Sono circa una trentina le nazioni tra Europa, Asia e America Latina che stanno lavorando a una propria tassonomia: ovvero allo strumento che permetterà di stabilire quali attori e quali attività economiche e investimenti siano considerabili green o meno.
Elaborare un sistema di norme attraverso una tassonomia è il punto di partenza perché possa svilupparsi nei prossimi anni una finanza sostenibile, cioè una finanza dove gli investimenti e le risorse arrivano alle società e ai fondi rispettosi dell’ambiente e dei diritti.
Gli obiettivi sono ambiziosi: il mondo della finanza alla Cop26 di Glasgow si è impegnato con un accordo scritto a fornire fino a 130 miliardi di dollari di finanziamenti per aiutare le economie a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, investendo su attività “pulite”.
Tuttavia, se ciascuna nazione va per conto proprio in un campo globalizzato come la finanza, c’è il rischio che le misure prese singolarmente diminuiscano in efficacia e sia più complicato orientarsi in un mare di regole differenti. Ostacolando dunque chi vuole investire in maniera sostenibile.
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Ogni tassonomia rispecchia gli interessi nazionali
Perché, per quanto i criteri nell’elaborazione delle tassonomie dovrebbero essere squisitamente tecnici e scientifici, la politica spesso cerca di influenzarli in base alle caratteristiche dell’economia nazionale. Si è visto nel caso della Tassonomia Ue, che resta la più avanzata e completa al mondo.
Eppure, da mesi la Commissione è bloccata sul tema “nucleare” e “gas fossile”. Settori giudicati troppo importanti da alcune nazioni Ue per essere delegati ai tecnici o agli scienziati. Si pensi, per fare un esempio, alla Francia, che si è impuntata perché l’atomo sia riconosciuto come energia “pulita”.
Lo stesso, a quanto pare, sta accadendo nel Regno Unito. Come ha fatto notare alla Reuters Ingrid Holmes, a capo del Green Finance Institute e del gruppo di lavoro che consiglia il governo britannico sulla tassonomia, difficilmente non sarà tenuto in considerazione il fatto che nella borsa di Londra sono quotate molte miniere cilene.
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Cosa sta accadendo nel Regno Unito
Anche a Londra il mercato ESG (Environmental, Social, and Corporate Governance) è in forte crescita: come riportano studi preparatori commissionati dal governo, il 70% degli investitori vuole che il denaro vada verso investimenti o società rispettose di ambiente e diritti e il 49% degli asset presenti nel mercato finanziario britannico sono già collegabili a investimenti ESG, rispetto al 37 per cento del 2019.
Il ministro delle Finanza britannico, Rishi Sunak, a Glasgow ha dichiarato che “il Regno Unito diventerà presto il primo centro finanziario del mondo a emissioni zero”. Entro il 2023 le società quotate nella borsa di Londra e fondi con sede nel Regno Unito avranno l’obbligo di pubblicare un piano in cui spieghino come hanno intenzione di procedere alla decarbonizzazione nei prossimi decenni.
Il governo britannico ha inoltre presentato una Roadmap per la finanza sostenibile, ma sicuramente dovremo attendere almeno la fine del 2022 per una tassonomia operativa. “E Londra ha già fatto sapere di non avere intenzione di seguire passivamente il lavoro fatto dall’Ue”, precisa Alfonso Del Giudice, professore di Finanza aziendale alla Cattolica di Milano.
Scorrendo le pagine della Roadmap, emerge, tuttavia, un approccio simile nelle linee guida. Alla base, anche in questo caso, c’è la disclosure, cioè la comunicazione da parte di società, banche e fondi di investimento di informazioni rilevanti per stabilire quanto siano green le attività economiche e gli investimenti in portafoglio. E tra i principi della futura tassonomia, compare anche qui il Do no significant harm, considerato uno degli architravi da Bruxelles.
