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venerdì, Novembre 15, 2024

Crisi della plastica: le iniziative volontarie delle aziende funzionano?

Mentre l’Onu spiana la strada ad un accordo vincolante sulla plastica, quali sono i risultati di accordi volontari come Global Commitment e Plastic Pact promossi dalla Ellen McArthur Foundation?

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Redazione EconomiaCircolare.com

di Simone Fant e Silvia Ricci

Ad oltre tre anni dal lancio delle due principali iniziative sulla plastica della Ellen McArthur Foundation (EMF), il Global Commitment e i Plastic Pact adottati ad oggi da 12 nazioni, a che punto siamo? Quali sono stati i progressi nella riduzione del consumo di plastica vergine, di packaging in generale e negli indici di riciclabilità/compostabilità o riusabilità degli imballaggi?

La risoluzione dell’ONU

Nell’affrontare questa analisi non si può fare a meno di citare la mossa storica che ha visto lo scorso 2 marzo capi di stato, ministri all’ambiente e rappresentanti di 175 nazioni appoggiare una risoluzione delle Nazioni Unite per porre fine all’inquinamento da plastica attraverso un accordo legalmente vincolante. La risoluzione “End Plastic Pollution: Towards an international legally binding instrument” approvata all’Assemblea dell’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEA-5.2) a Nairobi si propone di affrontare l’inquinamento da plastiche lungo il loro intero ciclo di vita: dalla fase di produzione, al design dei prodotti, fino al loro smaltimento a fine vita.

Questo è un risultato per cui la Ellen McArthur Foundation si è indubbiamente spesa a cominciare dalla pubblicazione di un libro bianco nel settembre del 2021 che delineava la necessità di un tale trattato a sostenere un’economia circolare e globale per la plastica.

Un paio di mesi prima che fosse pubblicato il terzo rapporto sulla progressione degli impegni dei firmatari del Global Commitment (GC) avvenuta nel novembre dello scorso anno la fondazione scriveva infatti sul sito: “ Il Global Commitment e il network dei Plastics Pact hanno coinvolto oltre 1.000 diverse organizzazioni, tra cui aziende e governi, unite da obiettivi comuni da raggiungere al 2025 per un’economia circolare per la plastica. (…) queste iniziative hanno riunito i soggetti maggiormente coinvolti in processi di ripensamento e riprogettazione del futuro della plastica che hanno gettato le basi per una cooperazione volontaria di ampia portata, ma dobbiamo andare oltre. Abbiamo bisogno di un approccio internazionale e vincolante per amplificare gli sforzi attuali, per apportare cambiamenti su scala industriale e porre fine all’inquinamento da plastica che non conosce confini, problema che quindi i Paesi e le organizzazioni non possono risolvere da soli.”

I prossimi due anni ci diranno se la risoluzione verrà efficacemente convertita in un accordo giuridicamente vincolante dai paesi firmatari entro il 2024 e con la piena collaborazione dell’industria.

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Un primo bilancio (non particolarmente incoraggiante)

Quello che si è potuto evincere chiaramente da questi tre anni di accordi volontari siglati dall’industria e da alcuni governi è che non hanno portato a risultati particolarmente incoraggianti come impatti di scala. Nonostante abbiano avuto il merito di sensibilizzare l’industria dei beni di largo consumo sulla necessità sempre più impellente di dovere cambiare il business as usual, e che per farlo serve programmazione, è necessario mettere in campo innovazione, raccogliere dati sui processi avviati e misurare le prestazioni sulla base di metriche comuni.

Vedremo in particolare come le dichiarazioni fatte dal gruppo di più di 70 aziende globali del settore alimentare e del packaging tra cui Unilever, Coca Cola e Nestlé – che hanno appoggiato la risoluzione chiedendo ai governi impegni ambiziosi – si riconcilieranno con le loro future azioni. Questo perché si tratta degli stessi brand che all’interno del Global Commitment hanno faticato nel ridurre la loro impronta plastica e non hanno raggiunto essi stessi obiettivi ambiziosi, come vedremo entrando nel dettaglio del terzo GC Progress Report 2021 riferito al 2020.

I principali risultati del terzo report del Global Commitment sulla plastica (riferito al 2021) 

Come premessa generale sullo stato dei lavori che emerge dal rapporto va detto che, nonostante qualche progresso in alcune aree, come una riduzione nell’impiego di plastica vergine del 1,8% rispetto al 2018 e un +0,7% del tasso di riciclabilità, poco è stato fatto per quanto riguarda invece la riduzione del packaging e un’implementazione su scala dei modelli di riuso.

Circa il 76% delle iniziative di eliminazione della plastica sono dovute infatti ad una sostituzione della plastica con altri materiali, come la carta, risultata l’opzione preferita nel 20% dei casi.

Solo il 20% delle iniziative ha visto l’eliminazione degli imballaggi monouso, e un esiguo 3% ha riguardato progetti basati sul riutilizzo e ricarica dei contenitori a sostituzione degli imballaggi monouso. Più della metà (56%) di tutti i firmatari ha dichiarato di non avere alcun progetto di riutilizzo degli imballaggi in corso.

