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lunedì, Dicembre 16, 2024

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“Le disuguaglianze ostacolano la lotta ai cambiamenti climatici”. Intervista a Francesco Vona

Francesco Vona, ordinario di Economia politica alla Statale di Milano, ci racconta come il capitalismo non sia in grado di affrontare la crisi climatica e la transizione ecologica: “Quando ci sono troppi poveri, il cambiamento climatico per loro è una ‘questione da ricchi’"

Emanuele Profumi
Emanuele Profumi
Emanuele Profumi, è dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista free lance. Collabora con diverse università italiane ed europee. Ha scritto e pubblicato per riviste italiane (es: Micromega, Left, La Nuova Ecologia) e straniere (es: Le Monde Diplomatique) ed è stato anche corrispondente estero per alcuni giornali e riviste italiani (Londra, Parigi, Atene, Messico). In Italia ha già pubblicato una trilogia di reportage narrativi (le "Inchieste politiche") sul tema del cambiamento sociale e politico: sul Cile (Prospero, 2020), sulla Colombia (Exorma, 2016) e sul Brasile (Aracne, 2012). È professore di "Storia della pace in Epoca Contemporanea" presso l'Università di Pisa e "Scienza della politica" presso l'Università della Tuscia (Viterbo), e scrive e pubblica saggi filosofici. L'ultimo libro di filosofia è una curatela realizzata insieme all'importante filosofo italiano Alfonso Maurizio Iacono (Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell'alterità. Ets 2019).

Professore ordinario di “Economia politica” presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali presso l’Università degli studi di Milano “La Statale”, Francesco Vona si occupa da anni di pensare l’economia da un punto di vista in cui la prospettiva ecologica e ambientale ha una sua rilevanza e centralità. In questa lunga intervista chiarisce perché, secondo lui, l’ecologia senza giustizia sociale non ha nessun futuro.

Riprendendo il dibattito avviato su Economiacircolare.com sulle alternative economiche, la domanda è d’obbligo: secondo lei è necessario ripensare l’economia per avviare una vera trasformazione ecologica della società contemporanea?

Secondo me la domanda chiama in causa prima di tutto il fatto di ripensare l’insegnamento dell’economia. Va detto che nel corso del tempo in economia si è persa la visione di insieme. La disciplina è ormai una serie di sottodiscipline. Si definisce, nel suo insieme, grazie ad una serie di parametri come la “massimizzazione”, la “razionalità individuale”, “l’econometria”, che la definiscono trasversalmente, ma non esistono più teorie sui massimi sistemi. Anche chi fa macroeconomia si occupa dei modelli che devono rispondere a delle esigenze molto specifiche (guardano solo a qualche aspetto specifico, come l’inflazione, ad esempio). I modelli sui massimi sistemi non ci sono più. Da una parte penso che sia anche un bene, perché penso che sia difficile che esista un modello concettuale in grado di spiegare tutto. I metodi quantitativi ed empirici, legati soprattutto all’uso di dati, per esempio, sono usati dagli economisti anche in altre discipline, perché l’economia occupa anche di domande di ricerca di altre discipline (scienze politiche, sociologia, etc). Dal punto di vista dell’insegnamento si resta, invece, in una prospettiva vecchia. Dal punto di vista dell’economia ecologica e ambientale, credo che l’impostazione che fa riferimento a Georgescu Roegen, che la interpreta in base al secondo principio della termodinamica, e che si sostiene sull’idea che per cambiare la società bisogna avviare dei cambiamenti nei comportamenti individuali, quindi negli stili di vita, e sviluppare una frugalità, e altre sfere di valore, come la cultura, l’arte, la socialità, invece di cose più materiali, è un filone di ricerca che è divenuto molto minoritario. Ciò è il risultato anche della responsabilità di chi lo sostiene, perché è sempre stato molto critico ma poco propositivo, inaridendosi un po’. Un filone di ricerca con una potenzialità davvero molto grande, di cui mi occupo, è quello che tratta il punto chiave della nostra società: in questa grande complessità, frammentazione e specializzazione disciplinare, esistono dei temi chiave del periodo storico che stiamo vivendo; secondo me il grosso tema di questo momento è la relazione tra diseguaglianza e cambiamento climatico. Secondo me, sia la ricerca sia l’insegnamento in economia si dovrebbero riorientare in base all’identificazione dei problemi storici, e poi trattarla con il più ampio respiro possibile. Bisognerebbe riuscire ad identificare il nodo cruciale della nostra società adesso. Dal mio punto di vista, quindi, si tratterebbe di riconoscere la sfida del cambiamento climatico, che è senza dubbio al centro della nostra esistenza, e quindi capire se la società capitalistica è in grado di vincere questa sfida, e in che misura (quei cambiamenti necessari per portarci fuori da questa crisi climatica ed ambientale). Inoltre c’è da porsi una seconda questione meno ambiziosa, di cui personalmente mi occupo di più: capire quanto il livello di diseguaglianza influenza i processi politici ed economici che potrebbero portare a introdurre questi cambiamenti necessari per il cambiamento climatico. Politiche troppo “diseguali”, infatti, non riusciranno mai a fare politiche sensate rispetto al cambiamento climatico, perché i poveri non hanno neanche i soldi per soddisfare i bisogni di base, e quindi se ne fregano del cambiamento climatico, per dirla brutalmente. Non per niente esistono molti casi in cui lavoratori che guadagnano molto poco, in posti anche molto inquinati, preferiscono lavorare, anche se con pessime condizioni di salute, piuttosto che abbandonare l’industria pesante, come l’acciaieria o l’industria di carbone, invece di cercare una prospettiva di vita e di lavoro completamente diversa. Siamo in presenza di una situazione perversa. È ormai acclarato da tutta una letteratura specifica, che sono i più poveri a subire maggiormente gli effetti dell’inquinamento e dell’ingiustizia ambientale. I poveri sono i più colpiti dall’inquinamento, ma anche quelli a cui interessa di meno. Questo è uno degli emblemi maggiori di quanto la nostra società sia malata, e di quanto la relazione tra diseguaglianza e cambiamento climatico sia il problema chiave dei nostri tempi.

