mercoledì, Novembre 5, 2025

Taranto e l’inagibilità politica dell’acciaio

In vista della firma dell'accordo di programma per il rilancio dell'ex Ilva, cioè il polo siderurgico più grande d'Europa, un'analisi sui motivi per i quali nella città dei due mari gli annunci non funzionano più. Già nel 2016 Alessandro Leogrande scriveva che "Taranto deve comunque uscire dalla monocultura siderurgica"

Alessandro Coltré
Alessandro Coltré
Giornalista pubblicista, si occupa principalmente di questioni ambientali in Italia, negli ultimi anni ha approfondito le emergenze del Lazio, come la situazione romana della gestione rifiuti e la bonifica della Valle del Sacco. Dal 2019 coordina lo Scaffale ambientalista, una biblioteca e centro di documentazione con base a Colleferro, in provincia di Roma. Nell'area metropolitana della Capitale, Alessandro ha lavorato a diversi progetti culturali che hanno avuto al centro la rivalutazione e la riconsiderazione dei piccoli Comuni e dei territori considerati di solito ai margini delle grandi città.

Oggi al Ministero delle Imprese e del Made in Italy è attesa la firma dell’accordo di programma per il rilancio dell’ex Ilva. Ci saranno il ministro Urso, il presidente della Regione Puglia Emiliano e il giorno dopo toccherà ai sindacati. Al momento una penna resterà sul tavolo, quella del sindaco di Taranto Pietro Bitetti

Lunedì scorso il primo cittadino si è dimesso dopo una contestazione nata dal presidio ambientalista e civico organizzato sotto il palazzo comunale. Le proteste sono partite al termine di un incontro promosso proprio dal sindaco per confrontarsi sull’accordo di programma che guiderà la ristrutturazione dell’impianto siderurgico più grande d’Europa.

Il sindaco ha parlato di inagibilità politica. Non può andare avanti con questo clima di protesta. Si è parlato di “ambientalismo squadrista”, di minacce, di insulti e di attacchi da parte di un gruppo di cittadini arrivati nell’ufficio del sindaco in modo arrogante e violento. 

“Quella di lunedì è stata una protesta pacifica. C’è chi ha parlato di persone incappucciate, invece bisognerebbe raccontare di una comunità che ha scelto di urlare, ancora una volta, Taranto libera! Bisognerebbe raccontare le storie di chi, a volto scoperto, chiede da decenni giustizia ambientale”, racconta Annatina Fanigliulo, economista per la sostenibilità, divulgatrice ambientale e attivista che il 28 luglio ha preso parte al presidio sotto il Comune.

Le immagini dell’iniziativa di lunedì e i resoconti di chi ha partecipato restituiscono una realtà agitata, di certo non violenta. Ma come si fa a non scomporsi? Come si mantiene la calma sapendo di dover affrontare il futuro con chi ha contribuito a saccheggiarlo? 

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L’annuncio della decarbonizzazione senza molte garanzie

Tra le proposte contenute nell’accordo di programma c’è la sostituzione di tre altiforni a carbone con degli impianti elettrici e preriduzione del ferro (Dri), ma la prospettiva di un vero cambiamento nella produzione è fissata al 2037. Per alimentare le nuove strutture serviranno 5,1 miliardi di metri cubi di gas l’anno da ottenere con un rigassificatore. Il governo vuole far approdare nel porto di Taranto una nave rigassificatrice, un’opzione che secondo le istituzioni locali non è praticabile. 

taranto 2

Cos’è che preoccupa le cittadine e i cittadini di Taranto? L’evanescenza di questa proposta di decarbonizzazione. L’impalcatura dell’accordo non è solida. La svolta green non contiene le coperture, e secondo le forze ecologiste sembra più un elenco di buone intenzioni. 

Nella città dei due mari gli annunci non funzionano, non reggono più neanche i discorsi che pontificano sui posti di lavoro, soprattutto perché le certezze occupazionali sono crollate proprio nei reparti dell’ex Ilva. Oggi ci sono quasi 4 mila lavoratori in cassa integrazione, esposti per anni alle nocività della fabbrica e a quelle delle promesse di una classe politica fatiscente quanto gli impianti siderurgici tarantini. L’8 maggio scorso è stato un incendio divampato in un altoforno a far esplodere qualsiasi retorica sulla trasformazione dello stabilimento. 

