giovedì, Novembre 6, 2025

La plastica solubile in acqua: dal Giappone la speranza per oceani meno inquinati

Fa discutere la proposta che arriva dal Riken Center for Emergent Matter Science e dall’Università di Tokyo che, al contrario delle plastiche usuali, è estremamente rapida a decomporsi e non lascia nessuna traccia residua. In più non rilascia microplastiche e quello che rimane dopo la decomposizione viene metabolizzato dai batteri

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Una plastica solubile in acqua: dal Giappone arriva una scoperta potenzialmente eccezionale per tamponare il problema della plastica che inquina gli oceani e mette a rischio la vita marina. Secondo le previsioni del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, l’inquinamento causato dalla plastica triplicherà entro il 2040, riversando ogni anno negli oceani del mondo dai 23 ai 37 milioni di tonnellate di rifiuti. Finora le scienziate e gli scienziati si sono concentrati sulle plastiche biodegradabili, senza però risolvere il problema. Se non vengono trattate negli appositi impianti di compostaggio, le bioplastiche si decompongono lentamente nell’ambiente.

Quella proposta dagli scienziati giapponesi del Riken Center for Emergent Matter Science e dell’Università di Tokyo, invece, è estremamente rapida a decomporsi e non lascia nessuna traccia residua. Invece, nel caso delle bioplastiche, qualora finiscano in mare, pesci e crostacei scambiano i frammenti per prede al pari delle plastiche, mentre le sostanze chimiche che molte bioplastiche contengono e vengono rilasciate nel processo di disgregazione potrebbero avere conseguenze impreviste su varie forme di vita oceanica, compresi i coralli. L’articolo in cui spiegano nel dettaglio la scoperta è stato pubblicato sulla rivista Science, con il titolo “Mechanically strong yet metabolizable supramolecular plastics by desalting upon phase separation”.

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Quali sono le proprietà della nuova plastica “solubile”

Nell’esperimento di laboratorio un piccolo pezzo di plastica messo all’interno di un contenitore con acqua salata si è dissolto dopo essere stato agitato per circa un’ora. La ragione, naturalmente, è chimica. I ricercatori giapponesi, guidati dal professore Takuzo Aida del Riken, hanno concentrato la loro attenzione sulle plastiche supramolecolari. Le materie plastiche sono un tipo di polimero composto da piccole molecole legate in lunghe catene da forti legami covalenti che richiedono molta energia per essere spezzati.

Al contrario, i polimeri supramolecolari presentano legami più deboli e reversibili. Allo stesso tempo, però, legami troppo deboli non sono adatti per creare una plastica utilizzabile. E qui arriva la scoperta fondamentale dei ricercatori: la plastica è stata realizzata combinando due monomeri ionici che formano ponti salini reticolati, che forniscono resistenza e flessibilità. Nel nuovo materiale la struttura dei ponti salini è irreversibile a meno che non venga esposta a elettroliti come quelli presenti nell’acqua di mare. Sono proprio questi legami forti, ma al tempo stesso reversibili, che consentono alla plastica di sciogliersi in fretta se esposta al sale, come può avvenire nell’acqua marina. Poiché il sale è presente anche nel terreno, un pezzo di plastica della grandezza di circa cinque centimetri si disintegra sulla terraferma dopo circa 200 ore.

plasticaPiù nel dettaglio, nei test di laboratorio uno dei monomeri scelti dai ricercatori era un comune additivo alimentare chiamato esametafosfato di sodio e l’altro era un monomero a base di ioni guanidinio. Dopo aver mescolato i due monomeri in acqua, i ricercatori hanno osservato due liquidi separati. Uno era denso e viscoso e conteneva gli importanti ponti salini reticolati strutturali, mentre l’altro era acquoso e conteneva ioni salini.

Quando sono stati utilizzati esametafosfato di sodio e solfato di alchil diguanidinio, il sale di solfato di sodio è stato espulso nello strato acquoso. La plastica finale, l’alchil SP2, è stata prodotta essiccando ciò che rimaneva nello spesso strato di liquido viscoso. La “desalinizzazione” si è rivelata la fase critica. Senza rimuovere il sale, il materiale essiccato risultante era un cristallo fragile, inadatto all’uso. Quando la plastica è stata nuovamente immersa nell’acqua salata, le interazioni si sono invertite e la struttura della plastica si è destabilizzata nel giro di poche ore.

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Possibili caratteristiche e applicazioni della nuova plastica solubile

Dopo aver creato una plastica resistente e durevole che può essere dissolta solo in determinate condizioni, i ricercatori hanno testato la qualità della plastica. Il nuovo materiale è resistente quanto le plastiche prodotte partendo da petrolio e può essere utilizzato come normale plastica una volta rivestito. L’attenzione dei ricercatori in questo momento è concentrata proprio su quali siano i migliori metodi di rivestimento. La nuova plastica è atossica e non infiammabile, il che significa che non produce emissioni di CO₂, e può essere rimodellata a temperature superiori a 120 °C come altre termoplastiche.

