Diversi anni fa, poco dopo la pandemia di Covid, nella via parallela a casa mia era andata a fuoco una palazzina – un incidente domestico pare. Era la prima volta che vedevo divampare un incendio così grande, ma anche la prima volta che ho assistito al lavoro delle camionette dei pompieri, che spruzzavano acqua per spegnere le fiamme. Per questo sono rimasto sconvolto quando, qualche mese dopo su Twitter (si chiamava ancora così), ho visto il post di un pompiere con una foto di quelle camionette, con scritto “servono circa 15 mila litri di acqua per produrre un chilo di carne di manzo, quindi due di queste botti piene”.
Era un dato che già sapevo, quello dei 15 mila litri, ma visualizzarlo in questo modo diretto mi ha davvero lasciato senza parole.
Tra la produzione di carne e derivati e l’acqua esiste un rapporto complesso, fatto di tante sfaccettature. Acqua e allevamenti sono due elementi strettamente legati e interconnessi, che è bene approfondire.
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Cos’è l’impronta idrica dei cibi?
Partiamo dal dato con cui abbiamo aperto questo articolo – 15 mila litri di acqua per un chilo di carne bovina. Per capire questo dato – e altri – è importante però comprendere cos’è “l’impronta idrica” (o water footprint) di alimenti e produzioni agricole.
Il water footprint indica il volume totale di acqua dolce usata durante tutto il ciclo di produzione di un determinato alimento. Grazie a questo indicatore possiamo comprendere quindi quali sono i cibi più idroesigenti per quanto riguarda l’acqua (a questo link trovate tutte le info per approfondire questo concetto, più un calcolatore dell’impronta idrica molto interessante).
Il volume totale dell’acqua usata è composto da tre diverse tipologie di “acque” che sono:
- acqua verde: rappresenta l’acqua piovana immagazzinata nel suolo e assorbita direttamente dalle colture attraverso l’evapotraspirazione;
- acqua blu: cioè l’acqua dolce prelevata da noi essere umani da fiumi, laghi o dalle falde acquifere per l’irrigazione artificiale;
- acqua grigia: misura il volume di acqua necessario per diluire gli inquinanti generati durante il processo produttivo – come fertilizzanti, pesticidi e residui chimici.
Iniziamo subito a dire una cosa molto importante: come detto prima, quando si calcola l’impronta idrica di un prodotto si considerano tutti e tre queste componenti dell’acqua. Quando parliamo di prodotti alimentari, spesso si propende a ignorare l’acqua verde, perché considerata come parte di un “circolo naturale”, ma questa esclusione è un errore, per almeno due motivi.
Il primo è che se vogliamo conteggiare l’impatto idrico di ogni alimento nel suo complesso, non possiamo sottrarre una voce come l’acqua verde. La somma delle tre tipologie di acqua infatti ci permette di stabilire quanta acqua “virtuale” ogni singolo alimento richiede. E perché questo è importante? Perché – e questo è il secondo punto – nel momento in cui abbiamo una situazione di siccità, diventa un problema reale come decidiamo di usare le risorse idriche: quali sono gli usi accettabili dell’acqua – e dell’agricoltura – in una condizione di assenza di piogge e scarsità di acqua? E con una crisi climatica sempre più tangibile, questa è la vera domanda.
Bisogna poi sottolineare che forme di allevamenti intensivi ed estensivi avranno una differenza nella tipologia di acqua che va a concorrere nel loro conteggio finale. Se gli allevamenti estensivi hanno un maggiore consumo di acqua verde, quelli intensivi hanno invece un più alto consumo di acqua blu – quindi d’acquedotto, usata per dare da bere agli animali e irrigare i campi per i produrre mangimi – e acqua grigia – tra cui quindi anche lo smaltimento di letame e rifiuti. Dunque gli allevamenti intensivi in generale consumano principalmente l’acqua dolce che preleviamo dalle falde, da fiumi e laghi – e una minore parte di acqua verde, che invece è di fatto quella piovana.
