivolare’ dentro un’altra guerra, perché l’accumulazione attuale di armi in Europa non ha precedenti”.
Occorrerebbe, poi, rassicurarli che non si tratta di profetismo, ma della capacità di leggere criticamente la realtà con gli strumenti della nonviolenza capitiniana: le spese militari non servono per accumulare inutili armi nei depositi, ma per realizzare la politica di potenza fondata sulla continua preparazione della guerra. E mentre si è continuato a investire per la guerra, nessuna risorsa è stata destinata per preparare un efficace corpo civile europeo di pace, competente ad intervenire nei conflitti prima che degenerino in guerra e durante di essi con interposizioni, mediazioni, protezione dei civili e azioni di sabotaggio.
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Aiutare la resistenza russa e ucraina alla guerra
Anche durante il periodo tragico della guerra la lezione di Capitini – lui visse la seconda mondiale da antifascista e nonviolento – ci invita a tenere aperti i collegamenti tra i resistenti alla guerra sul piano internazionale, con una specifica attenzione agli attori in guerra: ora è fondamentale far dialogare e sostenere gli obiettori e i disertori russi e ucraini. È quello che stiamo facendo con il Movimento Nonviolento e le nostre reti internazionali (WRI e EBCO-BEOC).
Dall’inizio dell’invasione russa ho rafforzato i contatti già intrecciati negli anni con il movimento pacifista ucraino e il movimento degli obiettori di coscienza russi. Rispetto a quest’ultimo in particolare con Elena Popova: la sua coraggiosa resistenza nonviolenta (che le è costata anche l’arresto, per fortuna ora è “libera”) è nelle azioni di ogni giorno, con la consapevolezza dei propri limiti e la forza di fare la differenza. Mi ha colpito una sua semplice azione nonviolenta, poi ripetuta anche da molti altri e in particolare dai movimenti femministi russi, molto vicini alle posizioni antimilitariste: tornando a casa dopo aver visto vari soprusi contro giovani a una manifestazione ha iniziato ad attaccare con il nostro adesivo per strada e nei negozi un volantino dal testo: Cittadini! Vi prego! Abbiate il coraggio di non sostenere la guerra. “Capisco molto bene che queste parole non fermeranno i missili e i carri armati – scrive la Popova –. Ma possono dare supporto a qualcuno e aiutare ad affrontare la paura. Perché il prodotto più tossico della guerra è la paura”.
Sono migliaia i cittadini russi che sfidando la paura della repressione stanno agendo contro l’invasione russa dell’Ucraina. Molti esprimono la loro posizione attraverso lettere aperte e appelli o semplicemente pubblicazioni sui social media. Il partito Yabloko, la maggior parte dei politici e degli attivisti dell’opposizione, molti deputati comunali in tutto il Paese, e anche diversi deputati della Duma di Stato e del Consiglio della Federazione hanno condannato pubblicamente la guerra. Più di un milione e mezzo di persone hanno sottoscritto la petizione contro la guerra scritta da un attivista dei diritti umani Lev Ponomaryov. Più di 330mila tweet con l’hashtag #нетвойне (russo per “no alla guerra”) sono apparsi su Twitter in uno dei primi giorni di guerra (The Economist, 28 febbraio). I rappresentanti di molte comunità professionali (medici, informatici, insegnanti, designer, scienziati, giornalisti, filantropi e vari operatori culturali) hanno firmato lettere aperte collettive.
Nelle interviste e nei social network un gran numero di russi famosi – musicisti amati a livello nazionale, registi riconosciuti a livello internazionale, conduttori televisivi, attori, sportivi e uomini d’affari – si esprimono contro la guerra. Diversi media indipendenti hanno pubblicato dichiarazioni contro la guerra, e diverse testate giornalistiche sono uscite con copertine speciali. La lista delle persone e delle organizzazioni che si oppongono pubblicamente alla guerra cresce ogni giorno (e ne trovate link alla versione aggiornata anche sul sito di Azione nonviolenta). Tra il 24 febbraio e il 20 marzo più di 15mila persone sono state arrestate durante proteste di massa non autorizzate o picchetti solitari nelle città russe (6.500 a Mosca, 4.100 a San Pietroburgo). Ben 712 persone sono state arrestate e 27 sono state accusate di reato con vari pretesti. Gli attivisti per i diritti umani hanno denunciato violazioni di massa dei diritti dei manifestanti, alcuni manifestanti sono stati torturati dalla polizia. Con le nuove leggi, implementate il 2 marzo, i russi possono ora andare in prigione fino a cinque anni per aver condannato pubblicamente la “operazione speciale” e aver diffuso informazioni “deliberatamente false” su di essa (OVD-Info, 10 marzo).
