Far diventare l’edilizia e il settore immobiliare parte della soluzione, non del problema. È questo lo spirito del Green Building Council Italia, uno degli oltre 70 gruppi che fanno parte di una rete globale che mira a trasformare la filiera edilizia nella direzione della sostenibilità, creando strumenti e parametri. Di recente, il gruppo ha pubblicato una roadmap, di cui vi abbiamo parlato qualche settimana fa, per aiutare l’Italia a trovare la strada giusta verso un ambiente costruito che sia motore di sviluppo sostenibile, pur tenendo conto delle specificità del nostro territorio. Abbiamo chiesto al presidente Marco Mari di approfondire con noi alcuni aspetti della roadmap e di fare con noi il punto sulla situazione italiana.
Il presupposto della vostra road map è che per decarbonizzare l’ambiente costruito non è sufficiente prendere in considerazione fattori energetici ma serve un approccio su diversi livelli. Ci spiega?
Il sistema edificio va visto come sistema complesso. L’energia è uno dei temi e su di essa si agisce innanzitutto creando edifici che abbiano richieste energetiche più basse e con approvvigionamento da fonti rinnovabili. Ma ci sono altri fattori importanti e se prendiamo in considerazione una sola variabile rischiamo di creare ulteriori problemi. Per esempio, per abbassare la domanda energetica di un edificio, si può lavorare sull’involucro, con un cappotto termico, ma se l’edificio presenta umidità di risalita, cosa piuttosto comune, un cappotto ermetico genererebbe un secondo problema. Per questo serve un approccio olistico che integri aspetti di approvvigionamento, anche idrico, e di materiali, che prenda in considerazione gli impatti della filiera e non tralasci la salute dell’uomo.
Tra gli strumenti, proponete l’utilizzo di passaporti degli edifici. Come li immaginate, chi dovrebbe rilasciarli?
Il pensiero generale è che bisogna poter misurare. E serve una misura che non può essere monodimensionale, né specifica ad un solo paese. Servono indicatori condivisi a livello europeo. La direttiva energetica è stata voluta dall’Europa perché ogni paese si allineasse a una metodologia unica per poter poi fare comparazioni. Ma invece ogni paese se n’è fatta una per conto suo e l’Italia ne ha addirittura alcune varianti regionali. Quindi non solo è una misura parziale, perché prende in considerazione solo l’energia, ma non è armonizzata a livello europeo. L’idea del passaporto non è altro che quella di avere un set di informazioni standardizzate, congrue e definite a livello sovranazionale. Quindi non c’è un rilascio del passaporto ma c’è trasparenza delle informazioni, un’etichettatura, come avviene, per esempio, nel settore agroalimentare: sappiamo provenienza, ingredienti e possiamo scegliere paragonando. E questo va fatto non solo più per il fattore energetico ma anche su materiali e altri elementi.
Esistono già degli standard in questo ambito.
Il mercato sta già facendo questo, con protocolli energetico ambientali che definiscono linee guida per progettare e realizzare edifici tenendo conto di aspetti energetici, emissioni e consumi, impatti idrici e circolarità e arrivando a un set di indicatori complessivo. Per esempio negli USA c’è il protocollo Leed. Questo è un esempio di mercato di standardizzazione delle prestazioni in modo che siano paragonabili.
Quindi il mercato sta andando più veloce rispetto al processo legislativo.
L’approccio è quello definito dalla Conferenza di Rio: lo sviluppo è sostenibile solo se agisce sulle tre variabili ambientale, sociale ed economica. Questi sono strumenti di sviluppo possibile. Sui protocolli energetico – ambientali c’è un mercato stimato di 15 miliardi di metri quadri a livello mondiale, di cui il 65% è legato ai protocolli Leed. Il mercato si è già mosso da tempo ed è andato veloce perché questi strumenti sono utili. Basti pensare che la finanza ha preso il Leed come indicatore sintetico di rischio di credito. Il pensiero del passaporto vorrebbe allargare questo sistema a livello più centrale e coordinato tra i paesi europei.
