La sensibilità ambientale guadagna spazi nella vita delle persone, nelle scelte dei governi e delle imprese: e la sostenibilità delle nostre auto? Come si sta comportando l’automotive, una delle filiere con rilevanti responsabilità nelle più urgenti questioni ambientali? Ne parliamo con Roberto Sposini, giornalista, esperto di motori (ha scritto sulle pagine delle testate più autorevoli), autore (per Edizioni Ambiente) di “Neomateriali nell’Economia Circolare. Automotive” e Chief mobility editor per Lifegate.
Leggiamo che tutte le grandi case automobilistiche stanno facendo investimenti sull’elettrificazione dei veicoli. Si sta facendo abbastanza o si va col freno a mano tirato per prolungare la vita dei vecchi modelli endotermici?
La questione è più complessa di quanto non appaia. E una premessa va fatta. È la leggerezza il sostantivo che più spinge l’innovazione nel settore dell’automotive. Non solo l’evoluzione dei sistemi propulsivi, o quella delle batterie, che sono solo la punta dell’iceberg. Oggi c’è un’auto che guarda già altrove. Alla riduzione di consumi ed emissioni, ovvio. Ma, soprattutto, a una rivoluzione che ha volti e risvolti diversi: la guida autonoma, l’idrogeno, l’ibrido e l’elettrico, i carburanti alternativi. Insomma, sono tanti gli aspetti da coniugare in questa corsa evoluzionistica. E un’auto più leggera, sostenibile, qualunque sia il motore che la muove, corre sicuramente più veloce verso il futuro…
Ma entriamo nel merito. Se da una parte c’è la rincorsa all’elettrificazione – da non confondere con la ben più lenta “camminata” verso l’elettrico puro – dall’altra c’è la previsione di molti, abbastanza condivisibile, che i motori diesel non si estingueranno prima di una ventina d’anni. Meglio (o peggio, dipende dai punti di vista), faranno i motori a benzina, destinati nelle previsioni a muovere le nostre auto almeno fino al 2050.
Salvo colpi di scena. All’orizzonte c’è infatti la nuova normativa europea sugli standard d’inquinamento, l’Euro 7, il cui arrivo è previsto per il 2026 e che, se la Commissione Europea confermerà gli attuali orientamenti, potrebbe prevedere un drastico abbassamento dei limiti delle emissioni a 30 mg/km per gli ossidi di azoto, un limite che potrebbe rendere anzitempo la produzione di motori benzina e diesel non più sostenibile.
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La normativa avrà, quindi, un ruolo centrale parallelo a quello della tecnologia.
Questo almeno lo scenario più accreditato. Il che non significa, evidentemente, che nel frattempo motori diesel e benzina non siano coinvolti, mutati, evoluti, dall’elettrificazione, sfruttando le potenzialità dell’intera scala evolutiva dell’ibrido, dal cosiddetto (e un po’ pretestuoso) “mild” hybrid al più evoluto ed auspicabile ibrido plug-in.
Uno scenario molto fluido, dunque, in cui anche l’idrogeno – meglio se prodotto da rinnovabili – potrebbe riservarci nuovi exploit, come dimostrano Hyundai, Toyota e Honda. E dove l’elettrico, con l’imminente arrivo delle batterie allo stato solido e forme di ricarica più consone al nuovo millennio (come l’induzione) è ormai destinato a un’adozione planetaria.
Insomma, qui a scommettere sulla “svolta” elettrica sono in molti, tutti anzi (vedasi anche la recente “conversione” di Toyota, da sempre sostenitrice dell’ibrido come soluzione definitiva). Una svolta che però ha bisogno di tempi, non brevissimi, come abbiamo visto. E di qualche risposta in più: il dibattito sempre aperto (e senza soluzioni certe, almeno ad oggi) è quello sulle emissioni di anidride carbonica prodotte dall’attuale mix energetico, che vede carbone e gas naturale ancora saldi come principali fonti e, ancor di più, sui costi sociali della transizione energetica.
Ma ci sono altri aspetti da considerare, che potrebbero incidere sulla transizione, forzandone i tempi.
A cosa si riferisce?
