Nell’afosa giornata di martedì 12 giugno la direzione antimafia di Trieste ha messo a segno un duro colpo contro una banda di trafficanti di rifiuti. Rifiuti che nello specifico sono Pfu, ossia pneumatici fuori uso. Il delitto contestato è quello più grave, traffico organizzato di rifiuti ai sensi dell’art. 452 quaterdecies del codice penale.
Sotto indagine finiscono 23 persone, di cui 14 ghanesi, 4 camerunensi, 2 ivoriani, 2 nigeriani e 1 italiano. Uno di loro è finito in carcere perché colto in flagranza di reato dagli agenti della Polizia Stradale. Si legge nella nota stampa che l’operazione ha portato al sequestro oltre 1.100 metri cubi di pneumatici fuori uso da smaltire, nella maggior parte dei casi incastrati uno dentro l’altro: un numero compreso tra le 20.000 e le 25.000 gomme aventi un peso approssimativo compreso tra le 100 e le 120 tonnellate, nonché oltre 200 batterie esauste per veicoli.
Perché ci sono i traffici illeciti in un sistema “chiuso”?
Nel riprendere la notizia i media si soffermano sui dettagli del modus operandi dei presunti trafficanti, ma nessuno si pone la fatidica domanda: perché? Perché si organizza un traffico di pneumatici se per questa tipologia di scarti è previsto sin dal 2011 uno schema di responsabilità estesa del produttore (Epr in inglese)? Il recupero e lo smaltimento di pneumatici fuori uso da parte dei sistemi Epr si finanzia grazie al contributo ambientale pagato al momento dell’acquisto di una gomma nuova dal cittadino nella veste di consumatore (quindi si tratta di soldi pubblici) e il ritiro presso il gommista è completamente gratuito. Allora perché vediamo così spesso grandi cumuli di vecchi pneumatici, incendi o per l’appunto casi di illegalità? Se è un sistema che si sorregge da sé e l’ultimo anello della catena – di solito il gommista che cambia il vecchio copertone con uno nuovo – non ha motivo di rivolgersi al mercato nero (per lui disfarsene non è un costo), perché, allora, si architetta un flusso illecito che porta fino in Africa?
Questa volta non si può dare la colpa alla mancanza di impianti o al logorio della corruzione che brama appalti da truccare, non si tratta nemmeno di fastidiosi rifiuti indifferenziati (privi di valore) da smaltire, ma di una specifica categoria di rifiuti già differenziata da cui è possibile ricavare materia (e pure energia). Allora perché raccontiamo sempre la stessa storia di traffici illegali di Pfu? Avendo disarticolato l’ennesima banda di trafficanti tutto dovrebbe tornare a funzionare a meraviglia. Ma non è affatto così ed enormi quantità di pneumatici continuano ad accumularsi nei piazzali dei gommisti. Gli operatori sono esasperati, le manifestazioni eclatanti si moltiplicano e i trafficanti tolgono solo le castagne dal fuoco.
Quando manca l’etica le regole non bastano
Da dove provengono allora quelle montagne di gomme e perché arrivano fino in Africa? Per rispondere è necessario accendere i riflettori su pregi e difetti del modello di compliance EPR, vale a dire della modalità con cui si applicano e si fanno rispettare le norme che regolano questo settore. I pregi: con queste regole aumenta la tracciabilità e si introducono meccanismi utili a finanziare la raccolta mirata dei beni post consumo. Il difetto principale, invece, è che il sistema si regge se e solo se tutti rispettano le regole. La legge migliore del mondo senza efficaci meccanismi di compliance e, soprattutto, senza etica e senso di responsabilità da parte dei diversi anelli della catena, nessuno escluso, finisce per lasciare spazio all’imprevisto. E questo vale in modo particolare nei modelli di Epr.
A differenza dell’illegalità classica, che si consuma completamente al di fuori delle regole, nel caso specifico si rilevano dinamiche criminali e/o border line che partono a monte della filiera e sono capaci di articolarsi sia su un fronte propriamente illegale che nelle pieghe del quadro di regolazione, quindi non necessariamente e apertamente al di fuori di questo. Spesso non serve nemmeno ricorrere all’illecito per aggirare la norma e quello che riescono a far emergere le forze di polizia è solo il momento finale di una lunga catena di criticità e irregolarità.
