giovedì, Novembre 6, 2025

Ma perché continuiamo a costruire allevamenti intensivi? Il caso di Arborio

Ad Arborio, un comune nel vercellese celebre per la produzione del riso, stra creando molta discussione la costruzione di un nuovo allevamento intensivo di galline per la produzione di uova che ospiterà quasi 300 mila animali. Questo ennesimo caso mette in luce un’importante lacuna della legislazione europea

Lorenzo Bertolesi
Lorenzo Bertolesi
Autore e attivista con base a Milano. Ha una laurea in filosofia con una tesi (vincitrice di una borsa di studio) nell'ambito "Human-animals studies". Lavora nella comunicazione digitale da anni, principalmente per diverse ONG come ufficio stampa, copywriter e occupandosi della gestione dei social. Ora è un freelance che, insieme al collettivo Biquette, si occupa di comunicazione digitale per progetti ad impatto sociale. Addicted di Guinness e concerti (soprattutto punk), nel tempo libero viaggia con il suo furgoncino hippie camperizzato insieme alla cagnolina Polly

Sono nato e cresciuto nella provincia sud di Milano, in Lombardia. Viaggiando in auto per le campagne dalle mie parti è normale vedere degli allevamenti intensivi che svettano tra i campi – la Lombardia è infatti una delle regioni italiane con la concentrazione più alta di queste strutture (potete vederlo con i vostri occhi in questa mappa, anche se mancano gli allevamenti bovini).

Si tratta di capannoni abbastanza imponenti, nella maggior parte dei casi completamente chiusi, con all’esterno vasconi che contengono le deiezioni e container per il cibo.
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Allevamento intensivo. Foto: Food for profit

Ma non sono queste cose che ti fanno accorgere che nelle vicinanze c’è una struttura così – a farlo è l’olfatto. Quando tornavo a casa dall’università, scherzavo dicendo che potevo dormire per tutto il tragitto del bus tranquillo senza perdere la mia fermata, perché la puzza di merda mi svegliava ogni volta (la fermata era vicino a un grande allevamento di vacche da latte).

Per questo non ho potuto fare a meno di simpatizzare per le proteste che sono scoppiate ad Arborio, dove si sta costruendo un imponente allevamento intensivo.

Il caso ad Arborio

Ci troviamo nel vercellese, ad Arborio e tra le risaie del territorio, appena a pochi chilometri da un parco e da una riserva naturale, da qualche mese è spuntato un capannone imponente. Nessuna comunicazione era stata fatta alla cittadinanza, nessuna assemblea pubblica, giusto la pubblicazione di alcuni atti sui portali istituzionali – cosa che cittadine e cittadini non sapevano. E quel capannone è arrivato senza far rumore, ma una volta scoperto è subito scoppiato il caso. Il progetto, portato avanti dall’azienda Bruzzese uova, sta andando a velocità crescente, e secondo le stime porterà circa 274 mila galline per la produzione di uova in questo capannone imponente. 

Come spesso accade in questi casi, è nato il comitato cittadino R.I.S.O che si oppone a un progetto costruito a soli 1.500 metri dal centro abitato del comune. Il caso ha creato anche molta discussione mediatica, grazie alla mobilitazione territoriale del comitato – che ha organizzato presidi e raccolto oltre 50 mila firme online. Ma non solo. Alcune delle principali associazioni animaliste si sono attivate, con il supporto della giornalista Giulia Innocenzi, diffidando l’azienda, la regione Piemonte, la provincia di Vercelli e il Comune di Arborio.  Anche la deputata del PD Eleonora Evi ha depositato un’interrogazione parlamentare.

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Perché nessuno vuole vivere vicino a un allevamento intensivo?

A preoccupare cittadine e cittadini sono soprattutto i rischi ambientali e sanitari. Non è un caso che ogni volta che viene annunciata la costruzione di un nuovo allevamento intensivo, spunta un comitato che si oppone – ci sono tanti comitati nati per questo, come per esempio in Valmarecchia, in Emilia-Romagna, in provincia di Pavia e tanti altri ancora.