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E nel resto del mondo: dal Canada alla Cina
Stanno elaborando un sistema di riferimento per definire gli investimenti green anche il Canada, il Giappone e il Sudafrica. La Cina ha un fiorente mercato finanziario legato ai green bond e sta sviluppando degli standard per una tassonomia, come del resto la vicina Mongolia. “Sono più indietro rispetto all’Ue: e probabilmente saranno tassonomie meno rigide”, spiega Stefano Battiston, docente di Finanza sostenibile all’Università di Zurigo.
In particolare, per quanto riguarda la Cina, sebbene vi siano state iniziative istituzionali a fianco dell’Unione europea, come la creazione di un gruppo di lavoro comune sul tema, è difficile ipotizzare quali siano le reali intenzioni di Pechino. E restano dubbi sull’effettiva volontà di allinearsi davvero all’Unione europea per favorire lo sviluppo di una finanza sostenibile.
I gestori di asset in Cina stanno spingendo per elaborare sistemi di rating e classificazione tagliati per il mercato domestico in rapida crescita, ma resta il fatto che finora solo il 40% delle società cinesi di venture capital ha incluso nella propria pianificazione strategica gli investimenti verdi. Con tutti i dubbi del caso sulla trasparenza.
“Nel 2018 l’ICMA (International Capital Market Association) ha proposto degli standard internazionali per i green bond, con certificazione esterna. Unione Europea, Regno Unito e Stati Uniti hanno aderito su base volontaria, mentre la Cina si è rifiutata”, fa notare Alfonso Del Giudice, professore di Finanza aziendale alla Cattolica di Milano. Non sono segnali incoraggianti. Preoccupazioni, peraltro, condivise per la Russia, che a quanto pare – sostiene sempre Reuters – si sta molto ispirando all’approccio di Pechino per la finanza sostenibile.
L’eccezione degli Stati Uniti
Ci sono poi nazioni del calibro degli Stati Uniti che non sembrano per il momento nemmeno intenzionate ad adottare una tassonomia. “Gli Usa devono scontare un ritardo di quattro anni dovuto alla precedente amministrazione Trump”, spiega Battiston. Oltre a idiosincrasie culturali per quanto riguarda gli interventi normativi su temi economici.
Con i democratici alla Casa Bianca, secondo il docente, la situazione migliorerà. In effetti, una delle prime mosse di Joe Biden è stata aderire nuovamente agli accordi di Parigi. E per quanto riguarda la finanza sostenibile, un ordine esecutivo del presidente sul rischio finanziario legato ai cambiamenti climatici spinge il legislatore ad accelerare gli sforzi per esaminare con più attenzione la materia.
Alfonso Del Giudice esclude a priori che si arriverà mai a criteri stringenti paragonabili all’Unione europea. In ogni caso, la Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, è al lavoro per combattere il greenwashing nei mercati finanziari attraverso una apposita taskforce su clima e investimenti ESG. E si sta persino discutendo su una possibile disclosure sul modello europeo.
Molti colossi della finanza non sono d’accordo, ma altri grandi investitori invece vedono nella finanza green un’opportunità. A rallentare il processo ci sono poi alcuni Stati federali. Il Texas, ad esempio, a giugno ha approvato una legge che rende persino più complicato per i fondi pensione investire in settori impegnati nel taglio delle emissioni.
Se le tassonomie entrano in “competizione” tra di loro
In effetti, in un mercato globalizzato come quello finanziario, nasce il sospetto che possa verificarsi uno scenario “concorrenziale” tra le tassonomie, con evidenti ricadute negative sull’efficacia delle misure. L’obiettivo dichiarato del Regno Unito, ad esempio, è incoraggiare gli asset manager a investire nella borsa di Londra e non in altri mercati.
“Alcuni titoli potrebbero fare la scelta di spostare gli investimenti in giurisdizioni dove la tassonomia è meno restrittiva rispetto all’Unione europea, in modo da far apparire i portafogli più green di quello che realmente sono”, ammette Stefano Battiston. Già ad oggi, in base ai dati dell’ESMA, il 61% del patrimonio dei fondi domiciliati nell’Unione europea è investito in aziende non europee. Quindi non soggette alla regole di Bruxelles in tema di finanza sostenibile.
