Tra i meriti maggiori del Rapporto nazionale sul riutilizzo, giunto alla settima edizione, c’è non solo l’ampia mole di informazioni – tantissimi i numeri e le valutazioni – ma, soprattutto, un approccio trasversale che permette di trovare l’autonarrazione insieme a spunti di riflessione, critiche argomentate e puntuali, suggerimenti pratici. In 165 pagine – realizzate dall’Osservatorio del Riutilizzo di Occhio del Riciclone Italia in collaborazione con Rete ONU, associazione di categoria degli operatori del riutilizzo, e Labelab Srl, società di consulenza specializzata nel ciclo dei rifiuti – c’è davvero tutto (o quasi) quel che serve sapere su un settore, quello del riuso, che vede almeno 80mila persone addette e reimmette in circolazione ogni anno 500mila tonnellate di beni. A ciò va aggiunto che altre 600mila tonnellate, pari al 2% di tutti i rifiuti urbani prodotti in Italia, potrebbero facilmente essere preparate per il riutilizzo senza bisogno di interventi di riparazione e distribuite in canali commerciali che già oggi sono consolidati.
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I numeri del riuso
Da soli, i numeri non sempre riescono a spiegare la complessità del reale. Nel caso del riuso, però, possono essere un ottimo punto di partenza. Vale la pena spiegare prima che, come ben sanno i lettori e le lettrici di questa testata e come afferma il rapporto, “tutti i beni durevoli, finito un primo ciclo di consumo, possono potenzialmente essere avviati a un nuovo ciclo di consumo sempre e quando il loro deterioramento non ne abbia compromesso definitivamente la funzione d’uso”. A far la differenza, dunque, è “l’eventuale intenzione di disfarsene di chi ha terminato il ciclo di consumo”. Ecco perché il riutilizzo diventa fondamentale per prevenire un rifiuto, e deve essere messo in grado di poterlo intercettare. Detto questo, le stime del rapporto indicano un “fatturato globale di circa 2 miliardi annui”.
Qual è dunque lo stato di salute del settore? In un arco di osservazione di 4 anni il fatturato dei negozi dell’usato conto terzi mostra una crescita del 17% superando la soglia dei 400 milioni di euro, cifra che raddoppia se si considera il venduto globale. Le piattaforme di annuncistica, ossia l’usato online, nello stesso periodo hanno avuto una crescita di fatturato di circa il 15% che ha portato il fatturato globale del comparto a 230 milioni di euro annui, ai quali però corrispondono alcuni miliardi in termini di transazioni tra privati; ma l’online, spesso visto come il futuro del riutilizzo, deve ancora dimostrare di poter raggiungere una sostenibilità economica. Il settore dell’ambulantato, che conta decine di migliaia di addetti, rimane stabile su fatturati stimabili in 950 milioni annui. Molto peculiare invece il caso del settore indumenti usati, dove il radicale incremento delle tonnellate raccolte, cresciute del 22% in 4 anni, corrisponde a una contrazione dei fatturati pari al 13%. Vuol dire che a maggiori costi corrispondono minori ricavi. Sulle proposte per tornare a un soddisfacente punto di equilibrio torneremo nella seconda parte dell’articolo.
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Le conseguenze della pandemia sul riuso
Uno dei settori più influenzato dalla pandemia Covid-19 è stato certamente il riuso. La limitazione negli spostamenti e le conseguenze economiche sono state (e saranno) così importanti che le analisi e i numeri non convergono. Di questa complessità ne dà meritoriamente conto il rapporto, che non può partire da uno dei problemi essenziali, nato ben prima del lockdown, e ancora non risolto: le attività dell’usato non hanno codici Ateco specifici.
Per Alessandro Giuliani, che già a dicembre invocava sulla nostra testata la necessità di una legge e titolare di Leotron (Mercatopoli, Baby Bazar e Niu.Eco), il bicchiere è mezzo pieno. “Nonostante le difficoltà – riferisce Giuliani – il 2020 è stato per i nostri network un anno straordinario, in autunno molti negozi hanno battuto i loro record storici di vendita. Le persone si sono rese conto più che mai che l’usato è un’alternativa del nuovo, e a questo ha contribuito anche la maggiore diffusione di app e strumenti online; proprio nel periodo del lockdown siamo riusciti a lanciare un nuovo network, chiamato Niu.Eco, che coinvolge già decine di negozi autonomi”.