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Una prospettiva socialdemocratica

 

Secondo lei la società capitalista è in grado di affrontare queste sfide?

No. Penso che bisognerebbe tornare ad un modello economico più socialdemocratico vecchio stile, con delle correzioni.

A cosa si riferisce esattamente? Nella storia abbiamo avuto almeno due tipi di socialdemocrazie diverse. Una che tendeva al cambiamento riformistico del sistema capitalista, e la socialdemocrazia, che è poi sfociata nell’attuale social-liberismo, che tendeva ad attenuare i problemi creati dal capitalismo da tanti punti di vista (come quello dei diritti sociali). A quale fa riferimento?

Come la sta proponendo, questa distinzione non mi è così chiara. Mi può fare degli esempi di Paesi che hanno assunto questi due tipi di socialdemocrazie? Mitterand? Willy Brandt?

Giusto per capirci, senza intervenire sul merito. Mitterand, come anche l’attuale socialdemocrazia di Scholz, fanno parte della seconda tendenza. Brandt sta a cavallo tra la prima espressione della socialdemocrazia e la seconda. La prima nasce con la nascita della socialdemocrazia stessa. Lei a cosa fa riferimento esattamente?

Mettiamola così: non voglio riferirmi al passato, ma al presente. Per me significa un sistema in cui ci sono dei settori in cui lo Stato interviene direttamente. È lo Stato a possedere dei settori strategici, in cui solo lui opera. Sanità, educazione. Su questo non ci piove. Nel settore energetico si deve affiancare anche a dei piccoli produttori (ognuno di noi può prodursi la sua energia). In altri settori bisogna cambiare in maniera molto radicale le regole dell’antitrust. Ci sono dei settori, come quelli dei vari network o infrastrutture digitali, Facebook, Google o Amazon, che sono di fatto dei monopoli. Sono delle reti che diventano la tecnologia dominante nel tempo. All’inizio possono essere private, perché non sapevamo che ci servissero, però dopo che diventano molto potenti devono diventare pubbliche o almeno essere fortemente regolate a livello sia nazionale che globale. Poi ci sono tutta un’altra serie di settori che vanno lasciati ai privati, perché diventa una follia imporre lo Stato dove ci sono dei piccoli commercianti, innovatori, ristoratori, agricoltori. La piccola impresa va favorita, con condizioni di credito buone. Ma ovviamente con condizioni regolamentate dallo Stato, per permettere di avere le stesse condizioni e opportunità di credito ai piccoli e ai grandi imprenditori…e ovviamente che paghino le tasse…

In Italia bisogna specificarlo…

…questo va specificato in effetti… La mia idea di socialdemocrazia economica si sintetizza così: i settori strategici controllati dallo Stato, dei settori high tech, controllati ex post e con diritto di esproprio o una compartecipazione dello Stato nella proprietà (che non può essere però una castrazione), perché un imprenditore che ha una bella idea deve poter andare avanti e arricchirsi, ma non accumulare il potere che hanno oggi i vari Bezos, Brin, Bill Gates. Non ci si può permettere che arrivino a questi livelli.

