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A poche ore dalla conclusione della campagna elettorale l’ambiente continua ad essere per lo più assente dal dibattito, se non per la crisi energetica, spesso ridotta ad una mera questione economica.
“Avremmo dovuto leggere molto di più di diritto alla riparazione, riuso, rigenerazione, deposito su cauzione (e vuoto a rendere), di eco progettazione, di servitizzazione e di azioni per incentivare modelli di business che ci traghettino da un’economia di prodotto a un’economia di servizio”. A parlare e a rispondere alle nostre domande è Laura Greco, presidente di A Sud, associazione ecologista indipendente che il prossimo anno compirà 20 anni di vita e di attività nel campo della giustizia ambientale e climatica.
Questa campagna elettorale e i programmi presentati dai partiti, secondo voi, hanno visto assegnare all’economia circolare un ruolo adeguato? Perché? Quali partiti si sono in particolare distinti?
Il livello delle proposte ci restituisce una consapevolezza ancora insufficiente e una visione miope sul ruolo chiave che l’economia circolare può e deve avere in Italia. Nei programmi elettorali l’economia circolare occupa infatti un posto ancora marginale e riservato quasi esclusivamente al recupero energetico dei rifiuti e al riciclo dei materiali.
Anche in quest’ultimo caso la visione è abbastanza semplicistica: se da una parte è condivisibile la necessità di investire sugli impianti per il recupero della materia, è però necessario ancor prima mettere in campo proposte e politiche per incentivare l’uso della materia prima seconda a parità di performance (oggi il tasso di uso circolare di materia è al 21,6%) che necessita di trovare posto sul mercato lasciando, di fatto, il cerchio aperto. Così come è necessario indirizzare gli incentivi anche verso chi si impegna a progettare prodotti e modelli di consumo in ottica di allungamento della vita dei prodotti. In altre parole: bisogna uscire da una visione ristretta dell’economia circolare concentrata sull’ultimo passaggio – i materiali post consumo – e allargarla finalmente all’intero ciclo di vita dei prodotti, a partire dall’eco-design e dalla riduzione a monte degli imballaggi, minimizzando l’utilizzo nei cicli produttivi di materiali di fatto superflui.
Infine, in nessun programma si fa riferimento in dettaglio a come le forze politiche in campo intendano passare da una Strategia Nazionale per l’Economia Circolare (SNEC) a un piano attuativo per l’economia circolare. Piano di cui c’è urgente bisogno.
Si prende in considerazione la prevenzione dei rifiuti e l’allungamento della vita dei prodotti o i programmi si limitano al riciclo?
Come dicevo, manca completamente una visione a lungo termine e un’aderenza delle proposte alla gerarchia dei rifiuti, che mette in primo piano la riduzione dei consumi e l’allungamento della vita dei prodotti, al fine di ridurre e ottimizzare il consumo di risorse e quindi una minore produzione dei rifiuti, elementi che sono alla base del paradigma circolare.
Avremmo dovuto leggere molto di più di diritto alla riparazione, riuso, rigenerazione, deposito su cauzione (e vuoto a rendere), di eco progettazione, di servitizzazione e di azioni per incentivare modelli di business che ci traghettino da un’economia di prodotto a un’economia di servizio. Proprio in questi giorni è uscito il secondo rapporto sullo stato dell’arte per l’implementazione della direttiva SUP (Single Use Plastic), redatto dalla Rethink Plastic Alliance, che sottolinea come l’Italia sia tra i sei paesi europei che non hanno ancora un piano nazionale o degli obiettivi per la riduzione dei consumi. Ci sarebbe inoltre piaciuto capire quali sono i programmi per la formazione sui green jobs legati all’economia circolare, ma anche le politiche previste sulla formazione continua e la riqualificazione professionale, affinché si pongano le basi anche culturali e di “desidarabilità sociale” per un cambio di paradigma non più rimandabile.
Le misure proposte per la progressiva riduzione delle forniture di gas russo (ad esempio i rigassificatori), sono un realistico compromesso tra l’urgenza del bisogno di energia e i tempi fisiologici del passaggio alle rinnovabili? O vengono usati dai partiti come occasione per prolungare lo status quo?
L’impressione generale è che non si sia colta affatto la lezione fornita dalla crisi energetica derivata dall’invasione dell’Ucraina. Legare a doppio filo il sistema energetico nazionale alla dipendenza dalle fonti fossili, che sono spesso nelle disponibilità di paesi governati da regimi tutt’altro che democratici ha più di una conseguenza negativa. Esternalità climatiche e ambientali, anzitutto; geopolitiche – con le risorse energetiche che diventano armi di pressione e di ricatto internazionale – infine, come stiamo vedendo, ricadute economiche potenzialmente disastrose.
