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venerdì, Novembre 15, 2024

Volpi (UniPi): “Vi presento il convitato di pietra della transizione ecologica: la finanza”

Alessandro Volpi insegna Storia contemporanea a Pisa e ha scritto “Prezzi alle stelle”, una denuncia del drammatico scollamento dell’economia reale da quella finanziaria e il ruolo crescente di quest’ultima nel determinare i prezzi dei beni - e quindi nell’inflazione

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Dopo anni l’inflazione ha riguadagnato i titoli dei telegiornali ed è tornata tra i motivi di preoccupazione degli italiani, soprattutto di quelli che a fine mese devono fare i conti quando vanno a fare la spesa. Ma è appunto una novità piuttosto recente: l’inflazione era uscita dai nostri radar da diverso tempo. Cosa c’è dietro questo aumento dei prezzi? Una domanda di materie prime e beni che dopo la crisi del Covid non ha trovato pronta l’offerta? La guerra in Ucraina, con il gas usato come arma di ricatto o di pressione? Le strozzature nell’approvvigionamento delle materie prime e dei prodotti, dai cereali ai microchip? Si, certo. E no.

“Se è vero che ci sono stati alcuni ‘colli di bottiglia’ – spiega Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e autore, per Laterza, di “Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione” – la riduzione della produzione rispetto alla domanda reale è stata molto limitata, nell’ordine complessivo del 10%, mentre i prezzi dell’energia, materie prime e beni alimentari sono cresciuti anche di 10 volte”. Il motivo? La finanza speculativa.

Abbiamo raggiunto Volpi al telefono per capire che ruolo abbiano nella risoluzione delle crisi ambientali le distorsioni prodotte appunto dalla finanza.

I meccanismi di mercato prevedono che quando la domanda aumenta, a parità di offerta, aumentino anche i prezzi. Nel suo libro “Prezzi alle stesse” ci racconta che dal 2001 ad oggi il consumo mondiale di materie prime è passato da 55 miliardi di tonnellate a ben oltre 100, eppure i prezzi sono rimasti stabili fino al luglio del 2021. Inflazione bassissima, insomma, a fronte di consumi di materie prime quasi raddoppiati. Come si spiega questa anomalia? E che conseguenze ha avuto sulla salute del pianeta?

La risposta è semplice anche se paradossale. L’andamento dei prezzi ormai da una ventina d’anni è sempre meno è correlato all’andamento della produzione e del consumo: i prezzi si determinano ormai attraverso gigantesche scommesse fatte nelle grandi borse, che non sono solo borse finanziarie ma anche borse merci. In cui gli operatori non sono più legati alla produzione, o lo sono solo in parte: in genere gli operatori che sono interessati alla produzione dei beni reali e al loro acquisto sono circa un terzo del totale, in alcuni casi si arriva alla metà, tutti gli altri sono soggetti finanziari che fanno scommesse sull’andamento dei prezzi.

Se questo è il processo di determinazione del prezzo, quest’ultimo non dipende più da domanda e offerta reali, non dalla capacità di produrre e dal consumo ma dalle aspettative che si creano rispetto a tendenziali possibilità di consumo. Dal 2001 tutto questo ha molto a che fare con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ha a che fare con l’emersione produttiva di nuovi Paesi in cui si è delocalizzata la produzione che prima si trovava nei Paesi a capitalismo maturo: da quel momento l’aspettativa è stata che i prezzi sarebbero scesi perché entravano nel mercato formidabili deflattori, soggetti in grado di ridurre i prezzi, come appunto la Cina che ha abbattuto il costo del  lavoro e i costi di gestione degli impatti ambientali. L’aspettativa dominante, allora, era che questi Paesi avrebbero raffreddato i prezzi, e quindi questo meccanismo – abbinato anche alla reale capacità di questi Paesi di ridurre i prezzi, non certamente nella misura in cui si riducevano sul mercato finanziario – ha determinato una deflazione, una situazione in cui pur in presenza di aumento dei consumi, le scommesse finanziarie hanno tenuto i prezzi molto più bassi di quello che avrebbero dovuto essere.

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Con quali effetti sui consumi e sul pianeta?

Senza dubbio questo ha alimentato ulteriormente i consumi e peggiorato le condizioni ambientali. Le ha peggiorate sia in termini di consumi non più frenati dai prezzi: perché da allora non ha più funzionato quel naturale deterrente all’aumento dei consumi che è l’aumento dei prezzi. E poi per la capacità di produzione di più in Paesi che avevano abbandonato ogni remora in termini di impatto ambientale. Abbiamo così assistito ad un ventennio paradossale in cui si è avuta la percezione in cui non ci fosse un problema ambientale di scarsezza di risorse né di difficoltà a sostenere quei livelli produttivi. Questo ha ridotto la consapevolezza chiara di cosa voglia dire un eccesso di consumi in termini di impatto ambientale.

Professor Volpi, possiamo dire quanto di questo fenomeno deflattivo, quanto del congelamento ventennale dei prezzi al ribasso sia legato alla maggiore capacità produttiva offerta sul mercato e quanto invece alle scommesse della finanza?