Di seguito accenniamo ad alcune delle falle del sistema di gestione che generano flussi extra di Pfu, cioè quantitativi che sfuggono alla regolazione ufficiale e che gravitano in spazi e orizzonti opachi. La prova del nove di queste falle sta nel fatto che ogni anno si stimano dalle 30 alle 50 mila tonnellate di PFU in più accumulati nei magazzini dei gommisti. Produttori e importatori, giova ripeterlo, hanno l’obbligo di raccogliere annualmente un quantitativo di Pfu equivalente al quantitativo di pneumatici nuovi immessi sul mercato, al netto del recente provvedimento assunto dal Ministero per la Transizione Ecologica (Mite), in virtù del quale si chiede, nella sostanza, a chi gestisce in modo corretto gli pneumatici fuori uso di smaltire anche parte di quelli provenienti dal mercato nero.
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La prima falla: il mercato nero di pneumatici nuovi
La prima falla è data proprio dal mercato nero di pneumatici nuovi, commercializzati soprattutto tramite le piattaforme on line oppure da operatori in parte o del tutto irregolari. Nel primo caso, grandi e piccoli broker, sfruttando anche il meccanismo di regolazione internazionale dell’Iva (meccanismo a debito/credito), vendono le gomme senza addebitare quest’ultima e persino il contributo ambientale. In questo modo riescono a garantire alla propria clientela risparmi anche del 30-40%, prezzi imbattibili, vera e propria concorrenza sleale per chi invece fa tutto in regola.
Nel secondo caso, il commercio illegale non ha nemmeno bisogno di internet e si muove come ha sempre fatto, ossia attraverso la selva di gommisti e riparatori irregolari. Accade nelle sue forme più eclatanti persino con l’ingresso nel nostro Paese (l’Italia importata quasi la totalità degli pneumatici immessi in commercio) di Tir provenienti da Paesi Bassi, Austria, Germania, e altri Paesi carichi di gomme nuove, regolarmente trasportate, che appena arrivate a destinazione, per volontà del venditore e del rivenditore/gommista, si decide di far transitare nel mercato nero. Basta la semplice distruzione delle bolle di accompagnamento e le gomme diventano ingombranti fantasmi per il fisco, alimentando così la fetta di Pfu “orfani”.
La seconda falla: manca la tracciabilità dei singoli pneumatici
La seconda falla, da cui discende la prima, è che non esiste alcun sistema di tracciabilità delle singole gomme, quindi quando arrivano a fine vita diventando Pfu quelle vendute in nero si mischiano con quelle vendute regolarmente, facendo saltare i target di raccolta. Finora, a livello internazionale, non si è riusciti a implementare un modello condiviso di tracciabilità e anche i recenti tavoli messi in piedi nel nostro Paese non hanno raggiunto alcun risultato.
L’assenza di tracciabilità facilita anche la speciosa sovrapposizione tra Pfu (rifiuti) e pneumatici usati (non-rifiuti), nel senso che, non essendoci una distinzione netta tra queste due categorie – sottoposte a regimi diversi – alcuni operatori sfruttano a proprio vantaggio tale ambiguità, a seconda delle situazioni, per fingere operazioni di trattamento che in realtà non avvengono. È così che i Pfu ritirati come rifiuti vengono venduti sul mercato dell’usato, procurando un incasso anziché una spesa. Come raccontano alcune fonti qualificate, questo giochetto, ripetuto anche diverse volte, serve a far girare tanta carta (utile a simulare costi in realtà mai sostenuti) e incassare somme in nero, anche senza che le gomme si debbano necessariamente spostare. La sovrapposizione illecita tra mercato delle gomme usate e mercato dei Pfu sta alimentando flussi sempre più consistenti, contribuendo anche per questa via a “lasciare a terra” gomme che figurerebbero invece come già uscite di scena (quindi gestite definitivamente).
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La terza falla: quei target di raccolta basati sul venduto
La terza falla è legata ontologicamente allo schema di Epr come disciplinato in via di principio dall’art. 228 del Testo unico ambientale e, dettagliatamente, prima dal decreto ministeriale (Dm) 82 del 2011 e da ultimo dal Dm 182 del 2019. Sistema che, “al fine di garantire il perseguimento di finalità di tutela ambientale”, impone ai produttori/importatori “l’obbligo di provvedere, singolarmente o in forma associata e con periodicità almeno annuale, alla gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso pari a quelli dai medesimi immessi sul mercato e destinati alla vendita sul territorio nazionale”. Quindi, l’obbligo per costoro è di raggiungere il rispettivo target sulla base del venduto, non certo di raccogliere tutti i Pfu in circolazione. Dal lato del gommista, o meglio del punto finale di generazione del Pfu, il diritto consiste nel ritiro gratuito ma non è un diritto da far valere nei confronti dei soggetti poi chiamati a effettuare la raccolta (consorzi e/o operatori individuali). Al diritto dell’uno non corrisponde il dovere dell’altro, insomma. Il fatto di non aver previsto alcuna forma di “fidelizzazione” o comunque di relazione stabile tra i produttori di Pfu (gommisti) e gli operatori della raccolta (consorzi e forme individuali) non facilita certo l’armonizzazione del sistema. Anzi, la possibilità di rivolgersi a chiunque ha solo contribuito ad alimentare confusione e opacità.