Testando diversi tipi di solfati di guanidinio, i ricercatori sono stati in grado di generare plastiche con durezze e resistenze alla trazione diverse, tutte paragonabili o superiori a quelle delle plastiche convenzionali. Ciò vuol dire che il nuovo tipo di plastica può essere personalizzato in base alle esigenze: sono possibili plastiche dure e resistenti ai graffi, plastiche simil-silicone, plastiche portanti o plastiche flessibili a bassa resistenza alla trazione.

Sebbene non siano stati comunicati ancora dettagli per l’utilizzo commerciale della nuova plastica solubile, il responsabile del progetto Takuzo Aida ha affermato che la loro ricerca ha suscitato un notevole interesse, anche da parte di coloro che operano nel settore degli imballaggi. Plastiche come queste possono essere utilizzate anche nella stampa 3D e in applicazioni mediche o sanitarie.

C’è il rischio di microplastiche?

MicroplasticheParticolarmente importante è il fatto che non solo la plastica solubile si decompone in fretta tornando ai suoi componenti iniziali, ma gli stessi possono essere ulteriormente elaborati dai batteri presenti in natura, evitando così la generazione di microplastiche che possono danneggiare la vita acquatica ed entrare nella catena alimentare. Le microplastiche – piccoli frammenti di plastica di diametro inferiore a 5 mm – ormai si infiltrano in ogni angolo del nostro pianeta, dalle regioni remote degli abissi oceanici e dell’Artico, fino all’aria che respiriamo.

Le microplastiche si trovano sempre più spesso anche nel nostro organismo, compresi sangue e cervello. È noto che questi contaminanti causano una serie di problemi negli ecosistemi marini e terrestri, tra cui il rallentamento della crescita degli animali, che influisce sulla fertilità e causa disfunzioni organiche. Il problema maggiore delle bioplastiche è che – degradandosi a ritmi lenti – generano ugualmente microplastiche.

I ricercatori giapponesi hanno dunque concentrato particolare attenzione sulla riciclabilità e biodegradabilità della nuova plastica solubile. Dopo aver sciolto la plastica in acqua salata, sono stati in grado di recuperare il 91% dell’esametafosfato e l’82% del guanidinio sotto forma di polveri, a dimostrazione del fatto che il processo di riciclo è semplice ed efficiente. Nel terreno, fogli realizzati con la nuova plastica si sono degradati completamente nel giro di dieci giorni.

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L’impatto ambientale e le soluzioni per riutilizzare

bioplasticheNon solo, infatti, il materiale supramolecolare è degradabile, ma quello che rimane dopo la decomposizione può essere riutilizzato in modo utile. Il nuovo materiale, una volta decomposto, rilascia azoto e fosforo, che i microbi possono metabolizzare e le piante possono assorbire, funzionando in modo simile a un fertilizzante. Tuttavia questa fase richiede una gestione attenta: se da un lato questi elementi possono arricchire il suolo, dall’altro potrebbero sovraccaricare gli ecosistemi costieri di nutrienti, associati a fioriture algali che destabilizzano interi ecosistemi.

L’approccio migliore potrebbe essere, perciò, quello di riciclare in larga parte il materiale in un impianto di trattamento controllato che utilizza acqua di mare. In questo modo, le materie prime potrebbero essere recuperate per produrre nuovamente plastica supramolecolare, sebbene ovviamente ciò ridurrebbe la portata rivoluzionaria in termini di inquinamento. La ricerca, tuttavia, può andare avanti per superare questi ostacoli. Secondo i ricercatori, però, più che la scienza sono governi e industrie a dover agire in fretta per guidare il cambiamento. Senza misure più aggressive, la produzione mondiale di plastica – e le relative emissioni di carbonio – potrebbero più che raddoppiare entro il 2050.

Con infrastrutture, linee di produzione consolidate e guadagni stratosferici, è estremamente difficile sperare che l’industria della plastica possa cambiare. Senza contare i potenti interessi delle aziende dei combustibili fossili, spesso le stesse a investire nella produzione di plastica, o delle nazioni con estese risorse petrolifere, come Russia, Stati Uniti e Paesi del Medio Oriente. Quanto la situazione sia complessa si è visto recentemente durante le discussioni in sede Nazioni Unite per un trattato mondiale sulla plastica. Pochi mesi dopo la triste verità è che per il momento si è concluso con un nulla di fatto e un accordo è ancora difficile da raggiungere nei prossimi round di dialoghi.

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