Dall’altra parte sono tante le testimonianze – singoli operatori, centri del riuso, imprenditori dell’usato – che confermano come le restrizioni sanitarie hanno rallentato la filiera. Con uno strano cortocircuito: da una parte molte più persone, essendosi impoverite, guardano ora con favore all’usato; dall’altra, come ha raccontato il centro del riuso di San Benedetto del Tronto (leggi qui la loro storia),” le persone, in difficoltà o preoccupate per il futuro, tendono a non liberarsi più di nulla”.
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Le infiltrazioni criminali
“Qualunque siano le politiche che il ministero deciderà di adottare, è importante che si prevengano scenari dove il commercio al nero diventi dominante”. L’osservazione di Stefano Vignaroli, presidente della commissione parlamentare Ecomafie, centra il punto. Quando si parla di riuso, infatti, uno dei maggiori problemi è proprio il fatto che tante volte gli scambi, anche quando non necessariamente criminali, sfuggono comunque al controllo dello stato. Che invece potrebbe puntare non solo a maggiori tutele ambientali ma anche a una migliore redistribuzione fiscale. Il caso più tipico è quello degli indumenti usati, al quale il rapporto dedica non a caso un intero capitolo e intitolato proprio “il grande rompicapo”. Dal rapporto si apprende che “la filiera degli abiti usati rappresenta senza alcun dubbio un grado di strutturazione e articolazione che è avanguardistico rispetto alle altre filiere della preparazione per il riutilizzo”. Allo stesso tempo, però, da tempo si assiste a una crescita dell‘export degli abiti usati dall’Italia verso India e Pakistan che, come hanno accertato numerose inchieste, serve ad aggirare gli alti costi di smaltimento degli indumenti non recuperabili.
“In relazione ai centri di riuso – osserva ancora Vignaroli dopo l’uscita del rapporto – occorre fare chiarezza sulla dimensione della gratuità nella cessione dei beni che è associata a libere offerte in denaro che in realtà sono contropartite economiche. Oggi è una pratica molto diffusa, dato che riguarda oltre il 50% dei centri di riuso censiti, e si può presumere che non abbia effetti negativi; ma se questo tipo di sistema si estendesse ed evolvesse, gli effetti potrebbero essere disastrosi. L’incremento del sommerso infatti, oltre a provocare un evidente danno all’erario pubblico, creerebbe enormi spazi di irregolarità dei quali si potrebbero beneficiare le stesse organizzazioni criminali che tutt’ora accaparrano i vestiti usati; economie irregolari che – conclude Vignaroli -, come accaduto con gli abiti usati, implicheranno delitti ambientali, riciclaggio di denaro e violenze. I decreti ministeriali sul riutilizzo, che ormai sono imminenti, avranno un ruolo chiave nel determinare il futuro dei centri di riuso; per questa ragione sono in procinto di scrivere al ministero della Transizione Ecologica, al quale sottoporrò alcune considerazioni tecniche finalizzate alla prevenzione degli scenari di illegalità”.
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L’impatto delle nuove norme sul tessile
Sono tante le norme che a breve potrebbero modificare in maniera sostanziale il settore del riuso più noto. Dall’1 gennaio 2022 per l’Italia sarà obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti tessili.
“L’obbligo – si legge nel rapporto – vige anche per gli altri paesi europei, anche se ognuno lo implementerà con tempistiche diverse, e ciò probabilmente si tradurrà non solo in una moltiplicazione dei territori coinvolti dalle raccolte ma anche in un aumento delle quantità di tessile conferite nei contenitori stradali già attivi. In poche parole aumenteranno ancora di più i flussi, cioè l’offerta, e l’ovvio effetto di mercato sarà un’ulteriore caduta dei prezzi dei vestiti usati”.