La certezza del carbone

Resta la concretezza di un documento: l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) rilasciata qualche settimana fa senza il parere favorevole degli enti locali e con le proteste dei gruppi ambientalisti. Potrebbe essere rivista alla luce dell’accordo di programma, ma se pur provvisoria la nuova AIA emanata con più di 400 prescrizioni, prevede la riattivazione di 3 altiforni a carbone con produzione fino a 6 milioni di tonnellate annue per i prossimi 12 anni. 

Per questo la popolazione non riesce a credere che Taranto possa partecipare alla transizione ecologica. In queste settimane la città è sparita dal dibattito, sembra precipitata in un angolo buio della cronaca sul futuro del settore siderurgico europeo, quasi ormai fosse un elemento ancillare allo storico stabilimento a cui si è annodata. 

“Taranto continuerà, lo stabilimento è salvo. La siderurgia italiana è salva, l’industria italiana può ancora avere l’acciaio”, aveva detto Urso dopo aver saputo dell’esito positivo della conferenza dei servizi. Nella giornata di ieri a Palazzo Piacentini (sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy) il ministro Urso ha scelto di incontrare, come recita il comunicato stampa, “i principali attori del settore siderurgico italiano”. Non la popolazione, dunque, ma gli apparati industriali.

urso acciaio taranto
fonte: MIMIT

“Nel corso dell’incontro – si legge ancora – gli attori del settore siderurgico italiano hanno evidenziato al ministro come la competitività del comparto dipenda in modo diretto dai costi energetici e dall’approvvigionamento del rottame ferroso. Urso ha quindi evidenziato l’impegno del Governo a livello europeo a sostegno del settore siderurgico, ribadendo lo sforzo per limitare l’export di rottame ferroso e illustrando i due non paper promossi dall’Italia: il primo sulla revisione del CBAM, presentato insieme alla Polonia, l’altro sulla siderurgia, elaborato con la Francia, da cui è nata l’Alleanza per il futuro delle industrie energivore, che vede l’Italia insieme ad altri dieci Paesi UE impegnati nella revisione delle normative europee, con l’obiettivo di rendere l’industria siderurgica europea più sostenibile e competitiva“.

Il governo deve dunque risolvere al più presto la questione pugliese, deve rendere appetibile gli impianti di Taranto per dare forma al nuovo Piano siderurgico nazionale indicando la strada da percorrere per uno dei settori strategici per l’Italia. 

A complicare la situazione ci sono i dazi e il rischio di importazioni a basso costo dall’Asia. L’Italia, insieme ad altri 11 Stati membri, ha chiesto alla Commissione europea di preservare il settore siderurgico con un sistema di misure commerciali in grado di evitare un ridimensionamento della capacità produttiva di acciaio europeo. 

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Il vortice su una zona di sacrificio

Taranto cerca un punto di sostegno durante l’ennesimo vortice in arrivo sulla città. L’accordo di programma è l’innesco di un evento estremo che avrà delle conseguenze già sperimentate: quartieri invasi dalla diossina e dal benzene, aumento dei ricoveri ospedalieri per malattie cardiovascolari e respiratorie, migliaia di persone costrette a sentirsi diagnosticare patologie di cui già conoscono i nomi, gli effetti e la malformazioni che portano, soprattutto nei bambini. 

Difficile presentare un piano poco solido di decarbonizzazione in una città dove in età pediatrica vengono rilevati tumori che di solito sopraggiungono quando si è anziani. Dove i medici sono costretti a comunicare ai genitori che nel corpo della loro bambina o del loro bambino c’è un carcinoma del rinofaringe, il tumore che aggredisce “il vecchio fumatore incallito”

“L’iniziativa è stata il risultato di tanti incontri e di manifestazioni contro il rinnovo dell’AIA e contro uno scenario che vogliamo scongiurare. Forse gli animi si sono scaldati, è vero, ma descrivere quanto accaduto sotto il Comune come un presidio di violenti è una mistificazione. Con quella firma si condanna Taranto a essere per sempre una zona di sacrificio”, racconta ancora Annatina Fanigliulo. 