Secondo la documentazione depositata dai proprietari, l’allevamento Bruzzese emetterà circa 19 tonnellate di ammoniaca l’anno: un dato allarmante se si considera che queste sostanze contribuiscono alla formazione di polveri sottili (PM2.5), responsabili di oltre 239 mila morti premature solo in Europa (dati Agenzia europea per l’ambiente). Alle emissioni si aggiungono i reflui prodotti da migliaia di galline: liquami ricchi di azoto, fosforo, antibiotici e metalli pesanti che rischiano di contaminare le falde acquifere e avere un impatto sulle stesse risaie che sono una risorsa fondamentale del territorio.

Il caso di Arborio è comunque uno su tanti. Vivere vicino a un allevamento è un incubo. In un dettagliato reportage uscito sul The Guardian, la fotogiornalista Selene Magnolia Gatti ha raccolto foto e testimonianze da tutta Europa su cosa significa vivere all’ombra di questi luoghi. C’è chi racconta che dopo la costruzione di un allevamento vicino a casa ha iniziato a vomitare, svenire. C’è chi lamenta problemi di asma, chi troppi insetti e alcuni hanno iniziato a vivere con vere e proprie maschere per respirare.

Come si legge dai suoi racconti, vivere vicino a un allevamento significa respirare ogni giorno l’odore pungente di ammoniaca, non poter aprire le finestre, vedere il valore delle case e dei terreni crollare, rinunciare a una qualità di vita dignitosa. Racconti simili a quelli riportati da Selene Magnolia sono stati fatti sempre dalla giornalista Giulia Innocenzi, sia su Report sia nel documentario Food for profit.

Un’ulteriore dimostrazione dell’impatto negativo degli allevamenti intensivi arriva dalla Spagna. Nella provincia di Galizia, infatti, per la prima volta in Europa un tribunale ha riconosciuto gli effetti dannosi degli allevamenti intensivi per le persone che vivono nelle vicinanze, parlando di “violazione dei diritti umani” e stabilendo anche un risarcimento di oltre 30.000 euro per ogni cittadino.

Dov’è il corto circuito?

Gli allevamenti intensivi sono osteggiati dalle comunità che ci vivono attorno, ma le problematiche a loro connessi non finiscono qui. È sempre più evidente come, per trasformare il nostro sistema alimentare e renderlo sostenibile, queste strutture debbano essere limitate il più possibile (qui un articolo dettagliato sul perché è necessario farlo, per ragioni ambientali, etiche e sanitarie). Quanto meno, andrebbe fermata la costruzione di nuove strutture. Purtroppo le cose in Europa stanno andando diversamente e il numero degli allevamenti intensivi sta crescendo sempre di più.

Un’inchiesta internazionale coordinata da AGtivist.agency ha mappato per la prima volta i “maxi allevamenti” in tutta Europa e i dati sono molto preoccupanti. Parliamo di oltre 24 mila strutture, con una crescita del 56% negli ultimi 15 anni. Più precisamente:

  • oltre 11 mila allevamenti intensivi di maiali (con più di 2 mila animali)
  • oltre 10 mila allevamenti intensivi di polli (con più di 40 mila animali)

A livello numerico, per singoli paesi, abbiamo la Spagna in testa, seguita da Francia, Germania, Paesi Bassi e poi il nostro Paese. Il problema è che queste strutture sono sempre più in crescita. Dal 2014 al 2023 sono stati infatti rilasciati più di 500 nuovi permessi — cioè nuovi allevamenti intensivi o ampliamenti di quelli già esistenti. La maggior parte di queste strutture ospitano polli — più di 300. L’Italia è il secondo paese, dopo la Spagna, per nuovi permessi.

Il caso di Arborio quindi non è un’eccezione.

