Riparare è un diritto, o almeno lo sarà dal prossimo aprile 2021, secondo il Pacchetto Ecodesign, approvato lo scorso ottobre dall’Unione Europea. Il Pacchetto ha riconosciuto ad alcune categorie di elettrodomestici (come frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, monitor e prodotti di illuminazione) i requisiti minimi di riparabilità. E obbligherà le case produttrici a fabbricare manufatti con componenti sostituibili e riaggiustabili. Misure, che la Commissione europea ha assicurato di voler estendere anche a tablet, laptop e telefoni cellulari, come si evince dal Piano di Azione dell’economia circolare approvato lo scorso marzo, il primo atto pratico del Green Deal europeo, contenete le linee guida per le attività legislative che saranno intraprese nei prossimi quattro anni. Un risultato auspicato da tempo, considerato però solo il primo passo di un percorso ancora da strutturare . Ne abbiamo parlato con Ugo Vallauri, co-fondatore di “Restart Project”, comunità di riparatori volontari fra le più attive a livello internazionale e parte del movimento “Right to Repair”. Ci ha parlato del diritto universale alla riparazione, delle zone d’ombra del pacchetto Eco-design e di quei Paesi che, sul tema della riparabilità e della progettazione ecosostenibile, stanno dando impulso a precedenti interessanti nel Vecchio Continente.
Cominciamo dall’esperienza “Right to Repair”. In che consiste e quali sono i vostri obiettivi?
La campagna europea “Right to Repair” raccoglie più di 30 organizzazioni di 12 paesi europei. Comprende comunità di riparatori volontari e professionisti, attivisti per la sostenibilità e Ong come Ecos e l’European Environmental Bureau (EEB), che hanno avuto un ruolo decisivo a Bruxelles nel presentare le nostre istanze. Riteniamo che tutti i prodotti debbano essere progettati per durare a lungo e che il consumatore abbia il diritto di aggiustarli in caso di rottura. Per farlo, crediamo che le imprese abbiano l’obbligo di garantire a tutti l’accesso a pezzi di ricambio e manuali per la riparazione. E realizzare beni smontabili e aggiornabili, privi di componenti termosaldati, che renderebbero difficile la sostituzione di parti difettose. Siamo partiti nel 2018 insieme alla campagna“Coolproducts”. L’approvazione del pacchetto di normative sull’Eco-design è stato per noi un primo punto di partenza, ma sono diverse le questioni da chiarire per arrivare al riconoscimento di un vero e proprio diritto alla riparazione.
Quali sono le perplessità in merito al Pacchetto Eco-design?
Innanzitutto, la distribuzione di manuali ufficiali alla riparazione è stata limitata ai soli professionisti, negandone di fatto l’accesso ad altri riparatori, consumatori compresi. Stesso discorso vale per alcuni tipi di pezzi di ricambio. Secondo la normativa, solo una parte verrà assicurata al pubblico. La maggior parte sarà riservata ai centri autorizzati, che avranno anche l’esclusiva su tutti i componenti dei nuovi prodotti, per i primi due anni dal loro ingresso sul mercato. Una situazione paradossale. Il rischio è che si venga a creare un monopolio iniziale della riparazione. Se un guasto non rientrerà nei criteri di garanzia, il consumatore potrebbe non avere la possibilità di sanarlo altrove, aumentando le chance che venga buttato via. Nel momento in cui un articolo sarà tolto dal mercato, un componente semplice da sostituire, come la luce del frigorifero, potrebbe richiedere l’intervento di un riparatore professionista, contrariamente al buon senso. Altro problema non considerato dai regolamenti è quello dei costi. Le aziende potrebbero vendere i ricambi a prezzi inaccessibili, disincentivando gli interventi. Inoltre, non sono state previste sanzioni per chi accorpa molteplici componenti in un unico pezzo di ricambio, che obbligano ad acquistare uno più grande e costoso del necessario (a esempio l’intero cestello della lavatrice per sostituire un cuscinetto). Crediamo sia fondamentale un cambio di passo e che questi nodi normativi debbano essere sciolti al più presto.
Quali sono i punti della nuova campagna europea “Right to Repair”
La campagna si sta occupando al momento di smartphone e prodotti ICT, le categorie merceologiche sostituite con più frequenza e fra le più inquinanti. In Europa oltre 600 milioni di telefoni cellulari producono annualmente circa 14 milioni di tonnellate di CO2, superiori a quelle emesse annualmente dalla Lettonia. Mentre sono circa 200 milioni i dispositivi venduti ogni anno. Tra il 70 e l’80% del loro impatto ambientale avviene prima che vengano accesi e coinvolge l’intera filiera produttiva: dall’estrazione delle materie prime all’assemblaggio. Imprese come Samsung, Huawei e Apple dovrebbero adottare un design più sostenibile, non solo per venire incontro alle esigenze dei consumatori, ma anche del Pianeta. Grazie anche alla pressione della nostra campagna, lo scorso marzo, il Piano di Azione dell’Economia Circolare presentato dalla UE ha messo al primo posto il Diritto alla riparabilità per ridurre l’eccessivo consumo di risorse e l’impatto dell’economia usa e getta.