PLASTICA Global Commitment
GC Progress Report 2021

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Quanti imballaggi sono stati riutilizzati rispetto all’immesso al consumo totale

Nel settore alimentare, meno dell’1% di tutti gli imballaggi di plastica impiegati è stato riutilizzato. Nel settore delle bevande la quota di riuso si è invece attestata all’8,4% come media, un dato però leggermente in calo rispetto del  2019/20 (8,6%). Difatti, sette delle otto aziende del settore beverage hanno addirittura diminuito la loro quota di riuso, o non hanno fatto progressi rispetto all’anno precedente.

Queste performance complessive dei due comparti hanno fatto scendere la quota media di riuso degli imballaggi dall’1,8% del 2019 all’1,6% del 2020. Un risultato che, sebbene influenzato dalla pandemia, dimostra che la diffusione degli imballaggi riutilizzabili su larga scala continua ad essere molto lontana.

PLASTICA Global Commitment
GC Progress Report 2021

Obiettivo imballaggi riciclabili compostabili riusabili (RCP) al 2025

Questo obiettivo è la vera spina nel fianco soprattutto per le marche alimentari che vedono solamente un 26% del packaging che immettono al consumo essere riciclabile, compostabile o riutilizzabile (RCR).

Un tasso sceso di 1,4 punti percentuali nel 2020 rispetto al 2019. Tra le cause, oltre al rallentamento dovuto alla pandemia ci sarebbe soprattutto la quota consistente di packaging flessibile difficilmente riciclabile che caratterizza il settore alimentare. Questa quota include un 21% di imballaggi flessibili in plastica multi-materiale e un 17% di polietilene o polipropilene (sempre flessibile). Entrambi i materiali sono difficili da riciclare e dai quali non si può ottenere un riciclato adatto al contatto alimentare (food-grade). Va decisamente meglio per i marchi di bevande che hanno un tasso di RCR del  75%, anche se leggermente in calo rispetto all’anno precedente.

PLASTICA Global Commitment
GC Progress Report 2021

Tuttavia,  come ipotizza il giornalista inglese David Burrows –  autorevole commentatore del settore in un suo articolo –   il tasso di riciclabilità del 64,5 (figura precedente) potrebbe essere sovrastimato, ed essere più vicino ad un più realistico 62%. Questo perché alcuni marchi non seguono la metodologia adottata dall’EMF per calcolare l’indice di riciclo del proprio packaging.

La metodologia adottata dalla fondazione considera, realisticamente, che si possano definire riciclabili o compostabili solamente quegli imballaggi che lo sono concretamente grazie alla presenza di infrastrutture diffuse nei territori in grado di trattarli.

A questo proposito scorrendo online lo stato dell’arte degli impegni ci si può imbattere in una scritta rossa “Not aligned (“non allineato”) accanto a quei dati forniti dalle aziende firmatarie non validati secondo i criteri adottati dalla fondazione.

Tra queste troviamo Unilever (una delle prime 10 aziende globali di prodotti di largo consumo per fatturato) e altre marche note in Italia come Colgate-Palmolive, Danone, Ferrero, Henkel.

Nell’ultimo anno la EMF ha richiesto alle aziende partecipanti di soddisfare alcuni requisiti obbligatori e più stringenti che includono: una riduzione del consumo di plastica vergine; la definizione di obiettivi quantitativi misurabili in linea con l’impianto del GC; e la disponibilità dei partecipanti a rendicontare pubblicamente ogni anno i progressi compiuti sulla base delle di linee guida e definizioni comuni. Nel terzo rapporto solo l’86% delle aziende firmatarie che producono o utilizzano packaging rende noto le quantità di plastica immesse al consumo ogni anno.

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Obiettivo aumento del contenuto riciclato al 2025

Come premessa va detto che gli obiettivi di contenuto riciclato che deve essere presente nel proprio packaging fissati dalle aziende (26% in media) sono piuttosto ambiziosi se consideriamo le prestazioni attuali.

Complessivamente la quantità di contenuto riciclato nel packaging ha raggiunto l’8,2% nel 2020 dal 5,2% del 2018. Come abbiamo visto precedentemente il packaging alimentare ha un basso tasso di riciclabilità e una conseguente penuria di riciclato adatto al contatto alimentare food-grade a disposizione per nuovi imballaggi. Il settore delle bevande che può invece contare sul PET, una plastica facilmente riciclabile, ha raggiunto la media del 9,4% di contenuto riciclato. Ci sono marchi che raggiungono tassi più alti come Coca Cola con l’11%, Pernod Ricard con il 13% o Innocent drinks con il 31%.

Guardando ai 10 maggiori marchi di cibo e bevande come fatturato solamente Coca Cola e Unilever, con l’11% di contenuto riciclato, sono riusciti a raggiungere la doppia cifra. Mars rimane bloccata sullo zero, ma punta al 30% entro il 2025. Gli obiettivi fissati da Mondelez (5%) e Kellogg (10%) sono molto più bassi degli altri, ma forse più realistici, il che è preoccupante.