Bisognerebbe stabilire dei limiti alla ricchezza e al potere economico.

Esatto, dei limiti totali. C’è un punto di forza del capitalismo, per cui funziona meglio di altri sistemi. L’informazione che genera a costo zero e gli incentivi a lavorare duro. Settori in cui una persona che ha una buona idea, la utilizza e la rende commerciale (e va ricordato che questa buona idea spesso è creata dal pubblico: molte delle idee di Brin, Gates e compagni, sono state elaborate nella cosiddetta “corsa allo spazio” della Nasa, sostenuta con massicci investimenti pubblici), vanno però considerati per quello che sono: chi è riuscito a sfruttare delle buone idee che circolavano, proprio per questo bisogna che ridia indietro, alla società, qualcosa quando si ingrandisce troppo. Un’impresa ad un certo livello deve tornare pubblica, o comunque il suo potere economico si deve “diluire”. Un’economista molto famosa oggi, Mariana Mazzuccato, che si è occupata molto di questo, ha mostrato il ruolo del settore pubblico nel finanziare le innovazioni usate da queste imprese dominanti. Per questo, la Mazzuccato sostiene giustamente che dovremmo avere tutti delle azioni di Amazon, Google, etc. Visto che queste imprese hanno ricevuto dei finanziamenti pubblici. Invece di darli a fondo perduto, lo Stato diventa azionista e redistribuisce queste azioni nella popolazione. Per lei questo risolverebbe il problema.

Una specie di azionariato popolare.

Si, ma sulle start up. Private ma finanziate con i soldi pubblici, sia all’inizio, per partire, sia per sviluppare le proprie invenzioni. In questi settori, high tec, non credo che lo Stato possa fare tutto. Come sull’energia, dove dovrebbe esserci una autoproduzione diffusa, e lo Stato intervenire solo quando ci sono dei problemi di intermittenza dovuti alla diffusione di fonti di energia più dipendenti da eventi climatici e meteorologici.

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Tutto questo non rientra nella categoria di “Capitalismo di Stato”?

A me non interessano tanto le categorie, ma le questioni di principio. I beni pubblici devono essere forniti dallo Stato, le risorse comuni devono essere gestite dallo Stato (educazione, sanità, energia con l’eccezione detta), e sugli altri settori il privato, cambiando però le regole in modo radicale, per evitare la formazione di questi conglomerati così potenti, ossia impedendo che si raggiunga un certo livello di potere economico, che non deve essere superato.

Questo limite chi potrebbe stabilirlo?

Non lo so. Sull’antitrust c’è un dibattito, che considera anche il paradosso che ci troviamo di fronte: le grandi aziende sono anche le più efficienti, e non fanno profitti, come nel caso di Amazon, a discapito dei consumatori. Secondo me, a differenza di quello che dice Piketty, non si tratta solo di limitare il potere economico di chi lavora nelle grandi imprese, ma il problema è proprio la grandezza e la potenza di quelle imprese.

Una specie di bilanciamento dei poteri applicato all’ambito economico.

Si, esatto. Per capirci: quando le imprese si ingrandiscono così tanto da diventare dei network globali, devono diventare un bene pubblico, devono tornare pubbliche. Anche perché quella che avremo nel futuro sarà sempre di più una economia di rete. Prima le sviluppano i privati, e poi diventano pubbliche. Così una parte del potere economico sarebbe ridotto.

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Il problema della diseguaglianza sociale

 

Esiste un modello economico in grado di armonizzare le esigenze dell’ecosistema con quelle della giustizia sociale?