In primis alla pressione dei governi. Già, persino l’Italia – non esattamente fra le avanguardie su innovazione e mobilità sostenibile – con la nascita del nuovo ministero per la Transizione ecologica si prepara a rispondere alle esigenze del Green Deal europeo e, seppur interessata ormai marginalmente dalla presenza di siti produttivi automotive, dovrà comunque allinearsi alle azioni di tutela previste dagli otto punti del Green Deal, che oltre alla mobilità sostenibile includono l’economia circolare e le rinnovabili, altri due aspetti strettamente connessi all’evoluzione del comparto.
Ma investire sull’elettrificazione non basta.
Ci spieghi.
Ci sono altre macro-criticità che dovremmo inserire fra le priorità di governi e industria. Parlo degli investimenti per il trasporto collettivo, la ciclabilità, lo sharing e la logistica delle merci. O della necessità di organizzare una filiera industriale della mobilità elettrica, che guardi sia alla riconversione delle industrie, sia alla valorizzazione della forza lavoro; solo così l’economia circolare diventa anche sociale.
Ma torniamo all’auto e alla sua prima domanda. Quel che è evidente è che la quasi totalità dei costruttori dispone già, o ne disporrà a breve, di un’intera gamma di modelli elettrificati, senza per questo dire necessariamente addio ai carburanti fossili e ai motori endotermici.
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Per non perdere la possibilità di rientrare il più possibile degli investimenti pregressi?
Il perché non è unicamente legato a strategie aziendali. Anzi, le maggiori resistenze al cambiamento sono da ricercarsi altrove.
Fino a che ci saranno compagnie petrolifere, specie quelle a partecipazione o di proprietà statale, pronte a investire migliaia di miliardi nel prossimo decennio in progetti di estrazione di petrolio, gli stessi governi, ancor prima dell’industria dell’auto, avranno un bel dilemma da risolvere: rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima e puntare sulla transizione energetica o – come potrebbero fare Cina (che pure è il maggior mercato per l’auto elettrica), India e Russia – continuare a rendere disponibili grandi quantità di combustibili fossili, fornendo di fatto un alibi all’industria automobilistica per frenare la transizione?
Anche l’Italia, nel suo piccolo, ci mette del suo; da una parte aderisce al piano Next Generation Eu per sostenere le politiche di transizione energetica, dall’altra, in Basilicata ha appena dato il via all’ennesima attività estrattiva: 50 mila barili di petrolio al giorno, 230 mila metri cubi di gas naturale, 240 tonnellate di gpl… Capite perché dire addio ai carburanti fossili è complesso?
Insomma, l’auto è ormai un caso di geopolitica, una partita a scacchi che si gioca su molti tavoli. E uno dei tavoli più ambiti a cui sedersi potrebbe essere quello del 46esimo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden: se il nuovo inquilino della Casa Bianca terrà fede agli impegni e trasformerà entro il 2030 gli USA nel nuovo paradiso delle auto elettriche, l’industria avrà una ragione in più per accelerare. Prima però, Biden dovrà vedersela con le resistenze dell’American Petroleum Institute, la più importante lobby americana dell’oil&gas, da sempre contraria alle politiche a sostegno dei veicoli elettrici.
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Il passaggio all’auto elettrica viene presentato come la panacea di tutti i mali dell’automotive. Ma se può abbattere le emissioni (a patto che, come ricorda, si utilizzi energia rinnovabile) non è sufficiente a ridurre l’impatto ambientale complessivo del settore. Ad esempio la direttiva 2000/53/CE prevede che i veicoli siano composti per l’85% di componenti riutilizzabili o riciclabili. Le case automobilistiche sono pronte alla transizione verso l’economia circolare? I nuovi modelli sono disassemblabili e riciclabili?
La direttiva 2000/53/CE faceva riferimento a un’Europa in cui, ogni anno, i veicoli fuori uso generavano tra gli 8 e i 9 milioni di tonnellate di rifiuti. Un’enormità. Oggi, per fortuna, le cose vanno diversamente. Da allora, riutilizzabilità, riciclabilità e recuperabilità sono diventate un mantra per l’industria dell’auto, sempre più virtuosa e “circolare”. Dove la “circolarità” non è più un’opzione, ma un obbligo. Poi, certo, la questione è complessa, perché l’auto è un “prodotto” complesso, elaborato, pesante. Il più pesante fra quelli di cui ci circondiamo quotidianamente, composto com’è da metalli, plastiche, vetro, tessuti. Per non parlare delle batterie al litio, il cui impatto va ben oltre le loro dimensioni fisiche.