Bella domanda. Penso che inizialmente, nella fase dal 2001 fino alla crisi del 2009 e poi grosso modo fino al 2011, il processo di rallentamento dei prezzi sia dipeso per circa il 60% dall’ingresso dei nuovi Paesi produttori, dalla delocalizzazione, dall’abbattimento delle retribuzioni e dei costi di gestione degli impatti ambientali, dall’utilizzo di fonti energetiche meno costose e più inquinanti. Insomma fino al 2011 i nuovi player produttivi hanno guidato, per il 60%, l’abbassamento dei prezzi. Ma stando ai dati (e anche alla luce di quello che vediamo oggi, con la scommessa finanziaria che dal 2021 ha puntato invece sul rialzo dei prezzi) da allora la quota parte che dipende dalla riduzione dei costi è progressivamente scemata e il rapporto 60-40 (che era un rapporto già importante, basti pensare che negli anni ’70 la dimensione finanziaria pesava meno del 10%) oggi è diventato 30-70, con la capacità del sistema reale di incidere sull’andamento dei prezzi calata al 30% mentre il restante 70% dipende invece dalla speculazione finanziaria.

Un esempio concreto è l’oscillazione che abbiamo osservato e vissuto nell’andamento dei prezzi dei cereali: prezzi ormai totalmente sganciati da offerta e domande reali. Così come per i prezzi dell’energia.

Ci troviamo ora in una fase di tendenziale rialzo dei prezzi solo perché esiste una scommessa al rialzo legata alla previsione della possibile scarsità di beni: ma in questo momento, tenuto conto del rapporto domanda offerta, la scarsità non c’è, perché rispetto all’inizio del millennio in parte si è contratta anche la domanda reale. Ma la speculazione punta in alto, indipendentemente dalla realtà.

Ormai il prezzo è un indicatore che non ha quasi più niente a che fare con l’andamento dell’economia reale, coi consumi reali, con lo stato di salute del pianeta. Ormai il prezzo è una variabile finanziaria, e questo fa sì che il mercato non abbia più quella capacità di regolazione dei fenomeni sociali e anche ambientali che ha avuto per secoli.

Oltre ai cereali e all’energia, altre merci che hanno visto salite i prezzi alle stelle sono le terre rare, quegli elementi sempre più richiesti dal mondo produttivo e centrali per la transizione ecologica. Anche in questo caso possiamo dice che c’è lo zampino della finanza?

Proprio quello delle terre rare è un esempio di scuola per mostrare quanto la finanza pesi sui mercati delle merci. Esistono certamente una serie di problemi legati alla concentrazione di questi elementi in alcune aree geografiche, al fatto che in queste aree ci possano essere condizioni politiche particolari, ma tutto questo non giustifica le impennate di prezzo che questo tipo di beni ha subito e che conosce oggi. È evidente che anche in questo caso la finanza lavora a pieno ritmo, e lo fa proprio facendo leva su queste variabili di incertezza: nei casi in cui si ipotizza che si possa determinare un monopolio per ragioni geografiche o geopolitiche, questa ipotesi immediatamente si traduce in speculazioni che moltiplicano l’aumento tendenziale di prezzo per due, tre, cinque, in alcuni casi dieci volte. Lo dimostra anche la rapidità con la quale si manifestano gli aumenti di prezzo, spesso oggettivamente sganciata dal ciclo di domanda e offerta reale.

A questo punto pare evidente che tra i protagonisti della transizione ecologica non possiamo dimenticare proprio la finanza.

Direi di sì. Per mille ragioni. Prima di tutto sicuramente c’è, come abbiamo detto, la relazione interrotta tra economia finanziaria ed economia reale, che non consente di capire, come accadeva invece in passato, quanto i consumi siano preoccupanti per lo stato di salute del pianeta: in passato infatti l’inflazione era ‘utile’ anche a quello. Ma poi c’è anche il fatto che larga parte della transizione verso modelli produttivi più sostenibili avrà bisogno di finanziamenti, e oggi la liquidità per gestire i grandi processi di trasformazione è affidata in larghissima parte alla finanza. Nei prossimi anni ci troveremo a dover gestire un fenomeno che ha bisogno di una montagna di soldi, come possiamo misurare a partire dal Green new deal. E quei soldi oggi tendono ad essere non più finanziabili dal pubblico (peraltro gli alti tassi di interesse e quindi il crescente costo del debito rendono ancora più difficile il finanziamento pubblico): ci sarà quindi una enorme quantità di finanziamenti che verranno dai grandi fondi finanziari. Visto che questi soggetti sono anche quelli che sono in grado di determinare l’andamento dei prezzi, temo che si creerà una situazione in cui i grandi fondi decideranno i prezzi e poi orienteranno il loro finanziamento della transizione ambientale tenendo ovviamente conto di questa dinamica artificiale dei prezzi e tutelando in primo luogo i propri interessi. Penso all’uscita dalle fonti fossili: è chiaro che i fondi gestiranno il sistema dei prezzi in maniera tale che sia per loro molto fruttuosa. Insomma questi soggetti orienteranno la transizione ecologica e ne determineranno i tempi in maniera per loro conveniente e probabilmente non nella maniera migliore per noi tutti e per il pianeta.