(Ci pensa) Senza giustizia sociale non ci sarà soluzione ai cambiamenti climatici. Una società dove vige troppa diseguaglianza sociale, non potrà mai veramente affrontare il problema. Perché per le persone, il cambiamento climatico diventa un bene di lusso. Quando ci sono troppi poveri, il cambiamento climatico per loro è una “questione da ricchi”. Quando non hanno da mangiare, non interessano le questioni dell’energia verde, delle macchine elettriche. I sussidi alle tecnologie verdi negli Usa, come per la ristrutturazione delle case, i pannelli fotovoltaici, le auto elettriche, sono andati tutti ai ricchi. Alla luce di questo nesso di causalità, la priorità è un modello economico che riduca drasticamente le diseguaglianze. Una società con poche diseguaglianze come la Svezia, dove esiste una carbon tax molto alta e le persone ci tengono veramente all’ambiente, presterà molta più attenzione all’ambiente e ad altri valori alti. Come già sapeva Ford, nel secolo scorso, una società con troppe diseguaglianze non conviene neanche allo stesso imprenditore. Per questo pagava bene i suoi operai. L’opposto di quello che sta facendo Elon Musk, che si sta impegnando tantissimo per non fare aumentare le tasse ai ricchi…lui che viene considerato la quinta essenza dell’imprenditore verde, che ci fa vivere il sogno della auto elettriche, del prosumer verde, in realtà non capisce un meccanismo economico di base, ossia che una diseguaglianza troppo alta è disfunzionale per la società…

Sulla nostra rivista Fitoussi ha ribadito che il Pil è uno strumento totalmente inappropriato per valutare il benessere delle nostre società. Lei cosa ne pensa? Quali potrebbero essere dei criteri economici nuovi grazie ai quali ripensare l’intero processo economico?

Per me è ovvio che il Pil, come unico indicatore, non è adatto. Ma non penso vada sostituito. Sono sempre stato dell’idea di usare molteplici indicatori invece di uno. Intanto bisognerebbe valorizzare nell’opinione pubblica altri criteri di benessere, fare un discorso culturale in cui si dice che il Pil non è l’unico indicatore: oltre a questo c’è il livello delle diseguaglianze, di esposizione all’inquinamento, le condizioni di lavoro, esposizione ai cambiamenti climatici, vulnerabilità umane varie. Possiamo definirli, ma sicuramente i tre più importanti sono: il Pil, un indicatore delle diseguaglianze e uno di benessere ambientale. Potremmo dire che quello che conta non è il Pil, per esempio, ma il Pil del 10% più basso della popolazione: se non si arricchisce il 10% più basso, non stiamo meglio. Come criterio ambientale potremmo leggerlo in base all’esposizione all’inquinamento per fasce di reddito. Una volta fatto questo, creare un meta indicatore che li metta insieme sarebbe facilissimo. Ma meglio non farlo. I pesi di questi indicatori, infatti, non devono essere dati dai tecnici, perché questo presterebbe il fianco all’influenza delle lobbies o comunque all’influenza di metodologie statistiche. Devono invece essere proposti dalla politica, in modo chiaro e pubblico. È il politico che deve, riferendosi a questi indicatori, dire, per esempio: il mio piano di far crescere il Pil comporta un aumento delle diseguaglianze di tipo x e un peggioramento delle condizioni ambientali y. Si deve prendere così le sue responsabilità. Quando va in televisione deve essere in grado di rendere conto e dare risposte relative agli effetti delle sue politiche in base ai tre indicatori a cui faccio riferimento. Tutto questo deve essere oggetto di dibattito pubblico e politico, sia a livello alto, del governo, sia a livello basso, delle assemblee dei cittadini. Senza creare un meta indicatore, lasciando i sotto indicatori separati: un economista può dirti che se uno fa una certa politica ci saranno degli effetti particolari a questi tre livelli, ma poi sono i processi politici che devono definire le priorità e le scelte.

Il meta criterio è in realtà un criterio politico, è la visione della giustizia.

Si, esatto. Deve essere chiaro ed esplicito il politico, quando si confronta con gli effetti delle proprie politiche, non il tecnico. Gli sforzi per creare dei meta indicatori, per questo, non mi sono mai piaciuti.

Sarebbe un sostituirsi alla politica.

Sì, per me è sbagliato.

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Il ruolo di una politica rigenerata

 

Mi sembra chiaro che nella sua visione dell’economia, la politica gioca un ruolo molto importante. In che modo possiamo pensare che un modello economico alternativo possa far rientrare la politica all’interno del processo di comprensione, di lettura, di descrizione della realtà?