Ecco, chiarita la complessità, lo sforzo che l’industria dell’auto sta compiendo avvicinandosi sempre più a un modello virtuoso e circolare di economia è notevole, anche se spesso invisibile all’occhio del consumatore.
I costruttori non comunicano a sufficienza il cambiamento in atto?
E la ragione della scarsa “comunicabilità” dell’argomento è la possibile resistenza delle persone, molte ancora in dubbio sul fatto che “rigenerato” possa avere un’accezione negativa, quasi sminuente per un prodotto costoso come l’auto. È qui che l’industria ha ancora molto margine, proprio nel racconto di come l’auto sta evolvendo, non solo nella forma, o nell’autonomia elettrica, ma anche e soprattutto nei suoi valori intrinsechi, materici, in quell’invisibile che sarà sempre più determinante.
La questione è di vitale importanza e non solo per l’industria dell’auto. Il consumo di risorse idriche durante il ciclo produttivo e di vita, carburanti esclusi, è notevole e va dal consumo nella fase di produzione, a quello per l’estrazione e la lavorazione del ferro e delle materie. Per non parlare della CO2 emessa.
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L’economia circolare può essere una delle soluzioni?
Ancora una volta la via è la leggerezza. Materiali compositi, strutture e leghe di alluminio o di magnesio da un lato. Dall’altro, certamente occorre uno sforzo maggiore sul recupero della materia, di quella di scarto durante la produzione, ma anche sul ciclo chiuso dell’acqua, sull’uso di energie rinnovabili, della raccolta e riciclo degli scarti e degli imballaggi.
A questo, c’è una parola d’ordine a cui le case automobilistiche hanno aderito all’unisono, seppur con indici di “virtuosità” diversi: remanufacturing. Una parola destinata ad entrare nell’uso comune, che presuppone un crescente impiego di parti “riparabili”, reimpiegabili. In una parola, rigenerabili. Solo così la circolarità dell’auto può trovare pieno compimento; tanto più saremo in grado di rigenerare i componenti di un’auto, tanto più potremo reimpiegarli su nuovi veicoli riducendo drasticamente emissioni, tagliando consumi di acqua, materia ed energia. Ecco, questo è l’obiettivo da perseguire. E da comunicare senza timori al consumatore, perché non ci si debba mai più vergognare di acquistare un’auto in cui la materia rivive e si rigenera.
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Come lei sottolinea, la decarbonizzazione non riguarda solo la fase di utilizzo, ma anche quella di produzione dei veicoli. I big dell’automotive stanno lavorando sulla circolarità dei materiali? E sulla riduzione dell’uso delle fonti fossili (dall’energia alla plastica)?
Sì. Ma non sempre è una scelta. Spieghiamo meglio. A spingere in questa direzione sono soprattutto le normative internazionali, sempre più stringenti su temi cruciali come consumi ed emissioni. Come già sottolineato, la leggerezza è un obiettivo fondamentale e la via non può che essere la progressiva sostituzione delle parti in metallo che compongono ancora in gran parte le nostre auto con altre in plastica, a tendere con più evoluti biopolimeri di origine vegetale o animale. O con materie più leggere e sostenibili. E la ragione è semplice: ridurre del 10 per cento il peso di un veicolo significa tagliarne i consumi fino al 7 per cento, o allungarne l’autonomia elettrica. L’adozione di polimeri capaci di assorbire meglio rumore e vibrazioni è ormai diffusa.
Pomodoro, riso, cocco, il resistentissimo bambù, la pasta di legno e la canapa, sono queste le materie prime che a tendere troveremo sempre più “nascoste” nelle nostre auto, magari nei sedili, nei tappetini o in parti invisibili ma vitali. Pensate alla poliamide, che può tranquillamente sostituire la plastica di derivazione fossile. Non dobbiamo inventare niente, c’è chi l’auto biologica l’ha scoperta già negli anni Trenta del secolo scorso, quando Henry Ford pensava già allo sviluppo di componenti a base di soia. Se l’avessero imitato… Una cosa è chiara, tutte le case automobilistiche sono consapevoli di dover ridurre il loro impatto e per farlo sanno anche che, oltre a cicli produttivi più efficienti, oltre all’uso di energie rinnovabili, puntare di più sui neomateriali per l’auto è un obbligo inderogabile. E la natura già oggi ci fornisce gli strumenti per farlo.