L’Italia ha tra i più alti tassi di dipendenza energetica dall’estero: nel 2021 più di tre quarti della domanda di energia in Italia è stata soddisfatto da importazioni di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) e meno di un quarto è coperto dalla produzione nazionale nazionale, che è garantita soprattutto dalle energie rinnovabili. In altre parole, ancora oggi, è bene ribadirlo, il modello energetico italiano è fondato su una anacronistica dipendenza dalle fonti fossili: 40% dal gas, 32% dal petrolio e circa il 4% dai combustibili solidi, mentre le rinnovabili sono ferme al 19%. Costruire rigassificatori e pensare che importare Gas naturale liquefatto (soprattutto dagli Usa, tramite l’uso di navi metaniere) sia una soluzione lungimirante è quanto mai lontano dalla realtà. Anche chi spinge per il rilancio della produzione nazionale di oil&gas non tiene in conto che la produzione nazionale copre appena il 5% del consumo di combustibili fossili. Le riserve accertate sono esigue e non facilmente accessibili: 46 miliardi di metri cubi di bas e 73 milioni di tonnellate di petrolio influirebbero appena di qualche punto percentuale per pochi anni, a fronte di investimenti ingenti distorti da una reale transizione energetica.
Infine, nessuno chiede alla politica come si concilino le proposte sul tavolo con gli impegni climatici che l’Italia ha assunto e che dovrebbe rafforzare, è un tema del tutto assente dalla campagna elettorale, su cui invece l’informazione dovrebbe battere: usciamo da una delle estati più drammatiche della storia, e quanto avvenuto nelle Marche soltanto pochi giorni fa dovrebbe spingere ad una riflessione sull’impossibilità di ricacciare nuovamente le politiche climatiche in terzo piano, in nome della contingenza.
L’unica soluzione possibile sarebbe ripensare radicalmente il sistema energetico dando finalmente centralità alle rinnovabili: se vogliamo rispettare il target europeo e tagliare del -55% le emissioni entro i prossimi 8 anni non possiamo riuscirci che con seri interventi di efficientamento e con un impulso senza precedenti alle rinnovabili. In questo modo potremmo diventare, in 10 anni, un paese in grado di garantirsi gran parte del proprio fabbisogno energetico e in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione.
Il nucleare può essere una soluzione?
Il nucleare è un formidabile specchietto per le allodole. Gli argomenti contrari sarebbero tantissimi, di seguito i principali. Anzitutto, si fa un gran parlare in Italia di nucleare di 4° generazione, che non è una tecnologia matura è di fatto ad uno stadio di ricerca, mentre attualmente la tecnologia più avanzata disponibile è quella di 3° generazione, che presenta problematiche ambientali rilevanti, in termini di fabbisogno idrico, possibili incidenti e gestione delle scorie. Su quest’ultimo punto: è bene ricordare che non si può affatto parlare di una tecnologia sicura: il tema delle scorie rimane sul piatto ed è lungi all’essere risolto. In secondo luogo, si utilizza l’argomento del nucleare come soluzione per la crisi, mentre si stima ci vogliano 10, anche 15 anni per far entrare in funzione un nuovo impianto di 3° generazione, di medie dimensioni. Si tratta poi di una tecnologia tutt’altro che economica, i tempi per rientrare nell’investimento sono lunghissimi e sono necessarie molte risorse anche per il mantenimento della sicurezza degli impianti. Oggi un GW di energia nucleare costa molto di più di un GW prodotto con qualunque energie rinnovabile.
Infine, un impianto nucleare è quanto di più lontano ci sia dall’idea di democratizzazione dell’energia; di produzione diffusa, di rafforzamento e diffusione di comunità energetiche e solidali. Che è la direzione verso la quale quale è necessario tendere.
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Restiamo ancora sulla crisi energetica: le misure indicate dai partiti in questa campagna elettorale a favore dell’efficienza sono, secondo voi, adeguate? Vi convince il piano di riduzione dei consumi indicato dal governo, che spinge sulla sensibilizzazione dei singoli senza indicare misure coercitive?
L’efficienza energetica, che passa anche per prassi individuali di risparmio di energia, è un imperativo da anni e sul tema hanno senz’altro un ruolo le abitudini di consumo, per cui campagne di sensibilizzazione, obblighi di riduzione e sanzioni sono utili e doverosi.
