La lettura del rapporto nazionale sul riutilizzo, giunto alla settima edizione, offre dati e prospettive. E sollecita ulteriori domande su un comparto che, nel silenzio pressoché generale, vede almeno 80mila persone addette e reimmette ogni anno in circolazione 500mila tonnellate di beni. Nonostante i dialoghi costruttivi con la politica, a 11 anni di distanza dalla legge che istituisce il riutilizzo e la preparazione al riutilizzo, si attendono ancora i decreti attuativi che possano disegnare un filiera che finora deve molto all’autorganizzazione e a meccanismi di solidarietà sociale. I presupposti per un efficiente uso delle risorse, però, ci sono tutti. È una delle tesi di Pietro Luppi, presidente della onluns Occhio del riciclone. Attento studioso di ciò che si muove attorno al settore, a lui abbiamo rivolto qualche domanda a partire dal dossier di cui è uno dei principali curatori.
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Nel report ricordate che in merito al settore del riutilizzo molte norme esistono già e servirebbe dare un quadro legislativo organico e coerente. Tra inadeguatezza dei codici Ateco e mancata attenzione del Pnrr, qual è l’attenzione che riscontrate da parte delle istituzioni?
A noi ha colpito il fatto che il Piano nazionale quasi non menziona il riutilizzo, nonostante l’economia circolare sia considerata una linea strategica dall’Unione europea, e dunque questa dovrebbe innervare l’intera visione di sviluppo dell’Italia. Un approccio particolarmente triste se si considera il potenziale ad esempio della preparazione del riutilizzo: in presenza di schemi ben disegnati noi potremmo estrarre quasi altri due miliardi di euro di ricchezza. E stiamo parlando di attestazioni al ribasso, nel senso che riguardano prodotti che non necessitano di interventi, quindi senza essere riparati o lavorati. Si tratta di materiali già pronti per essere nuovamente incanalati nel mercato, in canali di distribuzione che sono già consolidati. Se a ciò associamo settori dell’usato da creare ex novo, come quello delle porte o degli infissi, le cifre aumentano. Uno dei problemi più grandi è dunque la mancanza di visione. Da 11 anni attendiamo i decreti attuativi, previsti dalla legge, sul riutilizzo. Finora le bozze che abbiamo potuto visionare sono pessime, che quasi preferiremmo non venissero partoriti i decreti attuativi. Sembra che al governo non si abbia cognizione dell’economia del riutilizzo. Servono invece interventi sistemici, sia a livello locale che nazionale: penso per esempio ai centri del riuso, con i quali i Comuni di solito si limitano a coinvolgere le associazioni. Cedere le merci in cambio di una libera offerta economica è una sorta di commercio al nero. Non dannosa, chiaramente, ma così è. Anche io, quando ero boyscout, vendevo la torta di mele di fronte alla parrocchia per autofinanziare le nostre attività. Dopodiché se in un sistema che dovrebbe essere organico ci metti uno snodo così fondamentale, dove si opera in questo modo, poi non possiamo sorprenderci delle infiltrazioni criminali.
In questo quadro come si inserisce la cosiddetta ripresa post-Covid? Potrebbe essere l’occasione per colmare le mancanze che hai delineato?
Sicuramente ci sono tutti gli elementi di mercato, e anche di soggettività produttive, per creare filiere che funzionano e che garantiscano risultati ambientali finora impensabili. Una speranza potrebbe venire dalla responsabilità estesa del produttore. Dato che i produttori sono vincolati a raggiungere una determinata quota di recupero, insieme al fatto che il riutilizzo è in cima alla gerarchia dei rifiuti, probabilmente basterebbero le indicazioni generali che sono già in cantiere a stimolare un’evoluzione naturale delle cose. Una delle soluzioni potrebbe essere quella di Ikea, che nel tempo ha costruito una filiera di recupero autosufficiente, mentre altre aziende hanno coinvolto in questo periodo soggetti riconosciuti con i quali hanno fatto rete. Il problema è che finora si è agito in un modo, ovvero quello di scremare le qualità migliori del prodotto, che però così compromette la sostenibilità economia del processo. Quindi il massimo recupero al momento si può fare con le realtà che sono disposte a lavorare con prodotti di media e scarsa qualità, ai quali è stata tolta per così dire la crema. Chi può essere interessato a mangiare un bigné a cui è stata tolta la crema?