Le batterie hanno e avranno sempre più un ruolo centrale, non solo per l‘automotive. Le case automobilistiche stanno dando la giusta attenzione alla fase produttiva (quindi l’origine dei materiali impiegati) e a quella del fine vita (riutilizzo, riciclo)?
La diffusione dell’auto elettrica porta con sé importanti sfide, industriali, tecnologiche, ma anche e soprattutto geopolitiche. E le batterie sono uno dei punti più critici e dibattuti dell’elettrificazione dell’auto. La ragione è che oltre alla sostenibilità ambientale nei cicli produttivi, di smaltimento e riciclo, c’è un tema legato all’etica e ai diritti umani, ben più complesso e delicato come vedremo a breve. Investire in un futuro sostenibile, con l’obiettivo imprescindibile di puntare senza esitazione verso modelli di economia circolare, richiede livelli di investimento e implementazione notevoli, che oggi solo una ridotta percentuale del comparto automobilistico globale soddisfa in modo convincente.
Quindi è innegabile un certo ritardo.
Sì. E la ragione risiede spesso nel fatto che non basta avere una strategia per i veicoli elettrici, serve che questa rientri in una più ampia strategia di sostenibilità, che l’industria automobilistica dovrebbe decisamente incrementare. In particolare, sul tema batterie, molti studi hanno evidenziato come il nodo della questione stia in una supply chain che oggi risponde solo parzialmente a un modello di economia circolare. E la ragione è che la “circolarità” ha bisogno di partnership capaci di garantire la sostenibilità su tutta la filiera.
Per citare un modello fra i più virtuosi, il progetto Re-Factory di Renault, fra le prime a pensare al primo stabilimento europeo (a Flins-sur-Seine, nei pressi di Parigi) dedicato all’economia circolare nella mobilità, capace di considerare un veicolo in tutto il suo ciclo di vita, dall’approvvigionamento delle materie alla sostenibilità delle batterie, dalla manutenzione alla fase di rigenerazione e riciclo. Un progetto – noto da tempo – da imitare e sul quale è tornato recentemente il nuovo ceo del gruppo francese, Luca de Meo, che ha ribadito l’obiettivo di fare del sito di Flins “un riferimento europeo a livello di economia circolare”.
Poi, sulle batterie, c’è anche un tema etico da risolvere. Ci sono luoghi del mondo, come la Repubblica Democratica del Congo, che produce più del 50 per cento del cobalto mondiale, dove i processi di estrazione, come più volte denunciato da Amnesty International, coinvolgono ancora manodopera minorile. Anche litio, manganese, grafite, rame e nichel, tutti componenti fondamentali delle batterie, non sono esenti da criticità su ecosistemi, persone e ambiente. Industria e governi devono farsene carico, con trasparenza e in tempi brevi.
Altri settori per altri materiali ugualmente a rischio hanno saputo trovare modalità in grado di offrire maggiori garanzie da questo punto di vista.
E la soluzione è infatti l’adozione di rigidi codici di condotta per i fornitori, in modo che gli stessi siano tenuti a rispettare standard ambientali e sociali adeguati, che non violino i diritti umani. In questo senso, la Commissione Eu con la nascita della European Battery Alliance sta già dando un importante contributo in questa direzione. Ma dobbiamo fare di più.
Per un’Europa che sta cercando di presidiare sempre più l’intera filiera della produzione di batterie, con l’obiettivo di rendersi indipendente dai fornitori asiatici di celle al litio, che allo stato attuale controllano il mercato, c’è un’Italia che potrebbe presto poter dire la sua, grazie al recente annuncio della riconversione di due stabilimenti, quello ex Indesit di Teverola, in provincia di Caserta, e l’ex sito Olivetti a Scarmagno, nel Canavese, siti destinati alla produzione di batterie al litio con processi innovativi e – nei piani – sostenibili.
Ecco, è di tutto questo che l’industria automotive deve tenere conto. Un quadro complesso, come vedete. Ma necessario per dire addio a un’ottica ancora troppo lineare; “prendi, produci, usa e getta” non funziona più. Serve un approccio sistemico, olistico, dove ogni fine sia un nuovo inizio.
I biocarburanti possono avere un ruolo nell’evoluzione dell’auto?