Alla fine di aprile, c’erano almeno 1.500 casi amministrativi e 100 penali per aver condannato la guerra e diffuso “falsi” sulle azioni dell’esercito russo. Più di 40 media russi sono stati bloccati o costretti a smettere di lavorare sotto la pressione, anche Facebook e Twitter sono stati bloccati in Russia. Alcune persone che avevano firmato appelli pubblici contro la guerra sono state licenziate dal loro lavoro o hanno ricevuto minacce. Dopo l’attuazione di queste leggi, le proteste e le dichiarazioni contro la guerra sono diventate meno diffuse, ma non si sono fermate. Ogni giorno sempre più persone in Russia rifiutano di andare in guerra e di sacrificare la loro vita; e sempre più soldati rifiutano ordini illegali o scelgono la via della diserzione. Come evidenziato dalla teoria nonviolenta del potere politico (in Gandhi e in Capitini per citarne due ad esempio), le defezioni e i cambiamenti di lealtà sono cruciali per il successo della resistenza civile, specialmente quando si verificano tra i funzionari del governo e i membri delle forze di sicurezza.
Quando soldati e ufficiali si rifiutano di partecipare a guerre ingiuste o alla repressione dei civili, il potere dell’autorità illegittima si erode. Quando i soldati negano il loro consenso e non eseguono più gli ordini, il potere comincia a spostarsi. La Russia stessa ha sperimentato questo nell’agosto 1991, quando quattro generali sovietici della linea dura tentarono un colpo di stato militare contro il governo di Mikhail Gorbaciov. Mentre i generali ribelli facevano rotolare i carri armati per le strade di Mosca, il presidente russo Boris Eltsin salì notoriamente in cima a uno dei veicoli blindati ed esortò le truppe a rifiutare ordini illegali. In una trasmissione radiofonica disse a soldati e ufficiali: “Le vostre armi non possono essere rivolte contro il popolo”. Migliaia di moscoviti si precipitarono al centro della città e formarono una catena umana per proteggere la sede del governo russo. Le truppe si rifiutarono di sparare al loro stesso popolo, e il colpo di stato crollò rapidamente.
Si presume che tra le 300mila persone che hanno lasciato la Russia di recente a causa della guerra, vi siano molti uomini che cercano sicurezza all’estero per evitare di essere mandati in guerra. Negli ultimi mesi circa 20mila uomini dalla Bielorussia hanno lasciato il Paese per evitare il reclutamento. Ci sono anche obiettori di coscienza ucraini che non vogliono combattere in questa guerra; circa 3mila uomini hanno chiesto asilo nella sola Moldavia. A ogni cittadino, registrato in Ucraina entro il 24 febbraio 2022, è attualmente concessa la residenza umanitaria nell’Unione Europea. Questo è incoraggiante. Tuttavia, dovremmo considerare seriamente cosa accadrà agli obiettori di coscienza ucraini quando questa disposizione scadrà. I Paesi europei dovrebbero accogliere senza burocrazia queste persone in fuga dallo sforzo bellico e concedere loro un diritto di soggiorno permanente. Come ha ben sintetizzato Yurii Sheliazhenko, segretario generale del movimento pacifista uraino, la nostra posizione non è ferma all’ideologia astratta ma è effettivamente un pacifismo coerente, per usare un termine tradizionale. E quando ci dicono che “non funziona” al contrario dobbiamo avere il coraggio di dire e argomentare che è molto efficace, ma è davvero poco utile per qualsiasi sforzo bellico. Infatti, il pacifismo coerente o diremmo noi meglio la “nonviolenza politica” non può essere subordinata alle strategie militari, non può essere manipolata dal complesso militare-industriale e dalla sua propaganda.