Un argomento al quale il dossier dedica particolare attenzione è il settore tessile, che a breve dovrà affrontare la sfida dell’obbligo della raccolta differenziata. Siamo pronti? E in che modo in questi mesi si può provare a tappare le falle?
Esiste un problema di disequilibrio economico che, se non viene risolto, può portare a deformazioni ed effetti indesiderati. Parte del problema è da addebitare alla carenza di impianti. Per sua naturale tendenza, il flusso di mercato è sempre più povero, per cui abbiamo una frazione utilizzabile sempre minore, una frazione da smaltire sempre maggiore e una frazione riciclabile che tende ad ampliarsi, anche se c’è carenza tecnologica di impianti su larga scala. Il primo punto è dunque arrivare al 2022 con una regolamentazione della responsabilità estesa del produttore. Perché altrimenti il rischio è che si mettano a sistema determinati illeciti. Negli ultimi anni, per esempio, ci siamo accorti che il settore degli indumenti era infiltrato dalla camorra. Ora ci siamo resi conto, e noi siamo stati i primi a denunciarlo, che adesso nel “comparto” degli sversamenti illeciti la fanno da padrona gli imprenditori indiani e pakistani, dove vengono inviate enormi quantità di vestiti (e spesso sono gli stessi operatori a coprire i costi). Si tratta evidentemente di scarti non selezionati, ovvero rifiuti, con tutte le conseguenze che stiamo imparando a conoscere come l’impiego di lavoro minorile e l’inquinamento ambientale. Il dramma è che al momento non esiste alternativa, perché fino a questo momento il settore, per essere economicamente sostenibile, si regge su questi illeciti.
Questa esportazione dell’illecito non riguarda solo il tessile. Mi viene in mente ciò che succede coi Raee, che vengono portati in Africa per estrarre lì i metalli preziosi. Come si può impedire tutto ciò, affinché la valorizzazione avvenga dove serve?
C’è un problema strutturale, che è quello dell’economia circolare in generale, ovvero come si possono recuperare le frazioni creando in un certo senso contesti autarchici. Non ci si riesce, ovviamente, perché viviamo in un’economia globale. Chi è che ha domanda di materia prima seconda? Cina e India, ad esempio, dove sta fiorendo la produzione industriale. Quindi bisogna smettere di considerare l’usato e il riutilizzo come fenomeni completamente separati e avulsi dal resto dell’economia del recupero. Anche a livello di mercato ci sono alcune dinamiche che restano. Se Paesi come il nostro non puntano più sulla produzione industriale non deve poi sorprenderci se le materie prime seconde si spostano verso altri Paesi. Con l’usato noi abbiamo una regola base, che vede spostarsi i prodotti dal territorio più ricco a quello più povero. Faccio un esempio: sugli abiti usati noi importiamo vestiti che provengono dalla Francia, dalla Germania o dalla Scandinavia ma esportiamo in Europa orientale o in Africa i nostri indumenti. E allora bisognerebbe puntare su sistemi di controllo e di monitoraggio delle filiere che siano estremamente più efficaci di quelli attuali. Come farlo? Coinvolgendo direttamente i Paesi dove vanno a finire le materie prime seconde. Si tratta di aggregare dei costi, che è poi l’auspicio della responsabilità estesa del produttore, e di creare forme di cooperazione tra gli Stati, per migliorare gli standard in un’ottica di mercato.