Dall’altra parte, poi, anche il tessile dovrà andare incontro, si spera, a specifici regimi di responsabilità estesa del produttore. Nell’analisi del rapporto ciò “obbligherà chi produce e distribuisce i vestiti nuovi a garantire la sussistenza delle filiere del recupero del rifiuto tessile, e ciò potrebbe salvare il settore. Ma in realtà potrebbe anche affossarlo definitivamente dato che i produttori, se lo desiderano, avranno la possibilità di organizzare, e non solo finanziare, il recupero dei rifiuti, e il loro intervento organizzativo potrebbe sfavorire le filiere già esistenti”.
Infine si attendono a breve le “linee guida di Utilitalia sull’affidamento dei servizi di gestione dei rifiuti tessili” che, seppur non hanno valore normativo, rappresentano comunque un importantissimo elemento d’indirizzo che potrebbe influenzare il funzionamento dell’intera filiera. Secondo il rapporto, infatti, “offrono infatti concreti strumenti per rendere più trasparenti le filiere inibendo i fenomeni, purtroppo frequenti, di infiltrazione criminale, commercio al nero e delitti ambientali (oggetto di un filone d’inchiesta della dommissione Ecomafie) e, allo stesso tempo, introducono criteri contro l’ingannevolezza dell’argomento solidale”.
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Le proposte del riuso
Che per il settore del riuso servano regole chiare e coerenti, nonché una maggiore professionalizzazione, è ormai chiaro a tutti e tutte. Dagli annunci alla pratica politica, però, la strada è ancora tanta. Serve una legge con un approccio olistico, dove agli aspetti ambientali vengano associati anche quelli commerciali, dove accanto a una maggiore chiarezza fiscale vengano preservate le istanze sociali e solidali del settore.
Le norme che regolano il riuso sono infatti tante e variegate – il report ci mette almeno una decina di pagine a ripercorrerle tutte, distinguendo tra normativa ambientale e non ambientale. Dal 2018, grazie all’attività di Rete Onu, in Parlamento sono state presentate 4 proposte di legge di riordino del settore che però, ad oggi, risultano ancora bloccate. In esse sono contenute molte delle proposte che potrebbero dare il definitivo slancio a un settore fondamentale per una reale applicazione dell’economia circolare. Proposte, tra l’altro, immediatamente eseguibili e che fanno riferimento a leggi già esistenti o in essere.
Dal Piano d’azione per l’economia circolare, firmato Unione europea, il rapporto delinea “tre percorsi diversi da intraprendere: 1. migliorare la durabilità, la riutilizzabilità e la riparabilità dei prodotti; 2. dotare i consumatori delle informazioni sulla durabilità dei prodotti, la disponibilità dei servizi di riparazione, i pezzi di ricambio e i manuali di riparazione già presso il punto vendita, per un acquisto consapevole; 3. istituire un nuovo diritto alla riparazione”.
Il Programma Nazionale di Prevenzione dei rifiuti (PNPR), che il nostro Paese dovrà redigere secondo quanto previsto dal d.Lgs. 116/2020, potrà invece essere l’occasione per “individuare misure nazionali e buone pratiche regionali e locali per promuovere la prevenzione, nuova parola d’ordine, che rischia di calarsi in un contesto che, come emerge dall’indagine conoscitiva di ISPRA, è rappresentato da forte disomogeneità territoriale e ancora scarsamente incentivata nella pratica”. Inoltre “anche misure nazionali di politica fiscale e di incentivazione economica possono svolgere un ruolo trainante sul vertice della gerarchia dei rifiuti, così come i processi di integrazione orizzontale e verticale tra gli operatori coinvolti nella filiera del riuso, in particolare tra i soggetti gestori responsabili della raccolta dei rifiuti urbani e gli operatori professionali attivi sul mercato”.
Rimanendo in ambito nazionale, c’è da considerare anche la regolazione ARERA che “può rappresentare una leva per un incremento della diffusione di pratiche di prevenzione, riutilizzo e preparazione per il riutilizzo. Il Metodo Tariffario Rifiuti (MTR), riconoscendo in tariffa i costi per lo svolgimento di campagne informative e di educazione ambientale e più in generale gli oneri sostenuti per le misure di prevenzione, va nella giusta direzione”.
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