Si capisce allora perché in un appello congiunto ai membri del Parlamento europeo e dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, con un’ampia alleanza della società civile di 20 Paesi abbiamo chiesto ai governi europei di concedere protezione e asilo agli obiettori di coscienza e ai disertori russi, bielorussi e ucraini.
Un appello dal mondo nonviolento, italiano-ucraino-russo
L’obiezione di coscienza e la resistenza nonviolenta sono le “armi” che possono segnare una svolta. Un segnale di pace, un passo per una trattativa dal basso, una diplomazia popolare. La guerra, di aggressione e di difesa, sta distruggendo città e annientando vite, sta rendendo incerto il futuro dell’intera area, sta indebolendo l’Europa, spaccando l’opinione pubblica, sta impoverendo i popoli e arricchendo le industrie belliche. Dal movimento pacifista ucraino, dal movimento degli obiettori di coscienza russi e dal movimento nonviolento italiano, arriva un appello congiunto di unità, l’indicazione di una strategia comune, che vuole essere un primo elemento per costruire la Conferenza di Pace che dovrà sancire la fine della guerra e mettere le basi per un processo di ricostruzione e riconciliazione:
“La guerra è il più grande crimine contro l’umanità. Non esiste guerra giusta. Ogni guerra è sacrilega. Per questo siamo obiettori di coscienza, rifiutiamo le armi e gli eserciti che sono gli strumenti che rendono possibili le guerre. Il conflitto tra Russia e Ucraina può e deve essere risolto con mezzi pacifici, salvando così molte vite. Sappiamo che l’invasione russa in corso in Ucraina viola il diritto internazionale e che l’Ucraina ha il diritto di difendersi dall’aggressione armata, ma non possiamo accettare alcuna giustificazione della guerra, perché siamo persuasi che l’azione nonviolenta sia la migliore forma di autodifesa. Non possiamo accettare le narrazioni russe e ucraine che ritraggono questi due popoli come nemici esistenziali che devono essere fermati con la forza militare. Le vittime di questo conflitto, civili di diverse nazionalità, muoiono e soffrono a causa delle azioni militari di tutti i combattenti. Ecco perché le armi e le voci dell’odio devono essere messe a tacere per cedere il passo alla verità e alla riconciliazione. Facciamo parte dell’Internazionale dei Resistenti alla Guerra (WRI) e dell’Ufficio Europeo per l’Obiezione di Coscienza (EBCO-BEOC), e lavoriamo insieme in un unico grande movimento per la pace. Ci rivolgiamo ai nostri governi (ucraino, russo, italiano) affinché attivino subito ogni strada diplomatica possibile per un tavolo delle trattative per il cessate il fuoco. I nostri popoli sono contro la guerra. I nostri popoli hanno già subito l’immenso dramma della seconda guerra mondiale, hanno conosciuto i totalitarismi, e vogliono un futuro di pace per le nuove generazioni. Siamo per il disarmo, siamo contro le spese militari; vogliamo che i nostri governanti usino i soldi del popolo per combattere la povertà e per il benessere di tutti, non per nuove armi. Un inutile sforzo bellico non dovrebbe distrarci dalla risoluzione di urgenti problemi socioeconomici ed ecologici. Non possiamo permettere ai politici di gonfiare la loro popolarità e alle industrie militari di trarre profitto dall’infinito spargimento di sangue. Conosciamo l’efficacia della nonviolenza come stile di vita e forza più potente dell’ingiustizia, della violenza e della guerra. Stiamo lavorando sia per la resistenza nonviolenta alla guerra che per le trasformazioni sociali, sviluppando una cultura di pace che riporterà i soldati ad essere civili e distruggerà tutte le armi. Crediamo nella libertà, nella democrazia, nei diritti umani e lavoriamo affinché i nostri paesi si rispettino a vicenda. La coscienza individuale è una tutela contro la propaganda di guerra e può salvaguardare dal coinvolgimento dei civili nella guerra. Faremo tutto il possibile per proteggere il diritto umano all’obiezione di coscienza al servizio militare nei nostri paesi. Ci sentiamo come fratelli e sorelle, e siamo solidali con coloro che oggi soffrono a causa di questa guerra e di ogni altra guerra nel mondo.”