All’interno del report c’è un dato significativo, ripreso da un sondaggio Doxa ed effettuato attraverso la somministrazione di 2000 questionari a un campione di cittadini, 23 milioni di italiani ha comprato o venduto usato. All’interno di questa fetta spiccano categorie particolari come i laureati (66%) la generazione Z (65%), famiglie con bambini piccoli (63%). Come si può interpretare questa tendenza?
Ti rispondo citandoti una ricerca di qualche anno fa, effettuata attraverso interviste telefoniche, che parlava di un vero e proprio boom dell’usato in Scandinavia, mentre fanalino di coda era l’Europa orientale. Ebbene, noi abbiamo effettuato un’indagine di mercato e ci siamo resi conto che la realtà era molto diversa, ossia che il settore del riuso era enorme nell’Europa orientale e rachitico, per essere generosi, in Scandinavia. Allora la domanda che ci siamo posti è: come è possibile che in Paesi dove c’è meno riuso le persone sono più motivate a rispondere positivamente, e viceversa? Per noi è una questione di status. Nelle fasce socioculturalmente più basse l’usato può ancora essere visto come qualcosa di cui vergognarsi.
Perché è collegato alla povertà, no?
Esatto. Per loro l’usato significa un’ammissione di povertà. Nelle fasce socioculturalmente più alte, invece, si fa meno ricorso al riutilizzo anche se è più cool dire di perseguirlo. Allora quello che si può rivelare dall’indagine Doxa è che il riutilizzo finalmente è diventato qualcosa di figo, di tendenza. E spero che questo riverberi presto in una diminuzione dello status negativo del riutilizzo da parte delle fasce socioculturalmente più basse.
Che invece poi sono coloro che hanno più bisogno del riutilizzo.
Sono loro il vero motore del riuso.
Non possiamo chiudere l’intervista senza commentare la diffusione dell’online, che ha avuto un exploit durante la pandemia. Cosa ne pensi? Il riutilizzo è destinato a cambiare con l’online?
Innanzitutto l’online nell’usato è un fenomeno piuttosto controverso. A partire dall’aspetto analitico. Prima di parlare di boom dell’online, infatti, bisognerebbe capire il livello di sovrapposizione tra l’online e l’offline. Cos’è che sta crescendo, le transazioni tra privati oppure il ricorso degli operatori dell’usato agli strumenti online? Durante il lockdown, ad esempio, i negozi che erano chiusi non hanno smesso di lavorare ma, per esempio, hanno rafforzato la tendenza già esistente della multimodalità. È chiaro che nel 2020 c’è stato uno sbilanciamento per forza di corse verso l’online, ma con questa cornice il fenomeno si può inquadrare meglio. Dopodiché il grosso limite di questo fenomeno è che tutti i big di mercato hanno avuto, proprio durante la pandemia, perdite ingenti. Nel nostro report c’è un’analisi dettagliata di Leotron che è andata ad analizzare i bilanci alcuni di questi big: Subito.it ha perso tra il 2013 e il 2019 circa 45 milioni di euro; tra il 2017 e il 2019 Vinted ha bruciato quasi 23 milioni di euro. I media e gli esperti del settore, soprattutto nell’ambito del trading, hanno segnalato la presenza di imprenditori particolarmente spregiudicati che riescono ad attirare valanghe di denaro senza però aver sviluppato un modello di business efficiente. Ovviamente si tratta di meccanismi che prima o poi arriveranno al collasso. Non sappiamo quando avverrà, se tra un anno o tra dieci, però il rischio di un crollo della bolla speculativa sul settore dell’usato online è molto forte. E allora per capire se l’online sarà il futuro dell’usato dovremo verificare se esisteranno i margini per una ripresa del settore che però sia sostenibile. Probabilmente esiste una domanda ed esistono più in generale le condizioni tecniche per una crescita dell’usato online. Ma per valutarla realmente dovremo aspettare che passi l’attuale febbre speculativa.
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