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venerdì, Novembre 15, 2024

Perché in Italia la raccolta dei RAEE non decolla?

L'estrazione di materiali preziosi da dispositivi elettrici obsoleti è riconosciuta come cruciale. Da parte propria l'Italia si è dotata, al riguardo, di un sistema organizzato, che però è inefficace. Quali sono le possibili cause? E quali potrebbero essere le soluzioni più adatte? Ecco cosa dicono le figure del settore

Giovanna Vernarecci
Giovanna Vernarecci
Nata a Genova il 27 maggio 1959 e residente a Roma. Laurea in giurisprudenza nel 1985 e in teologia protestante nel 2003. Avvocata civilista fino al 2021. Dal 2019 ha avviato il podcast Radio 21 aprile Web con il quale dal 2023 cerca anche di promuovere comportamenti responsabili verso l’ambiente

Dire miniere urbane significa evocare l’idea di beni preziosi, che occorre cercare per rendere disponibili, ma, anche, che si trovano molto vicino a noi, nelle nostre città. E infatti, nel caso dell’urban mining, le miniere sono le apparecchiature elettriche ed elettroniche dismesse dalle quali è possibile estrarre materie preziose o rare rispetto ai giacimenti minerari, oppure il cui isolamento è necessario ai fini di rigenerazione, riuso e riparazione.

Come è intuitivo, per estrarre tali materie è necessaria una tecnica complessa, che richiede specializzazione ed innovazione continua: servono, dunque, soggetti tecnicamente ed imprenditorialmente idonei a svolgere la relativa attività. Sotto il profilo della gestione, quel che occorre è, in primo luogo, una serie di norme che accompagni tutto il ciclo: dalla mappatura dei soggetti cui si demanda l’estrazione, alla facilitazione della raccolta a fine uso di questo tipo di scarti, all’approntamento di un apparato capace di assicurare che essi, una volta conferiti correttamente, arrivino alle competenti stazioni di estrazione, senza andare perduti.

La buona notizia è che, nel nostro Paese, un sistema che sappia rispondere alle necessità appena elencate esiste, è normato, è pensato in ottica di economia circolare, e prevede incombenti, responsabilità e titolarità dell’onere delle spese per ciascun attore del procedimento.

Ma allora, perché invece la raccolta RAEE non funziona?

Quello che c’è già: strumenti ed impostazione del sistema

Poiché per formulare ipotesi su cosa manchi è sempre buona norma fare l’inventario di quel che c’è, ripetiamo anzitutto che la struttura normativa esiste: c’è il decreto legislativo 49 del 2014, modificato ed armonizzato anche alla luce delle direttive in materia dell’Unione Europea e ci sono anche regolamenti UE – in quanto tali, direttamente operativi negli Stati membri – che tendono a garantire il tracciamento dei prodotti, ad esempio tramite il recentemente istituito passaporto digitale del prodotto, o per mezzo di altre specifiche norme finalizzate alla trasparenza circa la sorte di determinati prodotti di consumo invenduti.

La mappatura e la stazione di coordinamento? Presenti anche quelle: in esecuzione del regolamento UE n. 185 del 2007 è stato istituito il Comitato di Coordinamento RAEE, operante sotto la supervisione del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che gestisce, tra l’altro, l’elenco a cui devono iscriversi tutti gli impianti di trattamento di RAEE.

Il CdC RAEE – che esplicitamente si richiama all’ottica dell’economia circolare – ha fissato punti importanti, ponendo la responsabilità della gestione in capo ai produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche e bilanciando i costi di gestione e di smaltimento tra produttore (per alcuni tipi di RAEE) e consumatore (che, acquistando un apparecchio elettrico o elettronico, paga un cosiddetto eco-contributo)

Inoltre, il CDC RAEE ha stabilito la gratuità del conferimento, che può avvenire presso le isole ecologiche, o anche presso i punti di vendita; e, certo non ultimo, ha previsto un sistema di sanzioni  nel caso di violazione della normativa prodotta: al punto che, come emerge da una banalissima ricerca su Google con i termini RAEE e smaltiment, sono fiorite le imprese (private) che offrono i propri servizi alle aziende per evitare loro di incorrervi, attraverso un processo “virtuoso” che le stesse agenzie dichiarano di garantire.

Eppure, è lo stesso CDC RAEE ad informare che – in assenza di diminuzione sia del consumo sia della raggiunta obsolescenza – proprio la raccolta dei RAEE provenienti dalle più diffuse e più spesso sostituite apparecchiature elettriche ed elettroniche (ossia tv e monitor) è diminuita nel 2023 del 32% rispetto al 2022; e che la raccolta relativa alle altre quattro categorie di RAEE (frigoriferi, condizionatori, scalda-acqua, macchine per lavare, piccoli elettrodomestici e sorgenti luminose) è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa.

Dove si trova, l’intoppo (ammesso e non concesso che sia uno solo)?