“Tempo”, questa è la parola chiave. Per creare un modello alternativo economico e politico di società, serve tempo. Non solo serve tempo per il cambiamento, il che è ovvio. Serve liberare tempo agli individui. Intanto avere più tempo libero: perdere tempo, oziare, andare al cinema, etc. Ma abbiamo anche bisogno di tempo libero per la società, e per la società politica, che è molto importante. La mia impressione è che questo tempo libero nella nostra società si è ridotto in modo drastico. Quindi un passo importante, se dovessi puntare su una politica, che bisogna assolutamente rivitalizzare, è quello della riduzione dei tempi di lavoro. Questa è una cosa fondamentale e fattibile grazie ai processi di automazione in atto. Purtroppo, invece, i tempi di lavoro aumentano. Questo è molto pericoloso, perché non stacchiamo mai dal lavoro. Si potrebbe anche pensare che tutti, almeno un’ora al giorno, facciamo politica. L’ora di politica. Cose di questo tipo. Anche se considerate un po’ paternalistiche, mi piacciono. Penso che un po’ di paternalismo ci debba essere. Come l‘ora di sport: un’ora di politica, che si può praticare anche come stiamo facendo noi in questo momento, online, ma in gruppo. Per trovare questi tempi è molto importante partire da piccoli, creare delle abitudini. Perché sono difficili da cambiare. Cambiare la scuola, quindi, è la cosa cruciale. Da dove partire? Per esempio creare un’ora di tempo sul posto di lavoro, per parlare di come vorremmo la società…no, anzi, sul posto di lavoro non te lo lascerebbero fare. Proprio a scuola, nel pomeriggio. Bisogna ritrovare dei posti di aggregazione, e avere del tempo per frequentarli. Dobbiamo tornare ad avere una società con i corpi intermedi, ecco anche il riferimento alla socialdemocrazia. Altrimenti è impossibile. Bisogna incontrarsi e discutere, non solo sui massimi sistemi, ma anche di cose più pratiche, che destano interesse. La democrazia partecipata vera, e il dialogo pubblico, è uno degli strumenti dal basso, come lei sa meglio di me, per innescare il cambiamento. La politica deve dare questi spazi, e per farlo serve tempo. L’economia può aiutare a sviluppare queste iniziative, ma vanno fatte delle leggi per ridurre l’orario di lavoro e per stabilire dei luoghi di aggregazione e di investire nell’associazionismo in modo più istituzionale.

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Sono spazi che vanno finanziati, insomma.

Esatto. Bisogna creare un mega dibattito pubblico. Selezionerei 3 o 4 temi: che potrebbero essere, giusto per dirne alcuni, immigrazione e multiculturalismo, cambiamenti climatici, trasformazione digitale, mutamento delle città, socialità. Partirei più dai temi sociali, per fare in modo che la società si confronti, si rispecchi, si identifichi. Per aiutare le persone a capire cosa pensano davvero su questi temi. Se fossi un politico di sinistra, partirei da questo. Altrimenti è impossibile creare una nuova piattaforma solida. Bisogna anche essere aperti al confronto con posizioni che non sono le nostre, come chi non è favorevole al multiculturalismo. Questi dibattiti devono essere incentivati dalla politica e dall’economia, che devono riuscire a liberare del tempo per questo. Per esempio: un buon reddito di cittadinanza potrebbe pagare, a chi ha un buon lavoro, un’ora di lavoro in meno, mentre quelli che hanno dei lavori marginali e peggiori, invece, dovrebbero proprio venir pagati per andare a queste assemblee. Certo, poi le assemblee vanno organizzate bene, con dei facilitatori che possono venire dalla società civile, o dai partiti. Bisogna avere il coraggio di mettersi in gioco. Gente che sta sul territorio, non solo persone di sinistra. Tutti dobbiamo metterci in gioco, discutendo di un tema specifico e seguendo le regole del confronto (bisogna portare delle evidenze empiriche alle proprie affermazioni, per esempio). E bisogna sancire anche delle “regole di ingaggio” nelle assemblee. Per farlo la politica deve investire nella speranza di incontrarci. Deve essere chiaro che stiamo in una società che deve ripartire, che si deve ritrovare, perché ognuno sta per conto suo, davanti al computer, da soli, alienati. Chi lavora troppo e chi non ha lavoro. La politica che si dota di una tale prospettiva deve avere una retorica forte, che faccia riferimento al fatto, e alla speranza, di rivederci per parlare di quale società vogliamo.

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