In questa discrasia c’è gran parte della sofferenza del sistema, ossia dell’accumulo incontrollato, presso i magazzini dei gommisti, di Pfu che non trovano posto nei canali ufficiali. Con il paradosso che i tanti che lavorano rispettando le regole rischiano di essere multati per deposito incontrollato di rifiuti, oltre a soffocare letteralmente (soprattutto i piccoli operatori) sotto la pila di carcasse che nessuno ritira più. Avviene così che alcuni decidano di rivolgersi al mercato nero, lasciando che arrivi qualcuno a fare il lavoro sporco, con una forma di “do ut des” che varia a seconda delle situazioni.
La quarta falla: la scarsa tracciabilità delle forme individuali
La quarta falla, anch’essa legata alle altre, sta nel fatto che l’obbligo dei produttori/importatori può essere assolto in “forma associata” oppure in “forma individuale”. Ora, se i consorzi – enti senza scopo di lucro – dispongono di uno statuto, di un codice etico e di forme societarie comunque sottoposte a forme di compliance, soprattutto interne, le forme individuali si muovono in maniera molto meno tracciabile, sebbene restando nel perimetro normativo, perseguendo le proprie strategie aziendali. La discrezionalità di questi soggetti è assoluta e la possibilità di fare verifiche sul loro operato del tutto teorica. La proliferazione di queste forme non ha certo contribuito a razionalizzare il sistema, anzi ne ha alimentato il grado di entropia. Si può continuare a fare impresa, rispettare la legge e allo stesso tempo mandare in crisi il sistema, ecco la novità. Il problema non è di forma ma di sostanza, poiché il Mite langue, in questo caso, in una grave forma di asimmetria informativa, non essendo in condizione di effettuare veri controlli ex post: al massimo può solo chiedere documentazione ma non avrà mai modo di verificare. Asimmetria che si spinge a livelli parossistici proprio nel caso delle forme individuali.
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La quinta falla: le “unità di misura” discordanti
La quinta falla emerge dal meccanismo stesso con il quale i singoli attori determinano il proprio target di riferimento. I problemi nascono dall’inizio: mentre il contributo è calcolato in numero di pezzi di pneumatici immessi nel mercato i target di raccolta annuali sono misurati in termini di peso. Quest’ultimo determinato sulla base di stime sul peso medio delle gomme alquanto aleatorie, soprattutto per gli importatori. Persino pneumatici di identiche dimensioni e modelli, ma prodotti da case diverse o in lotti diversi, possono avere un peso differente del 20% circa. Anche ogni singolo tipo di pneumatico può avere pesi completamente diversi, persino sulla base dei mesi/anni di fabbricazione e del tipo di miscele e dei singoli materiali impiegati, con oscillazioni che possono superare anche in questo caso il 10-15%.
Detto per inciso, un metodo molto più efficiente sarebbe, invece, quello delle bolle doganali, visto che praticamente tutte le gomme le importiamo: di fatto sono l’unico documento in grado di contenere tutte le informazioni utili, compreso il numero degli pneumatici e, soprattutto, il loro peso (compreso di tara). Secondo stime accreditate dagli operatori del settore, questo errore di calcolo potrebbe incidere per circa il 20-30% sulla mancata misurazione, reale, del gettito sufficiente a coprire l’intera spesa necessaria per la raccolta, senza che nemmeno un Pfu rimanga a terra, sempre al netto delle altre pratiche illegali.
La sesta falla: la “disinvoltura” di certi operatori
La sesta falla fa riferimento all’esercizio disinvolto, da parte di alcuni soggetti, del proprio ruolo di operatori della raccolta, che “surfano” abilmente tra le pieghe delle norme, forgiandole come si fa con il ferro caldo, provando a trasformare le difficoltà del sistema di raccolta in meccanismi anomali di penetrazione del mercato e di facile comunicazione istituzionale.