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Quello che non funziona

Sicuramente, tra i primi punti su cui agire in ottica di perfezionamento, c’è la regolamentazione del conferimento: gratuito, sì, si è già detto, tuttavia differenziato in due forme, di cui la prima, detta 1 contro 1, prevede la consegna del vecchio apparecchio al punto vendita dove si acquista l’apparecchio nuovo, e la seconda, 1 contro 0, prevede la semplice consegna presso i punti vendita delle apparecchiature dismesse.

Non tutte le apparecchiature, però, e non tutti i punti vendita: perché si possa usare il sistema 1 contro zero occorre, infatti, che l’AEE che si riconsegna abbia misura inferiore a 25 cm; se è di dimensioni superiori l’accettazione del conferimento è obbligatoria solo per quei punti vendita che hanno una superficie di almeno 400mq dedicata appunto alle apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Il che significa, ovviamente, che il consumatore che voglia, poniamo il caso, conferire un phon dovrà assicurarsi prima che il punto vendita che ha scelto rivesta le qualità dimensionali sopra indicate (se amiamo le battute possiamo immaginarcelo armato di metro o di altro strumento misuratore mentre si avvicina alla Lidl sotto casa); oppure – come è probabile se è un consumatore che nella vita svolge, oltre a quella del conferimento di un RAEE, anche altre attività – semplicemente si terrà il phon in casa o, peggio, lo getterà nottetempo nella indifferenziata.

Resta, ovviamente, per il conferimento, l’ipotesi isola ecologica. Che però è di quasi più difficile realizzazione, vuoi per la scarsità numerica vuoi per gli orari – quasi sempre non compatibili con quelli lavorativi della maggior parte delle persone che potrebbero volervi accedere.

“La raccolta di RAEE è tornata nel 2023 ai livelli raggiunti nel 2019″ dice Giorgio Arienti, direttore Generale di Erion WEEE – consorzio di produttori AEE per l’adempimento della normativa sui RAEE. “E non è perché i cittadini italiani abbiano smesso di generare RAEE, anzi. Ma, essendo scarsamente consapevoli dell’importanza dei RAEE, ne fanno di tutto, a partire dal tenerli in casa anche quando ormai in disuso; inoltre, anche se volessero conferirli virtuosamente, le difficoltà sono tali che spesso si finisce per adottare vie brevi, quali la consegna ad un robivecchi o sedicente smaltitore qualsiasi, facendo così perdere le tracce della “miniera urbana” che hanno in casa”. Arienti inoltre ricorda che in Italia ogni abitante raccoglie 6 kg di RAEE all’anno, mentre secondo l’Unione Europea dovrebbe raccoglierne 11.

Questa scarsezza di risultato ha cause tra loro diverse e con diverse vie di uscita. C’è innanzitutto una regolamentazione che rimane inadeguata ad evitare che i RAEE finiscano – per scarsa competenza o eccessivo amor di semplificazione di chi riceve i conferimenti – trattati come “semplici” rifiuti ferrosi. Inoltre sussistono ancora (in attesa che “nascano” le AEE in linea con il regolamento sulla progettazione ecosostenibile approvato dalla UE lo scorso maggio) tutte le difficoltà causate dalla carenza di ecodesign delle apparecchiature attualmente in uso, ancora chiaramente connotate, oltre che da obsolescenza programmata, da difficoltà di smontaggio ed altrettanta difficoltà di reperire pezzi di ricambio e, anche, soggetti competenti per effettuare il ricambio.

E ancora, è assente una vera campagna di sensibilizzazione dell’utenza finale delle AEE. A confermarlo è Claudia Brunori, da poco nominata direttrice del dipartimento ENEA per la sostenibilità. Per Brunori mancano “sistemi incentivanti, non solo sotto il profilo economico, ma anche capaci di semplificare la vita”. E questo nonostante la buona volontà di enti come ENEA ed Erion che in alcuni casi hanno potuto realizzare, sia pure se su un territorio molto ristretto, eventi volti proprio allo scopo di rendere la raccolta dei RAEE qualcosa di semplice e anche, sia pur minimamente, premiante: cassonetti per RAEE intelligenti e piccoli buoni sconto offerti da commercianti ed enti pubblici in cambio di conferimenti secondo le norme.

D’altronde poiché i RAEE sono classificati, tutti, come rifiuti pericolosi (e in molti casi lo sono, per il danno all’ambiente che potrebbe derivare dalla loro dispersione) è allo stato alquanto improbabile che possa realizzarsi quella liberalizzazione dei punti raccolta che, ad esempio secondo Giorgio Arienti sarebbe assolutamente necessaria a risolvere questa parte del problema. Non solo: l’Italia, segnala Arienti, è (anche) prigioniera di una specie di circolo vizioso, perché dato che raccoglie poco, attrae pochi investimenti; e dato che non ci sono gli investimenti la raccolta non è incentivata.