“Le zone di sacrificio rappresentano la peggiore negligenza immaginabile dell’obbligo di uno Stato di rispettare, proteggere e realizzare il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile”. A consegnare questa definizione non è un’attivista ecologista ma è il rapporto del consiglio dei diritti umani dell’Onu in cui vengono inserite le aree del mondo dove c’è stata una privazione del diritto alla vita e dei beni necessari per abitare un luogo. In questo rapporto c’è anche Taranto, anche se la politica sembra essersi dimenticata di dover affrontare le tossicità che da decenni spezzano il fiato agli abitanti. 

Come spiega Gaetano De Monte su Domani, Taranto si sta configurando come un “laboratorio politico di fallimenti” e le dimissioni del sindaco sono solo uno dei tanti episodi di questo susseguirsi di esperimenti sociali in una zona di sacrificio. 

Forse il sindaco ha avuto paura del pericoloso cartello affisso all’entrata del comune durante la protesta: “i bambini di Taranto vogliono vivere”.  A forza di chiamarle “future generazioni”, i veri beneficiari di quel che resta del Next Generation Eu sono stati costretti a ricordare che vorrebbero abitare anche il presente. 

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Uscire dalla monocultura siderurgica

“Una cosa pare comunque chiara a molti, almeno da un paio d’anni a questa parte. Che la fabbrica resti al suo posto o venga chiusa, che venga svenduta a una cordata italiana o a qualche multinazionale asiatica in ascesa, Taranto deve comunque uscire dalla «monocultura siderurgica» che nell’ultimo mezzo secolo non ha fatto altro che alimentarsi dalle sue stesse viscere”. Questa considerazione dello scrittore e giornalista Alessandro Leogrande del 2016 continua a essere ferocemente valida anche a dieci anni di distanza. 

Come se ne esce, si chiedeva all’epoca Leogrande. In questi anni le proposte alternative sono arrivate proprio dal fronte ecologista, da chi ha raccontato Taranto e da chi ha contribuito a diffondere un immaginario della città, pensandola diversa e libera dalla diossina, e soprattutto da una vocazione che oggi è solo un’eredità tossica

Si può trasfigurare Taranto senza il suo cuore d’acciaio? Oggi la domanda si configura come una bestemmia, un atto violento, o come il tentativo di raccontare un mondo parallelo che ormai non è nemmeno più dicibile.

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AGGIORNAMENTO DELL’1 AGOSTO 2025

L’abusata espressione della “montagna che partorì il topolino” è però azzeccata per descrivere in breve l’esito dell’incontro ministeriale di ieri. Che si è aperto con una sorpresa dell’ultimo minuto: il sindaco di Taranto ha ritirato al volo le dimissioni e ha partecipato al tavolo presso la sede del MIMIT. Come scrive Il Fatto Quotidiano (qui) “l’intesa che doveva tracciare il futuro dell’Ilva di Taranto alla fine è un documento striminzito che sancisce un generico accordo sulla decarbonizzazione entro il 2032 condiviso da governo, Regione Puglia e Comune di Taranto. Tutto il resto è in alto mare. Se ne riparlerà il 12 agosto. E potrebbe non essere l’ultimo incontro, quello dell’intesa definitiva tra le istituzioni”.

Il ministro Urso, colui il quale si è più speso per questo accordo, al momento non ha neppure spiegato i termini dell’accordo sul sito del MIMIT. Mentre il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano Emiliano ha sottolineato che “la mancata firma dell’accordo di programma, allo stato, ci impedisce di chiedere altre compensazioni, nel senso non abbiamo potuto negoziare la garanzia per i livelli occupazionali”. Invece il sindaco di Taranto Michele Biletti ha spiegato di non aver firmato nulla. “Abbiamo rinviato il confronto al 12 agosto – ha agigunto – per poter approfondire la nuova bozza di accordo di programma, così da consentire ai consiglieri comunali di valutare con attenzione”.

Insomma: la presunta riconversione di Taranto è ancora una volta un orizzonte distante. Quel che è certo, invece, è l’ennesimo “decreto salva Ilva”: sempre nella giornata di ieri alla Camera è stato votato (con il meccanismo blindato della fiducia) un prestito ponte da 200 milioni di euro, da restituire entro cinque anni. 

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