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Nel libro racconta anche dell’influenza della finanza nell’Emission Trading System (Ets), il mercato europeo delle emissioni climalteranti.

Il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra è stato concepito con l’obiettivo di indurre le grandi imprese del Vecchio Continente ad inquinare di meno. L’idea era quella di fissare un tetto massimo alle emissioni di alcuni agenti inquinanti, in particolare biossido di carbonio (CO2), ossido di azoto(N2O) e perfluorocarburi (PFC). Le aziende e le industrie che emettono tali sostanze possono ricevere i cosiddetti carbon credit o quote di emissione: una quota corrisponde all’autorizzazione ad emettere una tonnellata equivalente di CO2. Le aziende possono però acquistare le quote sul mercato Ets: chi ne ha bisogno le acquista da chi virtuosamente non le ha utilizzate. Il mercato delle emissioni è però diventato ormai un mercato finanziario, perché è stato deciso, anche in questo caso in modo molto singolare, che non solo chi risparmia e chi produce emissioni possano partecipare al mercato, ma possono farlo anche gli intermediari che trasformano l’Ets in un vero e proprio mercato di titoli. Altre dimostrazione di come la finanza sia pervasiva nel mondo della transizione ambientale: questi strumenti che in partenza erano concepiti per favorire i processi trasformativi e invece finiscono per ostacolare la trasformazione, rendendola molto più costosa.

Inoltre, come spiega sempre nel suo libro, in Italia la destinazione dei proventi delle ‘aste verdi’ dei crediti di emissione solo per il 50% va a finanziare progetti di transizione ecologica, per il restante viene assegnata al Fondo di ammortamento dei titoli di Stato, concorrendo alla riduzione del debito pubblico. Quel debito pubblico che, ancora una volta, viene finanziato sui mercati e anche grazie ai fondi di investimento.

C’è da dire anche che nel momento in cui il debito pubblico sarà sempre meno acquistato dalla Banca centrale europea e serviranno sempre più acquirenti privati, questi acquirenti solo in parte saranno le famiglie, mentre sempre più saranno decisivi appunto i fondi. Quindi la dipendenza dai grandi fondi diventerà sempre più importante.

Legando alla questione del debito anche una questione di democrazia.

Esattamente.

Ci ha parlato di scelte normative che hanno dato la stura alla crescente finanziarizzazione del mercato. Quali sono state queste scelte?

La più importante è la trasformazione operata negli Stati Uniti dall’ultima amministrazione Clinton, poi ripresa da Bush e poi diventata parte della normativa dell’Organizzazione mondiale del commercio: si è iniziato a consentire che gli strumenti derivati andassero oltre il loro ruolo di assicurazione. I derivati avevano la natura di un contratto di assicurazione: il venditore di un bene compra un derivato per assicurarsi contro eventuali oscillazioni di prezzo nel tempo. Da quella fase, con la norma dell’amministrazione Clinton, si è passati alla fase in cui lo strumento derivato può essere prodotto e comprato anche da chi non ha nulla a che vedere col contratto di vendita del bene e che quindi fa una vera e propria scommessa su un bene che non possiede (e a cui in fondo non è interessato in termini di scambio produttivo). Questo sganciamento degli strumenti derivati dal ruolo di assicurazioni e la loro trasformazione in scommesse è avvenuto appunto per effetto di queste normative Usa divenute poi norme WTO e recepite anche dall’Europa.

In quel momento è maturata una prospettiva paradossale e un po’ drammatica secondo la quale le sorti dei Paesi economicamente più avanzati sarebbero dipese da questa forza finanziaria: produrre tanti strumenti finanziari e arricchirsi con le scommesse avrebbe dovuto supplire al venir meno della produzione reale in buona parte dei Paesi a capitalismo maturo. Un errore che ha determinato lo sganciamento dell’economia finanziaria da quella reale.

Ancora finanza e ambiente: BlackRock, la grande società di investimento con sede a New York, è consulente della Commissione europea per lo sviluppo degli strumenti necessari ad avvicinare il sistema bancario alla sostenibilità ambientale. Quali conseguenze possiamo immaginare da questa collaborazione? 

Su questo tema ho consegnato all’editore Laterza, che ha pubblicato “Prezzi alle stelle”, quella che è una sorta di seconda puntata e che serve a spiegare come i grandi fondi – che poi sono in tutto quatto o cinque, e hanno una liquidità sterminata, si parla di 30-40 mila miliardi di dollari, paragonabile e a volte superiore a quella delle banche centrali – sono in grado ormai di condizionare l’intera filiera economica utilizzando tra le loro prerogative anche il fatto che proprio per la loro forza diventano anche i grandi consulenti di quelle istituzioni finanziarie che invece dovrebbero controllarli. Le concentrazioni del potere nelle mani dei fondi di investimento diventano determinante per hackerare i meccanismi di responsabilità economica.

© Riproduzione riservata

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