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venerdì, Dicembre 13, 2024

Tutte bocciate sulla sostenibilità, il report che inchioda le aziende fossili

“Big Oil Reality Check” è il report dell’ong Oil Change International che analizza gli impegni presi dalle compagnie petrolifere attraverso i loro piani di sostenibilità. L’analisi è stata compiuta su una scala di dieci criteri. Mentre un altro report critica i governi per aver fatto affidamento sul gas

Carlotta Indiano
Carlotta Indiano
Classe ‘93. Giornalista freelance. Laureata in Cooperazione e Sviluppo e diplomata alla Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso a Roma. Si occupa di ambiente ed energia. Il suo lavoro è basato su un approccio intersezionale, femminista e decoloniale. Scrive per IrpiMedia e collabora con altre testate.

Nessuna delle otto più grandi compagnie di gas e petrolio al mondo, tra le quali c’è l’italiana Eni, rispetta gli Accordi di Parigi e gli impegni internazionali sulla crisi climatica. Una notizia che preoccupa in vista della Cop27, la Conferenza mondiale sul clima che quest’anno si terrà a Sharm el-Sheikh, in Egitto.

A dirlo è “Big Oil Reality Check”, il report dell’organizzazione Oil Change International che analizza gli impegni presi dalle compagnie petrolifere attraverso i loro piani di sostenibilità. L’analisi è stata compiuta su una scala di dieci criteri basati su ambizione, integrità e bisogni delle persone. Il cane a sei zampe è l’unica tra le big oil&gas che c’entra almeno un criterio. Una magrissima consolazione se si considera che i piani delle altre compagnie sono di gran lunga insufficienti a soddisfare anche solo uno dei dieci criteri.

E, nonostante ciò, “gli impegni e i piani di Eni in materia di clima non si avvicinano nemmeno lontanamente all’Accordo di Parigi” spiega a EconomiaCircolare.com David Tong, autore del report e global industry campaign manager all’Oil Change International. “Anche se non c’è più spazio per nuovi progetti di petrolio e gas se vogliamo allinearci allo scenario dell’1,5ºC, l’azienda ha significative ambizioni di espansione. I progetti che ha proposto nel piano di investimento da qui al 2025 comporterebbero un inquinamento aggiuntivo equivalente alle emissioni di otto nuove centrali a carbone”.

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Nessuna delle multinazionali del petrolio e del gas rispetta gli Accordi di Parigi

L’Oil Change International è un’organizzazione di ricerca e advocacy che si occupa di esporre i costi reali delle compagnie fossili e di facilitare la transizione in corso verso un’energia pulita. Nel report la ong analizza i piani strategici di BP, Chevron, Eni, Equinor, ExxonMobil, Repsol, Shell e TotalEnergie.

“Abbiamo identificato i dieci criteri prima di pubblicare il nostro rapporto originale Big Oil Reality Check nel 2020 – spiega David Tong – Quest’ultima analisi si sofferma su ciò che sarebbe necessario per limitare il riscaldamento a 1,5ºC. I nostri due punti di partenza per questa analisi sono stati il Rapporto speciale dell’IPCC del 2018 sull’1,5ºC, che mostra come l’inquinamento globale da Co2 dovrebbe approssimativamente dimezzarsi in questo decennio, e le analisi che abbiamo pubblicato negli ultimi anni e raccolte nel volume The Sky’s Limit”.

Chevron e ExxonMobil sono insufficienti su tutti i criteri ma più in generale nessuna delle compagnie considerate nel report si avvicina anche solo lontanamente agli obiettivi degli Accordi di Parigi. Per i ricercatori dell’Oil Change International c’è una costante che accompagna il settore energetico negli anni: le aziende che hanno contribuito di più a generare la crisi climatica non possono essere credute quando parlano di risolverla.

In effetti, sebbene l’imperativo di ridurre la produzione di petrolio e gas è quel che viene ribadito da istituti come l’IPCC e l’Agenzia Internazionale dell’Energia, le attività esistenti e gli investimenti previsti indicano che la maggior parte delle compagnie petrolifere analizzate è sulla buona strada per continuare a espandere la propria produzione. Tenendo pur conto di alcune decisioni che hanno ridotto la produzione rispetto al 2021 – ad esempio la BP ha abbandonato la sua partecipazione al gigante petrolifero russo Rosneft, ponendo fine a tre decenni di attività nel Paese, con un calo di produzione del 22% – la maggior parte delle aziende fossili  continua a proporre nuovi progetti di estrazione.

Attraverso il Rystad Energy Database, una società di consulenza e ricerca indipendente che fornisce dati, strumenti ed analisi rispetto al settore dell’energia, il report Big Oil Check ne individua 200. Se i progetti delle Big Oil fossero approvati entro la fine del 2025, contribuirebbero alla produzione di ulteriori 12.5 miliardi di barili di petrolio e oltre 1.7 miliardi aggiuntivi di gas fossile per un addizionale di 8.6 miliardi di emissioni al 2050. Vale a dire l’equivalente di 77 nuovi impianti a carbone e più di un quarto delle emissioni globali del 2020.