Come avete accolto la decisione?
È stata la prima volta che il concetto di riparabilità è stato introdotto in un piano normativo. Un passo importante, che può dare una svolta al modo in cui saranno fabbricati e utilizzati i dispositivi in futuro. La legislazione, comunque, è ancora in una fase iniziale e non sono ancora chiare le tempistiche di discussione. Né è possibile prevedere il livello di pressione che le case produttrici e gli Stati membri saranno in grado di esercitare per ridurne l’efficacia. La differenza fra un ottimo regolamento e uno pessimo sta nei dettagli. Sapere quanto sarà difficile smontare uno Smartphone e quali pezzi di ricambio saranno accessibili a tutti è tutt’altro che scontato. E non parliamo solo di batteria, ma anche di connettori e altri componenti.
Riguardo gli aggiornamenti dei software, qual è la situazione attuale?
Alcuni aggiornamenti software riducono la velocità di un prodotto, senza che il consumatore ne sia effettivamente a conoscenza, inducendolo a credere che il dispositivo non sia più consono alle sue esigenze. In Italia Samsung e Apple sono state sanzionate proprio per questo e quest’ultima anche in Francia. Multe contenute (10 milioni di euro Apple, 5 milioni Samsung, ndr), che hanno comunque evidenziato un interesse dell’Antitrust. Il problema più grande, a ogni modo, resta quello degli aggiornamenti di sicurezza. Al momento non esistono leggi che stabiliscano un numero di anni minimo che le case produttrici sono tenute a garantire. Negli Smartphone con sistema operativo Android sono solitamente assicurati per meno di due anni dall’acquisto. Google, per gli Smartphone che produce, ne dà al massimo tre. Ciò espone il sistema operativo a falle e potenzialmente ad attacchi, che possono influire su un cambio di prodotto. Vorremmo estendere questa possibilità fino a 10 anni. L’Action Plan della Commissione Europea ha riconosciuto il problema. Ci auguriamo che sia accolto nei regolamenti futuri.
Quali sono le esperienze più interessanti dal punto di vista normativo in Europa sul tema dell’eco-design e della riparabilità?
La Francia, con la legge di transizione energetica del 2015, è stata la prima a legiferare contro l’obsolescenza programmata. Punisce con due anni di reclusione e 300 mila euro chi progetta beni che si rompono al termine della garanzia. Un provvedimento applicabile, però, solo al territorio nazionale e non risulta finora alcun caso di condanna. Da segnalare è l’esperienza della Svezia, dove sono elargiti ai cittadini incentivi per la riparazione di elettrodomestici, sotto forma di detrazioni fiscali. In Austria, a livello municipale, vengono invece erogati tramite voucher. Anche se ormai è fuori dall’Europa, interessante è la proposta del Regno Unito, che intende chiedere alle case di prodotti Internet of Things e Smart di dichiarare prima dell’acquisto la durata minima del supporto software. Quanto agli indicatori, in Francia entrerà in vigore nel 2021 una legge sull’economia circolare, comprensiva di un indice di riparabilità. Recandosi in un negozio d’Oltralpe o acquistando online, sarà possibile conoscere tramite un punteggio il grado di riparabilità dei dispositivi elettronici. Un aspetto, che sarà il tema portante della nostra campagna, per far pressione affinché tale sistema venga adottato anche dalla Commissione Europea.
E l’Italia come si sta comportando?
L’Italia non è purtroppo mai stata esattamente in prima linea con normative sulla riparabilità, rispetto alla quale ha anzi assunto posizioni discutibili. Un atteggiamento grave, che credo nasconda la pressione delle industrie produttrici, evidentemente in grado di condizionare le scelte del Paese, contrariamente agli interessi ambientali e dei consumatori. Insieme a Gran Bretagna e Germania, è stato il paese che più si è opposto alle misure del pacchetto Eco-design, durante la fase di discussione. Tanto che abbiamo promosso una petizione indirizzata al Ministro dell’Ambiente, raccogliendo oltre 100 mila firme per chiedere al nostro Governo di essere propositivo rispetto alla riparazione. Nel luglio 2018, ad ogni modo, è stato presentato il disegno di legge n. 615 per il contrasto all’obsolescenza programmata dei beni di consumo. È ancora in discussione. Ci auguriamo possa contribuire a risolvere il problema e a ridurre finalmente la produzione di rifiuti elettrici ed elettronici del Belpaese.
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