Ciò premesso, il Piano Cingolani per ridurre i consumi energetici in effetti fa un po’ sorridere. Anzitutto, si tratta di uno dei fantomatici “piani strategici” tutt’altro che vincolanti ai quali i governi degli ultimi anni ci hanno abituato e che è ormai invariabilmente utilizzato in ambito energetico, ambientale e climatico (si pensi alle SEN, al PNIEC, al PiTE). Anziché fare leggi, si stila un promettente piano pieno di buone intenzioni privo di strumenti attuativi o di controllo. Il piano in questione contiene una serie di buone pratiche elementari, scontate, che dovrebbero essere promosse da anni, invece arrivano non senza un certo sensazionalismo in questo momento di crisi energetica. La scelta svela che si ragiona di risparmio di energia solo se a spingere in questa direzione sono ragioni economiche e non ambientali e climatiche. Che è il primo limite di impostazione.
Che sul piatto ci sia poi anche il potenziamento della produzione di energia elettrica con combustibili diversi dal gas (leggi carbone) contribuisce ad alimentare i dubbi sul fatto che la finalità ultima del provvedimento sia tutt’altro che mirata alla riduzione delle emissioni, ma solo al risparmio di gas. La parte che potremmo chiamare di “educazione al consumo” consta più che altro di blandi consigli – dal ridurre la durata delle docce, all’abbassare il fuoco dopo l’ebollizione al prestare attenzione all’utilizzo di lavastoviglie e lavatrici, allo spegnere la spia degli elettrodomestici, etc. – con controlli a campione (sui quali non si possono che avere riserve) e senza sanzioni, il che rende l’operazione più mediatica che sostanziale.
Ci sono forse ulteriori misure, più generali, che potrebbero aiutare: a partire, ad esempio, dall’esigere lo spegnimento di insegne e luci (di negozi, palazzi di uffici ed esercizi commerciali in genere) nelle ore in cui sono chiusi? Oppure imporre ai negozi le porte chiuse d’estate e d’inverno per abbassare gli straordinari consumi energetici per riscaldare e/o raffreddare l’ambiente? Con un piano di controlli e sanzioni però. E non solo come misura per gestire la penuria di combustibili e il caro bollette.
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Secondo voi le misure previste dai partiti per la transizione ecologica tengono in giusto conto anche la giustizia sociale e la difesa dei soggetti più deboli? Cosa bisognerebbe fare in tal senso?
Giustizia sociale e ambientale sono facce della stessa medaglia: le azioni per contrastare la crisi climatica, i piani per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale devono favorire le fasce più deboli e vulnerabili della popolazione. Il Governo Draghi ha optato per incentivi e aiuti indifferenziati indipendentemente dal reddito o dal livello di consumo ma abbiamo bisogno di politiche energetiche che mettano in discussione l’attuale modello di crescita.
Con le dovute differenze, i programmi delle coalizioni in campo per queste elezioni non considerano la pianificazione ambientale una necessità sociale. Non considerano la dimensione ecologica in termini di vulnerabilità sociale, separano, ad esempio, le vertenze sul lavoro dalle questioni ecologiche. Istanze come quelle del collettivo di fabbrica Gkn sono anche le nostre. Finora la protezione dell’ambiente è stata sempre pensata in contrapposizione all’identità operaia mentre il conflitto sta nel modello: non esiste un’economia verde capitalista ed estrattivista. O giustizia ambientale e sociale vanno di pari passo o la soluzione non è reale. Allo stesso tempo i movimenti dal basso sono esclusi dal dibattito elettorale: i giovani che sono i maggiori animatori del conflitto per l’azione climatica sono per lo più esclusi dal voto, 5 milioni di fuori sede per la precisione.
A tutto questo si aggiunge il fatto che la maggior parte delle coalizioni in campo sono favorevoli alla costruzione di opere inutili, dannose e imposte ai territori senza alcun tipo di consultazione pubblica. Il Ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani, nell’ultima conferenza stampa su crisi energetica del 16 settembre, ha affermato che i rigassificatori a Piombino e Ravenna si faranno perché le comunità locali non si possono assumere la responsabilità di mettere a rischio la sicurezza energetica del paese. I rigassificatori rischiano di ritardare il raggiungimento degli obiettivi climatici imposti dall’Europa al 2030 e al 2050. Le comunità locali, i territori, i movimenti devono diventare attori centrali nel dibattito per una transizione giusta, le periferie, dove si intrecciano maggiormente disuguaglianze sociali e ambientali, devono diventare luoghi di attivazione per politiche di sistema e non operazioni emergenziali.
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