Due esempi su tutti. Il primo, che riguarda soprattutto alcuni importatori/rivenditori organizzati in forme individuali, si sostanzia in forme commerciali non scritte in cui si offre il “ritiro assicurato” dei Pfu in cambio dell’acquisto delle gomme nuove: un accordo del tutto al di fuori dal perimetro ufficiale.
Il secondo, fa riferimento a raccolte concentrate solo a favore di Pfu di piccole dimensioni e soprattutto in aree più facilmente e convenientemente accessibili, magari in “hot spot” con alte concentrazioni di carcasse, che consentono di fare buone economie di scala e di densità, lasciando il resto agli altri (una forma di cherry picking, ossia di scelta delle ciliege migliori dal vassoio, applicata ai Pfu).
A ciò si aggiungono le raccolte straordinarie (autorizzate dal Mite) di accumuli di Pfu, i cosiddetti stock storici, anche se in realtà secondo il nuovo Dm 182 non ce ne dovrebbero essere più in circolazione. Sebbene non servano a dare ristoro ai gommisti stremati e/o a sciogliere i nodi principali, quanto meno servono, legittimamente, a fare belle campagne di comunicazione.
Il dogma del mercato regolatore arriva anche al Tar
A queste falle, e alle altre che avremo modo di approfondire prossimamente anche con il contributo dei diversi stakeholder, si aggiunge la solita tara dogmatica di matrice neoliberista: l’infondata convinzione che il mercato sia sempre la panacea di ogni male. E che l’economia circolare non sia altro che una forma di continuazione, sotto vesti più accettabili, dell’economia lineare. Tara dogmatica che trova sponde persino presso la magistratura amministrativa, come dimostra la recente sentenza del Tar Lazio (n. 04121/2021) in merito al ricorso presentato proprio da uno dei soggetti attivi nella forma individuale contro il ministero dell’Ambiente. La sentenza doveva esprimersi sui nuovi meccanismi operativi di raccolta delineati dal decreto ministeriale 182, nel senso che riscrive i target di raccolta distribuendoli su macro aree, fermo restando l’obbligo di ritiro su tutto il territorio nazionale. Ricordiamo che il principio del Testo unico ambientale (Tua) che regge l’intera intelaiatura è quello di derivazione europea del “chi inquina paga”, volto a garantire la migliore tutela ambientale e non certo ad affermare un criterio di economicità. Al contrario, il giudice amministrativo, dando ragione al ricorrente che chiedeva di raccogliere solo nelle aree dove vende regolarmente, ha accolto e fatto passare l’idea che la raccolta di Pfu rientri tra le attività di carattere commerciale del singolo operatore, aprendo anche alla possibilità che ci possano essere dei margini di guadagno rispetto al contributo ambientale pagato all’atto di acquisto. Dunque ha implicitamente stabilito che l’attività economica debba prevalere sulla tutela ambientale. Si tratta di un principio alquanto discutibile e sicuramente in contrasto con il Tua, che se dovesse essere confermato anche dal Consiglio di Stato rischia di far saltare tutto il sistema.
Se vale solo il profitto salta il sistema
Sebbene la raccolta debba svolgersi in maniera efficiente, anche dal punto di vista economico, l’unico scopo dello schema di responsabilità estesa del produttore è, ripetiamolo, eliminare un rifiuto dalla circolazione nell’interesse di tutti, non certo di fare business. Purtroppo non è la prima volta che le logiche del profitto finiscono per contaminare – anche inconsapevolmente o semplicemente per l’abitudine a estendere al settore dei rifiuti considerazioni che possono valere per i prodotti in generale – meccanismi di gestione dei rifiuti pensati eminentemente per ragioni ambientali. Se vale solo il profitto, sarà lecito per ciascun operatore raccogliere solo laddove gli è più congeniale ed economico e solo i Pfu che gli faranno comodo (non certamente quelli dei trattori, che richiedono l’intervento di appositi mezzi, per esempio) lasciando per terra tutto il resto, creando nuovi spazi per i mercati illegali, compresi quelli che continuano a fondarsi sul dumping ambientale, come dimostra l’inchiesta citata all’inizio. È davvero questa la strada che vogliamo percorrere?
Mai come in questo caso la conoscenza, anche quando si tratta della gestione di una particolare tipologia di rifiuto, ha a che fare con la decostruzione dei paradigmi prevalenti, tanto che l’analisi dell’illegalità deve necessariamente cambiare approccio, riuscendo a fare persino a meno del codice penale, per saper guardare davvero cosa accade prima, molto prima della consumazione del reato. Prima che sia troppo tardi e che in galera ci finiscano solo i poveri cristi.
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