Quanto è ambizioso l’obiettivo di riduzione? E quanto è attuabile?

Quando è stato lanciato questo rapporto il risultato di maggior effetto su cui la Ellen MacArthur Foundation e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente hanno puntato nella comunicazione è stato il picco nell’uso di plastica vergine verificatosi per il secondo anno consecutivo (dell’1,2% nel 2020 e dello 0,6% nel 2019).

La EMF ha fissato un obiettivo di riduzione del 19% al 2025 rispetto al consumo 2018 che significa evitare la produzione di otto milioni di tonnellate di plastica vergine e mantenere 40 milioni di barili di petrolio nel sottosuolo ogni anno.

Se consideriamo che ci sono voluti due anni per arrivare ad una riduzione del 1,8% perseguire un ulteriore riduzione del 17% entro i prossimi 4 anni non appare proprio come un gioco da ragazzi. Al contrario significa compiere enormi progressi su tutti i fronti. Per fornire un ordine di misura otto milioni di tonnellate rappresentano il 5% circa degli imballaggi di plastica immessi al consumo ogni anno.

Un dato di non poca rilevanza riferito a questo obiettivo è che rimangono ancora fuori dal GC quattro grandi aziende di bevande e alimentari globali che rappresentano le prime 10 al mondo per fatturato ( AB InBev, JBS, Procter & Gamble e Tyson ), così come rimane fuori tutto il settore della ristorazione e del fast food rappresentato nel GC dal solo Starbucks.

Cosa significa e quali possono essere gli effetti indesiderati di un calo nel consumo di plastica vergine 

La riduzione nell’uso di plastica vergine, come rimarcano gli autori del report, si è verificata in gran parte come risultato del passaggio all’utilizzo di altri materiali monouso, un’evidenza che non significa tout court una riduzione dell’impatto ambientale e delle emissioni di CO2. Né tanto meno previene conseguenze indesiderate come l’utilizzo di materiali “diversamente impattanti” sull’ambiente che vanno a contaminare altri flussi di materiali riciclabili nelle fasi di raccolta/selezione, o a complicare i processi di riciclo; come potrebbe essere il caso dei materiali compositi e delle bioplastiche. In effetti, non è stata prodotta dalle aziende coinvolte in questi cambiamenti alcuna evidenza che abbia misurato se, e in quale misura le azioni intraprese negli ultimi tre anni abbiano prodotto benefici o peggioramenti in termini di impatti ambientali. Per questo si dovrà attendere il momento in cui le aziende andranno a misurare le proprie attività come parte dei loro impegni verso il “net-zero” come ipotizza il giornalista inglese David Burrows citato poc’anzi.

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Le conclusioni

Il commento conclusivo della EMF nel presentare questo terzo rapporto ricalca sostanzialmente i due precedenti anche se con parole e toni leggermente diversi: “Gli impegni delle aziende che prevedono una riprogettazione del packaging, del prodotto e l’implementazione su scala di modelli di business che escludono la necessità di imballaggi monouso rimangono ancora limitati e serve uno sforzo sostanzialmente maggiore”. Questo perché concentrarsi solo sulla raccolta, il riciclaggio e lo smaltimento si tradurrà in un inquinamento continuo e non in una riduzione sufficiente delle emissioni di gas serra. […] Le imprese dovranno andare oltre l’attenzione al contenuto riciclato e alla riciclabilità, e investire molto di più nell’eliminazione e nelle soluzioni di riutilizzo per frenare la crescita della quantità totale di imballaggi che devono essere messi in circolazione.”

Le stesse considerazioni sono arrivate da Richard Slater, responsabile della ricerca e dello sviluppo a Unilever, multinazionale che si è impegnata nel ridurre del 50% l’impiego di plastica vergine al 2025: “Nonostante gli obiettivi ambiziosi, le innovazioni e gli investimenti di aziende come la nostra, non abbiamo invertito la rotta e la situazione è in peggioramento. La nostra risposta collettiva a un problema complesso e globale è stata troppo limitata e frammentata. Ecco perché crediamo nel passare da accordi volontari ad accordi obbligatori. È diventato chiaro che questo problema è sistematico e fondamentalmente radicato nell’economia globale. Abbiamo raggiunto il punto in cui abbiamo bisogno di un quadro comune che riconosca la vera portata del problema e la natura globale delle complesse catene di valore. Una grande sfida che rallenta questi cambiamenti è il prezzo artificialmente basso della plastica vergine, che limita la disponibilità dei materiali PCR di cui abbiamo bisogno. Un trattato che riduce la produzione di plastica vergine aiuterà ad affrontare questi problemi. Costringerà le aziende a sperimentare nuovi modi per usare meno plastica, e coordinerà obiettivi nazionali chiari e approcci agli investimenti e allo sviluppo delle infrastrutture”.

© Riproduzione riservata

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