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Il protocollo Leed è nato proprio nell’ambito dei Green Building Council. Come?
Circa vent’anni fa il Green Building Council USA, ha messo intorno a un tavolo tutti gli attori della filiera con una domanda: come si misurano le prestazioni di un edificio? Il pensiero era: così come esistono le etichette per altri prodotti, dovremmo avere delle linee guida per gli edifici. Da lì è stato poi standardizzato il processo di rendicontazione e certificazione delle prestazioni che ha dato poi vita ai protocolli Leed, Leadership in Energy and Environmental Design, i più usati a livello internazionale. Noi, come GBC Italia, regionalizziamo questi protocolli e al contempo ne proponiamo di proprietari, declinando questi concetti su scala locale.
Per esempio?
Per esempio abbiamo fatto il primo protocollo per gli edifici storici. Declinando l’approccio anglosassone in visione più mediterranea, abbiamo coniugato heritage e sustainability. Abbiamo proposto questo approccio nel 2021, all’interno del G8, e le altre nazioni sono state molto interessanti, soprattutto gli Stati Uniti: noi italiani eravamo sorpresi, poiché quando si pensa agli USA non si pensa agli edifici storici, ma ci hanno spiegato che nel territorio americano ci sono tanti oriundi che hanno costruito a immagine della loro cultura e, se si butta giù per fare edifici sostenibili, si recidono radici e ne derivano problemi sociali.
Un altro strumento interessante indicato nella road map è quello della digitalizzazione: si parla di creare gemelli digitali degli edifici. Ci spiega?
Il settore edile-immobiliare è quello dall’impatto ambientale più grande. Questo perché è una filiera lunga e complessa. Per lavorare con tanti attori è necessario avere sistemi di gestione delle informazioni che permettano la collaborazione e la modellazione. I digital twin permettono di simulare rapidamente il comportamento del nostro sistema edificio in relazione a quella reazione fisica, a quella area climatica, alle temperature, all’umidità, all’esposizione, al momento della giornata, prendendo in considerazione tanti fattori contemporaneamente e consentendo a tanti attori diversi di dialogare per avere un risultato congruente.
Quindi si tratta di creare degli avatar degli edifici?
Esistono già, il Building information modeling viene già fatto: noi proponiamo di allargarlo su vasta scala e a tutta la durata di vita dell’edificio.
Questo introduce anche un elemento di circolarità.
Siamo abituati a progettare le cose pensando che debbano essere eterne e immutabili, invece possiamo concepire gli edifici anche come banche di materiali da riusare per costruzioni future. È un pensiero evoluto? In realtà lo facevano anche gli antichi e oggi si sperimenta di più in paesi con meno risorse.
Altro strumento citato è la possibilità di creare incentivi statali.
Per convincere il settore privato a spendere di più per produrre valore per tutti, gli incentivi possono certamente essere uno strumento. Ma i sistemi incentivanti vanno definiti con attenzione ed è, anche in questo caso, una questione di misurazione. Il pubblico che dà soldi deve essere in grado di chiedere prova del maggiore valore prodotto per la collettività, di misurare il miglioramento rispetto ai valori minimi previsti dalla legge.
In Italia però c’è sempre il rischio che poi le cose vadano a finire come con il super bonus…
Il Super bonus non incentivava altro che il lavoro. È stato fatto durante il Covid, quando il governo doveva dare un messaggio immediato per non far fallire le aziende. La riqualificazione degli edifici ha creato certamente tanto lavoro e rimesso in moto il mercato e in questo senso il bonus è stato geniale. Il problema è stato non studiare bene misurazioni e garanzie. È stato mal governato, ha generato debito cattivo e si sono fatti lavori male. L’Europa nel PNRR chiede un’accountability chiara, il Super Bonus no.
Il Super bonus ha portato a tanta rottamazione, spesso non necessaria. Come si può integrare invece un approccio più circolare?