Per il docente, tuttavia, si tratta di uno scenario possibile ma non probabile. “Per prima cosa – spiega Battiston – le agenzie di rating, gli osservatori internazionali e il mercato capirebbero che siamo di fronte a una situazione di greenwashing, con tutte le ricadute di immagine del caso. Invece, chi sceglie di concentrarsi su emittenti residenti nell’area Ue avrà un’offerta più credibile e dunque sarà in grado di raccogliere maggiori finanziamenti”, fa notare il docente.
Insomma, concorda Del Giudice, “i fondi di investimento e le banche hanno tutto l’interesse ad allineare i loro portafogli alla tassonomia Ue. Mentre per gli investitori, mettere il denaro in settori dove le regole sono chiare è sempre la strategia più sicura”.
Non c’è pericolo, inoltre, che si presenti una situazione di “delisting”, in cui alcune società decidono di abbandonare le borse valori per non rispettare le normative e investono i capitali in un private market. “Le principali società hanno una capitalizzazione tale da rendere complicato il passaggio a un private market”, sostiene Del Giudice: “Lo scenario potrebbe verificarsi in linea teorica nel caso delle piccole aziende di settore – continua il professore – ma a quel punto andrebbero incontro ad altri rischi di investimento, ad esempio per quanto riguarda la liquidità, e dubito fortemente che sceglieranno questa strada”.
Più tassonomie significa costi più alti e maggior incertezza
Una convivenza tra le diverse tassonomie non è impossibile, visto che i principi fondamentali sono comuni, “ma differenti giurisdizioni e una serie di regole e standard differenti sicuramente accrescono i costi e l’incertezza”, spiega inoltre Del Giudice.
Ad esempio, una società australiana o canadese dovrà chiedere a un’agenzia di rating un’analisi Esg in base alle norme del proprio mercato interno, e una seguendo i criteri europei, con spesa doppia. “Non bisogna però dimenticare che il financial reporting accresce anche la prospettiva di attrarre capitali e un miglioramento della reputazione, quindi è complicato stabilire con esattezza il rapporto tra costi e benefici”, precisa il docente della Cattolica.
C’è, infine, il problema dell’incertezza, perché norme differenti rendono più complicato raccogliere informazioni attraverso i sistemi di analisi automatizzati. Ma anche ostacolare il passaggio transnazionale dei capitali. “Un po’ di confusione è inevitabile”, ammette Del Giudice: “E negli spazi grigi tra molteplici tassonomie, non sempre paragonabili, si annida il pericolo del greenwashing e socialwashing”, mette in guardia il docente.
Una tassonomia globale sarebbe più efficace
Ecco perché si sta cominciando a discutere su come, in futuro, unificare le differenti normative. “La tassonomia dell’Unione europea è la più completa e stringente tra quelle in lavorazione”, fa notare Battiston. Dunque, un discorso su una “tassonomia globale” dovrebbe partire dal lavoro fatto Bruxelles: “I rating Esg elaborati in base agli standard europei sono più affidabili e sono le stesse norme a facilitare il lavoro delle agenzie di rating. Questo non significa che società quotate negli Stati Uniti siano valutate in maniera incoerente, ma di solito le società incorporate in Ue ottengono giudizi migliori”, precisa Del Giudice.
A breve, l’International Platform on Sustainable Finance, un organismo di cui fanno parte l’Unione europea, il Regno Unito, il Canada e il Giappone, pubblicherà un report in cui si confrontano le tassonomie già esistenti e quelle in via di elaborazione. Lo scopo è aiutare gli investitori nel comparare le differenti normative, ma anche individuare i principi comuni per facilitare una futura sintesi.
Perché su un punto coloro che sono al lavoro per una finanza green non hanno dubbi: una tassonomia condivisa tra tutti i Paesi sarebbe la soluzione migliore. Anche se, viste le incertezze e le battute d’arresto persino in Europa, immaginare una conciliazione in tempi accettabili appare quantomeno ottimistico.
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