Obiezione di coscienza e altri strumenti di pace, anche in Italia
In Ucraina, in Russia, in Europa, in Italia, chi rifiuta le armi parla un’unica lingua, quella della pace. Tutte le guerre hanno lo stesso volto di morte, in Ucraina come in Afghanistan, nello Yemen come in Siria. Per fermare la guerra bisogna non farla, non prepararla. Per cessare il fuoco bisogna non sparare. È questo il senso profondo dell’obiezione di coscienza: difendere la vita, la libertà, la giustizia, con la nonviolenza che è vita, libertà, giustizia. Per questo come movimento nonviolento, aderente a Rete italiana Pace e Disarmo, proponiamo a tutti di firmare una dichiarazione che sarà poi consegnata al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, allo Stato Maggiore dell’Esercito in occasione del 15 dicembre 2022 per i 50 anni dalla legge italiana sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare: non contate su di me se volete coinvolgervi nella guerra con più armi, più spese militari, più violenza.
Si tratta di un’altra possibilità di agire aperta a tutti che si aggiunge alle azioni e campagne disarmiste e nonviolente portate avanti in questi anni e alle nuove iniziative di pace che la guerra in Ucraina ha generato (ad esempio la Carovana di Stop the War now a Leopoli, con altre due in preparazione per Odessa…). La marcia Perugia-Assisi del movimento nonviolento del 1985 aveva un programma chiaro: Contro il riarmo: Blocchiamo le spese militari. Siamo ancora lì. Si fanno affermazioni di principio, ma poi le scelte in Parlamento vanno nella direzione opposta. I partiti parlano di pace ma poi votano gli aumenti delle spese militari, il sostegno alla Nato e l’invio di armi anche nei teatri di conflitti. E ancora nel 2000 il movimento nonviolento convocò su indicazione di Piero una marcia Perugia-Assisi specifica: Mai più eserciti e guerre. Siamo ancora lì. L’obiettivo politico resta quello antimilitarista. Non solo bisogna uscire dalla generica richiesta di pace, e affrontare il vero nodo che è quello di togliere risorse all’industria militare; ma anche sostenere, promuovere, inventare forme sempre più avanzate di difesa civile non armata e nonviolenta alle quali formare le popolazioni. Se leggiamo la storia non come conta dei cadaveri sparsi sui campi di battaglia, ma come “conta dei salvati” (ce lo ha insegnato in Italia la storica Anna Bravo) ci accorgeremmo di essere in buona compagnia e che non c’è nessun bisogno di ripartire da zero: non solo le grandi iniziative e campagne di Tolstoj, Gandhi, Martin Luther King, ma pure la resistenza nonviolenta contro il nazismo di Franz Jägerstätter in Austria, della “Rosa Bianca” in Germania, del popolo danese; i partigiani senz’armi in Italia come Riccardo Tenerini, l’antifascismo nonviolento di Silvano Balboni e ancora prima l’antimilitarismo socialista di Giacomo Matteotti che invitò l’Italia allo sciopero generale contro la guerra; e le tante e mille azioni di boicottaggio, sabotaggio, disobbedienza civile che ogni guerra e dittatura hanno visto nascere.
Contro l’obiezione dell’efficacia, poiché qui sarebbe oltremodo lungo discutere e argomentare dai singoli casi, oltre al fatto che non si capisce perché mai chi propugna la violenza della guerra non debba mai rispondere allo stesso quesito dando per scontato ciò che la storia ha continuamente negato (ovvero che la violenza delle armi sia efficace nella risoluzione dei conflitti), rispondo con questa acuta osservazione di Jean Marie-Muller: “Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti per la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di ciò che può essere fatto, cercando di discernere ciò che è possibile da ciò che non lo è. Comunque se la nonviolenza non può permetterci di risolvere subito tutti i nostri problemi, ci permette almeno di impostarli in maniera giusta”.
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