Tra l’altro è bene anche aggiungere una considerazione importante sull’acqua grigia. Come afferma in un’intervista Giuliano Trentini, vicedirettore del Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, mancano dati complessivi sul legame tra acqua grigia, inquinamento delle falde da nitrati, uso di concime a base di azoto per le colture (usate per i mangimi), e spandimento dei liquami – quindi, suggerisce Trentini, l’impatto delle acque grigie da parte degli allevamenti potrebbe essere di fatto più alto di quello che pensiamo e che gli studi ci mostrano.
Fatte queste importanti premesse, andiamo a dare uno sguardo ai numeri.
Quanta acqua serve per la produzione di carne e latticini? Qualche cifra
Tra le carni, la produzione di manzo emerge come la più esigente in termini di risorse idriche, richiedendo circa 15.400 litri d’acqua per chilogrammo. Seguono la carne di pecora con 10.400 litri, quella di maiale con circa 6.000 litri e, infine, il pollo, il cui water footprint si attesta intorno ai 4.300 litri. Rapportiamo questi dati con la quantità di acqua consumata da una persona: secondo l’Istat una persona in Italia consuma circa 215 litri di acqua al giorno. Ciò significa che la carne di manzo consuma la stessa quantità di acqua che consuma ognuno di noi in circa 70 giorni; carne di pecora in 46 giorni, maiale in 27 giorni e il pollo una ventina di giorni. Anche i prodotti caseari, come il formaggio, sono notevoli dal punto di vista dell’acqua, con un’impronta idrica di circa 5.000 litri per chilogrammo.
I cereali mostrano un’impronta idrica più variabile – ma comunque minore: per produrre un chilogrammo di grano occorrono circa 1.827 litri, mentre il riso richiede 2.497 litri e il mais si ferma a 1.222 litri. La soia necessita di circa 2.145 litri d’acqua per chilogrammo, mentre il tofu si attesta intorno ai 2.349 litri. In generale i legumi sono inferiori ai 4.000 litri.
Tra frutta e verdura, l’impronta idrica è generalmente più contenuta. Un chilogrammo di mele richiede circa 822 litri, mentre i pomodori ne consumano appena 214, seguiti da patate e lattuga, rispettivamente con 287 e 237 litri.
In generale ogni tipo di alimento di origine animale ha un’impronta idrica nettamente maggiore – di fatto la carne e poi i formaggi sono alimenti meno efficienti. E questo anche banalmente per una questione del rapporto di acqua richiesta e proteine e nutrienti forniti poi dai singoli alimenti. Per ottenere 1 grammo di proteine dalla carne di manzo, ad esempio, sono necessari circa 112 litri d’acqua, per il maiale 60. Al contrario, i legumi sono molto più sostenibili: per le lenticchie servono solo 50 litri d’acqua per grammo di proteine, per i ceci circa 77 litri e per la soia 58 litri.
Se diamo poi uno sguardo all’Italia, come dimostra l’ISTAT, in un anno consumiamo circa 317,5 milioni di metri cubi d’acqua per gli allevamenti – e solo per dare da bere agli animali e per il lavaggio di strutture e attrezzature. Per farci capire: potremmo riempire oltre 1000 strutture come il Colosseo di Roma con questa quantità di acqua, oppure soddisfare il consumo annuo di oltre 2 milioni di famiglie italiane. E non dimentichiamo che da tutta questa quantità è esclusa quella usata per irrigare le coltivazioni dei mangimi.
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Siccità, foraggi e crisi climatica: una produzione difficile
Oltre a richiedere molta acqua, e ad essere quindi uno dei motivi che concorrono alla scarsa disponibilità per uso umano nei periodi di secca, gli allevamenti sono una delle prime attività a risentire gli effetti diretti della siccità. In questa relazione con l’acqua, l’allevamento rispecchia tutto il paradosso del legame con la crisi climatica: è una delle cause di questa crisi ed è una delle attività che ne subisce subito le drammatiche conseguenze, scarsità d’acqua inclusa.
La siccità degli ultimi anni, insomma, continua a mostrare le contraddizioni di questo legame. Con l’aumento delle temperature, soprattutto in estate, gli animali soffrono il caldo straordinario e l’assenza di acqua. Quest’estate ad esempio in Sicilia diversi allevatori lamentavano che “si va avanti grazie all’acqua trasportata dalle autobotti ma che ha un costo che non tutti gli allevatori sono in grado di sostenere e il rischio, reale, è quello che molti capi di bestiame possano essere abbattuti”. Che tradotto significa: abbattere prima gli animali perché non c’è abbastanza acqua.