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I limiti della decarbonizzazione delle aziende fossili

Il report dell’Oil Change International individua quindi una serie di questioni complesse nella gestione della crisi climatica da parte delle società messe sotto la lente di ingrandimento. Le aziende petrolifere basano ancora la decarbonizzazione su scenari irrealistici e rischiosi come la CCS (Cattura e stoccaggio del carbonio) e la CDR (rimozione della diossina dall’atmosfera) senza considerare il phase out (l’eliminazine graduale) dal gas e dal petrolio la priorità energetica dei prossimi anni.

Inoltre, non si può pensare di smettere di investire in nuovi siti per l’estrazione e la produzione di petrolio e gas senza immaginare di interrompere l’utilizzo dei giacimenti esistenti. Utilizzando solamente l’attuale capacità di gas e petrolio senza investire in nuovi progetti corriamo comunque il rischio di raggiungere i 2°C. Anche se smettessimo di usare il carbone all’improvviso i giacimenti esistenti di gas e petrolio da soli ci spingerebbero oltre la soglia dell’1.5°C.

I nuovi progetti di estrazione e produzione di petrolio e gas finiscono anche per riprodurre la trappola del carbone (carbon lock – in): i siti già operanti o in costruzione implicano capitale investito, nuove assunzioni, infrastrutture già costruite, una trappola che rende difficile limitare le estrazioni da questi siti rispetto ai progetti non ancora realizzati. Chiudere i giacimenti esistenti rappresenta una sfida maggiore sia politicamente che economicamente rispetto a stoppare lo sviluppo di nuovi.

La conclusione del report è quindi sempre la stessa: smettere di sviluppare progetti nuovi non è sufficiente, bisogna impedire di far partire quelli già approvati. D’altra parte uno studio di marzo 2022  del Tyndal Centre aveva già fatto notare che per una giusta transizione i Paesi ricchi devono raggiungere il phase-out da petrolio e gas entro il 2034 per mantenere il mondo in linea con 1,5°C e dare alle nazioni più povere la possibilità temporale di sostituire la loro dipendenza dalla produzione di fonti fossili.

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La giustizia climatica ignorata

Uno degli aspetti evidenti del report dell’Oil Change International rispetto alle precedenti analisi dell’organizzazione è l’attenzione ai temi della giustizia climatica e sociale.  “Prima di pubblicare il rapporto di quest’anno, abbiamo rivisto i criteri sulla base di una interpretazione più olistica dell’Accordo di Parigi” ci dice ancora David Tong.

Rispetto proprio alla necessità di impedire lo sviluppo di nuovi progetti di estrazione e produzione del gas, quattro organizzazioni ambientaliste stanno avviando un’azione legale per porre fine al sostegno di 30 progetti di gas sostenuti dall’UE, per un costo totale di circa 13 miliardi di euro. I progetti riguardano il trasporto, lo stoccaggio e l’importazione di gas, compresi gasdotti e terminali GNL, come il gasdotto EastMed da 7 miliardi di euro, il gasdotto Melita Transgas, il terminale di importazione GNL di Cipro, il Baltic Pipe e il gasdotto Poseidon tra Grecia e Italia. Il ramo esecutivo dell’UE ha fino a 22 settimane per rivedere la sua decisione iniziale ma se la Commissione non riuscisse a fornire una giustificazione legale soddisfacente, il caso potrebbe essere portato davanti alla Corte di Giustizia Europea.

Friends of Earth Europe, ClientEarth, Food & Water Action Europe e CEE Bankwatch Network sostengono che l’elenco prioritario dei progetti è stato stilato da Bruxelles senza tenere conto delle emissioni di metano, un gas che secondo gli esperti ha un potenziale di riscaldamento globale più di 85 volte superiore a quello della CO2 nei prossimi 20 anni. Le organizzazioni denunciano che la Commissione non ha considerato l’impatto ambientale derivante da nuovi progetti di infrastrutture per il gas nonostante le leggi sul clima dell’Ue e i suoi obblighi legali vincolati dall’Accordo di Parigi.

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Chi ha creato il problema non può risolverlo

Ma c’è di più. Secondo il report “Global reaction to energy crisis risks zero carbon transition. Analysis of government responses to Russia’s invasion of Ukraine Climate Action Tracker June 2022” del Global Action Tracker, finora i governi non hanno colto la possibilità di riorganizzare le proprie forniture energetiche allontanandosi dai combustibili fossili. Al contrario, stiamo assistendo a una vera e propria corsa globale per la produzione di nuovi gas fossili, gasdotti e impianti di gas naturale liquefatto (LNG) con il rischio di incappare nel carbon lock-in, definizione anglosassone che abbiamo già incontrato e che sintetizza quella sorta di inerzia al cambiamento generata dai sistemi energetici basati sui combustibili fossili.

O, più precisamente, il circolo vizioso che fa sì che un sistema basato sulle fonti fossili scoraggia gli investimenti pubblici e privati per incentivare energie alternative, in quanto è un sistema che si autoalimenta con una quantità mostruosa di denaro e di sforzi produttivi. Per uscire dal fossile, insomma, non ci si può rivolgere alle aziende fossili. Come sostengono da tempo i movimenti e le ong ambientaliste, e come hanno ricordato ad esempio alla recente Cop26, chi ha creato il dramma della crisi climatica non può risolverla.

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