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L’importanza delle terre rare

Eppure il recupero dei materiali preziosi, o critici, dai RAEE non è – o non dovrebbe essere – un’opzione, per almeno due ordini di motivi. Da un lato, questa raccolta è condizione necessaria per diminuire la dipendenza italiana da Paesi che invece ne hanno miniere vere e proprie, e in senso classico – ma che non sempre sono collaborativi, o facilmente raggiungibili: si tratta, ad esempio, della Cina, di alcuni stati dell’Africa, del Donbass.

Si tratta di una predominanza produttiva decisamente inquietante. “Negli ultimi 20 anni”, dice ancora Brunori, “la Cina, che possiede molte e ricche miniere delle materie prime rare, ha creato un sistema di alleanze strategiche con altri Paesi, grazie al quale è di fatto in grado di dettar legge anche agli altri mercati: basta pensare alla cosiddetta guerra delle terre rare”. ll riferimento è al 2019, quando alla Cina, esasperata dalla guerra commerciale dichiarata da Donald Trump allora presidente degli Stati Uniti, fu sufficiente chiudere il relativo mercato delle terre rare per spegnere ogni bollente spirito di ribellione.

La questione delle terre rare e loro estrazione non ha però solo un rilievo di sicurezza commerciale se non nazionale, come sottolinea ancora. Brunori: il sistema RAEE, infatti, se ben gestito, è “un potenziale valore aggiunto per il nostro territorio sia in termini di beni sia in termini di creazione di posti di lavoro innovativi”.

Date queste premesse, la domanda è: perché mai questa materia ha così poco appeal per il nostro governo (e non solo quello attuale)? Come abbiamo visto, l’Italia si adegua alle normative europee in materia – anche quando non si tratta di regolamenti – con una pedissequità che colpisce in una governance così tradizionalmente tiepida quando non inerte sui temi ambientali. Tuttavia, a tale adeguamento segue una realizzazione pratica che sembra non riuscire proprio ad entrare nel cuore di un soggetto – lo Stato – che, se ci credesse veramente, dovrebbe creare e far decollare una serie diffusa di incentivi alla raccolta capace di raggiungere tutti gli attori del sistema; dovrebbe insistere negli investimenti sul settore; dovrebbe destinare a questo tema risorse – economiche ma anche umane – ben superiori a quelle attualmente promesse.

Invece, e senza che ci sia vera reazione, “solo una parte – e neppure quella preponderante – dei RAEE raccolti arriva veramente ai gestori” dice Antonio Pergolizzi, che del tema della raccolta degli scarti si occupa da diversi anni, e questo non perché si voglia lasciare indisturbata la malavita che rivende i rifiuti ferrosi senza starsi molto a preoccupare di isolarne i RAEE – succede, ma è tuttora una parte del mercato illecito assolutamente residuale e poco premiante sotto il profilo economico – ma perché manca vera motivazione a gettare il sasso in uno stagno che sembra soffrire di asfissia autogenerata – il circolo vizioso di cui parla Giorgio Arienti.

Perché, allora, restiamo a terra?

È dunque evidente che una raccolta dei RAEE che non funziona adeguatamente, e che invece di crescere arretra ai livelli del 2019, è la spia di un mancato sviluppo a livello più ampio dell’economia circolare. Un circolo vizioso, per tornare a usare il concetto espresso dal dg di Erion WEEE, che si alimenta, anche, di norme imposte senza la necessaria formazione – e che dunque sono spesso lette come qualcosa che bisogna osservare al solo scopo di evitare le sanzioni; di sanzioni a loro volta assolutamente “sostenibili” (si paga ma si continua a lavorare nel circuito in maniera indisturbata); di intolleranza alla burocrazia – peraltro ampiamente condivisa con il consumatore che, probabilmente, è portato a concludere che lui il suo l’ha già fatto, pagando l’eco-contributo quando ha comprato il frigo nuovo; della già segnalata mancanza di campagne di sensibilizzazioni e di incentivi a un comportamento virtuoso, cui si unisce la fragorosa assenza di controlli che caratterizza non solo questo campo del nostro sistema di convivenza sociale.

Quale il motivo di tanta inanità? Eccessiva fiducia nella livella del mercato (che nelle speranze dovrebbe scoprire da solo le potenzialità di questo settore e da solo metterlo in funzione)? Incapacità, o mancanza di interesse, a programmazioni che, in quanto necessariamente a lungo termine, difficilmente si tradurranno in moneta elettorale? Il quadro attuale è quello di una miopia di governo che, tanto più paradossalmente in un sistema economico così fatalmente attratto dal liberalismo, corre il rischio di soffocare un mercato che, invece, ha tutti i numeri per essere, o almeno poter diventare, davvero interessante.

E se le miopie di governo difficilmente si correggono, quel che è necessario è una diffusione capillare del tema, colmando, dove occorre, le lacune istituzionali.

Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente

© Riproduzione riservata

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