Qualche anno fa era stata Coldiretti stessa a dare l’allarme: “Le mucche con le alte temperature stanno producendo per lo stress fino al 10% di latte in meno, ma a preoccupare è anche la mancanza del foraggio per l’alimentazione a causa dell’assenza di precipitazioni che in certe zone ha tagliato di 1/3 le rese”.
A fronte dell’aumento delle temperature, per continuare a garantire standard produttivi, gli allevatori mettono in atto misure specifiche come ventilatori, spruzzi d’acqua refrigeranti e anche abbeveratoi che forniscono centinaia di litri di acqua al giorno – un ulteriore uso di risorse di acqua ma anche maggiori costi energetici.
E questo non solo in Italia. Un’indagine effettuata nel 2022 in diversi allevamenti degli USA sugli effetti della siccità e del caldo anomalo ha mostrato numeri impressionanti. Circa il 41% dei suini allevati in Iowa – circa 9,4 milioni di animali – viveva in condizioni di siccità moderata, grave o estrema nella prima settimana di settembre. In California, New Mexico e Utah il 100% del bestiame vive in aree colpite dalla siccità. Sempre in California, il 61% dei bovini ha vissuto giorni in condizioni di “siccità eccezionale,” che hanno portato alla morte di animali.
I casi di morte di animali negli allevamenti a causa di stress da caldo e siccità sono ovunque nel mondo: per questo motivo, nel Regno Unito sono morti circa 4 milioni di polli negli allevamenti intensivi, in Canada 651mila, in Argentina milioni di galline ovaiole in un solo anno.
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Allarme nitrati: l’inquinamento delle acque dagli allevamenti
Il rapporto complicato tra allevamenti e acqua non finisce però qui: è necessario parlare anche di letame, inquinamento e nitrati.
Confinare migliaia di animali nelle strutture intensive ha una conseguenza a cui pochi pongono attenzione: e cioè le deiezioni – cioè, il letame. Un dato: solo gli allevamenti di suini italiani producono oltre 11,5 milioni di tonnellate di feci all’anno.
Il problema è che le deiezioni degli animali contengono alti livelli di azoto – sotto forma di composti come ammoniaca, nitriti e nitrati. Come tutti sappiamo, le deiezioni sono usate per fertilizzanti per i campi agricoli, ma spesso si applicano più liquami di quanto il terreno può trattenere. Di conseguenza le sostanze dannose come i nitrati penetrano nel terreno, mentre attraverso piogge e irrigazioni l’azoto finisce verso fiumi e falde acquifere (da cui l’acqua raggiunge le nostre case). Queste sostanze sono molto pericolose: i nitrati, una volta raggiunti i corsi d’acqua, portano alla crescita eccessiva di alghe che, sottraendo ossigeno, portano ad alterazioni degli ecosistemi e alla moria di pesci. Secondo alcuni studi l’acqua potabile contaminata da nitrati può causare problemi alla salute. E non possiamo ignorare gli spandimenti illegali di liquami, non così infrequenti.
Secondo alcune inchieste, la più recente quella di Greenpeace, nella Pianura Padana la concentrazione di nitrati nei corsi d’acqua è spesso superiore ai limiti di legge (50 mg/l), arrivando a valori di 122 mg/l in alcune zone. Sempre l’analisi di Greenpace mostra come gli allevamenti intensivi in Lombardia rilascino livelli di azoto tripli o quadrupli rispetto ai limiti di legge, mettendo a rischio suolo e acqua in ben 165 Comuni. Inoltre il 40% dei Comuni in zone vulnerabili ai nitrati supera i livelli consentiti, con gravi rischi per falde acquifere e salute pubblica.
In Spagna, proprio a causa di nitrati e allevamenti intensivi, oltre un milione di persone in 197 comuni non ha accesso ad acqua potabile sicura per via della contaminazione.
Di fronte a questi dati e all’aumentare di fenomeni come le ondate di calore e la siccità estrema, davvero è una scelta saggia continuare a usare preziose risorse naturali – e soldi pubblici – per un’attività come la produzione intensiva di carne che, come abbiamo visto, non è per niente efficiente?
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