Sicuramente sì. Solo che se ne parla poco. In realtà una delle frontiere su cui la ricerca sta investendo molto sono proprio i biocarburanti cosiddetti avanzati, prodotti soprattutto da rifiuti o residui agricoli. Parliamo di biocarburanti prodotti da alghe e da biomassa, da residui vegetali come i fusti del mais o le stoppie di grano, tutte possibili fonti rinnovabili impiegabili per la produzione di carburanti, eliminando gli impatti sulla catena alimentare e sul consumo di acqua potabile.
L’Europa da tempo sostiene un incremento dell’uso dell’energia rinnovabile nel settore trasporti e la via intrapresa, insieme al grande tema delle fonti energetiche per alimentare l’infrastruttura di ricarica dei veicoli elettrici, sono proprio i biocarburanti. A lavorare sul tema ci sono colossi della chimica come Clariant, che insieme a ExxonMobil e Renewable Energy Group ha avviato un programma di ricerca congiunta per valutare il possibile utilizzo di zuccheri cellulosici, derivanti da fonti come rifiuti e residui agricoli, per la produzione di biodiesel.
Biocarburanti come questi, che potrebbero sfruttare le attuali infrastrutture di rifornimento, possono essere preziosi per ridurre drasticamente le emissioni di particolato e di gas serra. E gli esempi virtuosi non mancano nemmeno in Italia, dove nell’area metropolitana milanese si è conclusa con successo una sperimentazione per ottenere biometano dai reflui fognari, a km 0.
Un’auto sostenibile nasce sulla scrivania del progettista. Che ruolo ha un design ecologico nelle auto che vediamo nei concessionari?
Decisivo direi. E le ragioni sono molteplici. Oggi, un designer ha un ruolo fondamentale all’interno di una grande casa automobilistica, un ruolo che va ben oltre lo stile, l’estetica, o la “semplice” aerodinamica, come accadeva in passato. Oggi, un progettista deve confrontarsi con aspetti progettuali sempre più complessi, a loro volta interconnessi con temi apparentemente slegati.
Parlo dello studio sulle abitudini della popolazione e dei cambiamenti del potere d’acquisto, analisi che richiede quasi un approccio “antropologico”. C’è poi l’uso – sempre più parsimonioso – delle materie prime, la questione sul fine vita funzionale dell’auto. L’organicità del layout di un’auto va poi calata nel contesto dell’urbanistica e degli spazi di azione, nella razionalizzazione dei processi produttivi. Poi c’è la ricerca della più volte citata leggerezza, aspetto cruciale nel processo di elettrificazione dell’auto. Infine, ci sono altri aspetti che, pur nell’evoluzione e nella ricerca, vanno preservati, perché legati all’accessibilità, all’efficienza degli spazi fruibili in abitacolo, al comfort e alla percezione e usabilità dei comandi.
A questo proposito, mi piace raccontare la visione di Roberto Giolito, designer fra i più illuminati, pioniere dell’ecodesign e per anni responsabile dello stile di Fca (sua la Multipla esposta al MoMa di New York e la Fiat 500). Nella sua prefazione al volume Neomateriali nell’Economia Circolare Automotive, Giolito spiega bene le nuove sfide dell’ecodesign e di come per affrontare il progetto dell’automobile nel suo quadro più grande “si sia influenzati, mai come prima nella storia, da una presa di coscienza su cosa un veicolo rappresenti per la crescita, la libertà e l’emancipazione di una società intera, e, soprattutto, in questo preciso momento, descritto talvolta come l’era dell’accesso, delle nuvole di dati o della smaterializzazione dei prodotti, pur sempre bisognoso dell’ingegno e di soluzioni innovative capaci di abbinarsi alla perfezione a noi, esseri umani abitudinari e sempre più pigri, e alla qualità dell’ambiente in cui viviamo”. È l’ecodesign che avanza, un concetto che presuppone una nuova visione da parte dell’industria, e che proprio nell’auto elettrica può trovare una delle sue massime espressioni.
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Un’auto giace per oltre il 90% del suo tempo inutilizzata. Un mezzo in car sharing invece è attivo per oltre il 40% del suo tempo. Le case automobilistiche stanno investendo anche sulla condivisione?