L’utilizzo di materie prime è uno degli impatti più grandi di questa filiera: il 36 per cento di tutti i materiali utilizzati a livello planetario è richiesto dall’edilizia che a sua volta produce circa il 40 per cento del totale dei rifiuti. È un pessimo esempio di circolarità. Dobbiamo iniziare a pensare quindi a materiali di riuso ma anche al riuso degli edifici stessi. Sostenibilità non può voler dire buttare giù e ricostruire ogni 20 anni per adeguarsi a nuovi standard ambientali. Anche se il nuovo edificio è più efficiente del precedente, se prendo in considerazione tutto il processo, il bilancio è negativo. Gli edifici vanno progettati per essere ottimizzati nel tempo e con attenzione al riuso a fine vita.
Nella road map non solo l’edificio, ma anche il sistema urbano è visto in modo olistico.
Certo, perché gli edifici sono a loro volta parte di un sistema. E c’è tanto che si può fare per rendere le città più sostenibili. Non solo in termini di energia e di materiali, ma in questo caso anche con un attento studio della mobilità, del verde urbano e delle opere infrastrutturali.
Quale la cosa più urgente che l’Italia dovrebbe fare per ridurre l’impatto del proprio ambiente costruito.
Dotarsi di una normativa meno prescrittiva e più legata alle prestazioni, perché altrimenti le leggi non stanno mai al passo delle evoluzioni tecnologiche. Meno divieti ma più misure e standard.
E quale la cosa più facile, a portata di mano, che l’Italia potrebbe fare e non fa?
Giocare su ciò che ha. Dal punto di vista della filiera edilizia l’approccio heritage & sustainability è nostrano e apprezzato a livello mondiale: è l’unico protocollo sul restauro sostenibile ed è stato creato in Italia perché qui c’è quella sensibilità e la cultura storica. La cosa più facile sarebbe dare valore a ciò che siamo. L’errore più grande, invece, è escludere la filiera del restauro degli edifici storici dagli obiettivi. È chiaro che un edificio storico presenta delle difficoltà, soprattutto dal punto di vista energetico, ma ci sono tante altre cose che si possono fare. Non includere questo patrimonio tra ciò su cui si può intervenire significa che non negozieremo incentivi dall’Europa, e che quindi la filiera del restauro, che in Italia è ampia, resterà esclusa. E invece in questo ambito abbiamo cultura e competenze che ci vengono invidiate.
In questo senso le sembra che la direttiva europea vada nella direzione giusta?
L’abbiamo studiata attentamente e ha luci e cose migliorabili. Mi sembra vada in una direzione sistemica e non ambientalista in modo militante. Ma va garantita la neutralità rispetto ai materiali, dobbiamo essere laici: non è detto, per esempio, che il legno sia sempre la scelta migliore, l’attenzione va sulle prestazioni. I risultati della direttiva andranno valutati nei prossimi passaggi europei e nel recepimento nazionale. E lì, come dicevo, ci giochiamo la questione del non escludere filiere.
Il governo però si è opposto a questa direttiva.
Il nostro patrimonio edilizio ha oggettivamente delle grandi peculiarità. Tuttavia la necessità di intervenire non è negoziabile, bisogna invece negoziare maggiori risorse. La questione non è se, ma come. Bisogna far valere le peculiarità del nostro paese non in sede di definizione degli obiettivi ma in sede di definizione delle risorse e valorizzare la filiera italiana. Inoltre è necessario definire misure e protocolli, tracciare e rendicontare.
E le sembra che il governo si stia muovendo in questo senso?
Mi sembra che l’espressione che è emersa più volte sia sviluppo sostenibile, più che ambientalismo a tutti costi. Questo mi sembra condivisibile, andare verso cose che sia possibile fare. È una strada che il governo realmente seguirà? Noi non possiamo che supportare: abbiamo tutti gli attori della filiera, conosciamo gli strumenti, abbiamo fatto gli studi del caso. Se lo sviluppo sostenibile non è uno slogan ma un approccio serio e strutturale, l’Italia può ambire alla leadership, perché ne abbiamo già le capacità.
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