L’industria dell’auto si sta già trasformando e il passaggio progressivo da produttore a fornitore di servizi di mobilità è in atto da tempo. Mobility-as-a-service è il nuovo mantra. Gli strumenti in campo sono simili per tutti: dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale agli investimenti sulla guida autonoma, dall’offerta di servizi digitali per i clienti basati su cloud alle alleanze strategiche con colossi dell’informatica come Microsoft o Intel. O, ancora, sviluppando società di servizi interne, per capirci come ha fatto da tempo FCA, oggi Stellantis, con Leasys, la società di mobilità in house che ha il compito proprio di sviluppare innovativi modelli di business. O come Mercedes e BMW, unite nel servizio di car sharing ShareNow. E c’è un dato interessante, che ha a che fare con la trasformazione delle abitudini delle persone: secondo Aniasa, l’Associazione che all’interno di Confindustria rappresenta il settore dei servizi di mobilità, oltre il 40% delle nuove auto elettrificate è immatricolato dal noleggio, un dato che sottolinea come l’emergenza sanitaria non abbia rallentato la richiesta di mobilità “pay-per-use” e come formule come queste siano a volte di aiuto per “sperimentare” l’auto elettrica e i suoi vantaggi.
Insomma, tutti stanno cercando di attrezzarsi. E la parola d’ordine comune è trasformazione digitale. Un processo indispensabile per anticipare il progressivo passaggio dell’auto da proprietà a utilizzo, passaggio che avrà certo un grande impatto, sull’industria, sul lavoro (la rete di assistenza e le competenze dovranno evolversi velocemente), ma anche sull’ambiente. E per capire come, ci serve l’immaginazione.
Il New York Times ha recentemente immaginato una Manhattan senza auto, ridisegnando il cuore della Grande Mela eliminando auto private, riducendo al minimo carreggiate, parcheggi e garage. Il risultato? Uno spazio pari a quattro volte l’estensione di Central park (a tanto ammonta oggi lo spazio occupato interamente dalle automobili) restituito alla popolazione, con enormi benefici in termini di impatti ambientali e di qualità dell’aria. Quello immaginato dal quotidiano americano non è che l’ultimo, in ordine di tempo, esercizio dedicato alla necessità di riorganizzare gli spazi urbani delle nostre città, spazi da sottrarre all’auto e da riconsegnare ai cittadini.
In questo senso va inquadrato il valore più alto della sharing mobility, ormai parte integrante del sogno di ogni urbanista illuminato, sinonimo di una città senza auto private e popolata solo da taxi, mezzi in sharing, micromobilità e – a breve – anche di droni. Un sogno per le persone (anche se non tutti condividono) e un possibile incubo per le case auto. Già, perché dire addio a strade congestionate, parcheggi e garage occupati da auto inutilizzate, e dare spazio a piste ciclabili, parchi e passeggiate pedonali, significa fare i conti con un complesso cambio di scenario.
Oltre a vendere veicoli e insieme offrire servizi, la crescita della mobilità condivisa sta cambiando qualcosa nella filiera produttiva?
Tutti o quasi i produttori si stanno preparando alla sfida, progettando veicoli costruiti appositamente per rispondere a un utilizzo condiviso. La ricetta? Ridurre i costi grazie a livelli di complessità inferiori, usare motori meno potenti, interni più semplici e facili da pulire (da sanificare si direbbe oggi…), processi di assemblaggio meno complicati e ridotti costi di distribuzione. Per non parlare della necessità di tagliare i costi di gestione della sharing mobility, oggi troppo pesanti.
Le ricerche dicono che un’auto con queste caratteristiche potrebbe costare quasi il 25 per cento in meno di una costruita con i criteri attuali, pensata per avere al massimo una manciata di proprietari nell’intera sua vita. E se è vero che il punto di svolta saranno i veicoli a totale guida autonoma, se è vero che il car sharing come lo conosciamo oggi è raramente economicamente sostenibile nelle città con meno di mezzo milione di abitanti, per le aziende dell’auto c’è un’unica via: offrire nuove tipologie di veicoli, già progettati per un utilizzo condiviso, magari capaci di fornire l’accesso ai dati dei clienti. E di adattarsi ai diversi Paesi del mondo, senza o quasi modifiche. Insomma, le ambizioni ci sono. La tecnologia anche. Adesso serve che governi e industria trovino nel cambiamento la chiave d’accesso alla mobilità sostenibile, l’unica eredità possibile da lasciare alle prossime generazioni.
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