Di fronte a questi dati c’è poco di cui essere speranzosi. Questo anche perché in diversi paesi europei la tendenza che si osserva è la crescita degli allevamenti intensivi e la scomparsa di quelli più piccoli. Sta succedendo in Germania, dove gli allevamenti di maiali in 10 anni sono diminuiti del 40%, ma quelli rimasti sono diventati complessivamente più grandi. Una cosa analoga sta succedendo in Olanda, dove il Governo ha previsto un compenso economico agli allevatori per far chiudere gli allevamenti e non finire per strada, così da ridurre le emissioni del Paese. Questa misura, che ha fatto diminuire notevolmente il numero di suini del Paese, ha portato principalmente però alla chiusura degli allevamenti con meno di 500 maiali.

Sembra una situazione paradossale, dove da un lato c’è sempre più consapevolezza della necessità di ridurre gli allevamenti intensivi, soprattutto per ragioni ambientali, ma dall’altro invece stiamo schiacciando sempre più sull’acceleratore. E la responsabilità qui è tutta della politica e dei fondi di investimento. Gli allevamenti intensivi sono infatti una delle attività che ricevono enormi finanziamenti, pubblici e privati. Solo con la Politica agricola comunitaria (PAC), che vale circa il 30% del bilancio dell’UE, gli allevamenti intensivi europei ricevono una cifra che va dai 28 ai 32 miliardi di euro all’anno. E fino a ora ad essere privilegiati sono stati proprio gli allevamenti più grandi.

Acqua allevamenti
Foto: Canva

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Una zona grigia

Ma è qui che scatta un corto circuito. Perché la parola “allevamento intensivo” è diventata di dominio pubblico. Peccato che ancora poche persone oggi sanno che in tutta l’Unione Europa non esiste una definizione giuridica di “allevamento intensivo”. Ci sono regolamenti che semplicemente differenziano l’allevamento biologico, da quello all’aperto da quello “convenzionale”. Ci sono poi ovviamente norme che riguardano gli allevamenti, ma sulle condizioni interne – per esempio sulla quantità di animali per metro quadro, le modalità di stabulazione. Ma nessuna definizione giuridica.

Questo cosa comporta? Banalmente una zona grigia normativa, che va a favore della poca trasparenza per esempio dei fondi pubblici allocati a queste strutture, ma che rende più complessa la possibilità di impedire la costruzione di nuovi impianti. Nel 2020 l’allora eurodeputata Eleonora Evi, durante i negoziati per la modifica della PAC, aveva presentato un emendamento chiedendo di introdurre una definizione giuridica di allevamento intensivo, così da dare la possibilità di gestire in modo più chiaro i finanziamenti della PAC – ma non è andato in porto. Sempre nel documentario Food for profit, Pekka Pesonen, il direttore generale del più grande gruppo UE della lobby agricola, Copa-Cogeca, ha potuto dichiarare che L’Unione Europea non ha allevamenti intensivi così come vengono intesi nel resto del mondo.

Se proviamo a definire cosa voglia dire un “allevamento intensivo” in Europa, ci aiuta l’Associazione Medici per l’Ambiente, che mostra come nel D.L.gs 152/2006 “Norme in materia ambientale” (il cosiddetto Testo unico ambientale), troviamo una definizione secondo cui gli allevamenti “intensivi” hanno 40.000 posti pollame, 2.000 posti suini da produzione (di oltre 30 kg) e 750 posti scrofe.

Negli Stati Uniti, invece, la questione è molto più chiara. Qui esiste la categoria normativa dei CAFOs (Concentrated Animal Feeding Operations), riconosciuta dall’Agenzia per la protezione ambientale (EPA) e dal Dipartimento dell’Agricoltura. Per essere considerato una Large CAFO, un impianto deve superare soglie numeriche precise: 125.000 polli da carne, 82.000 galline ovaiole, 2.500 maiali da ingrasso, 1.000 bovini da carne o 700 vacche da latte. Sopra questi numeri, l’allevamento diventa automaticamente un CAFO, cioè un’operazione intensiva su larga scala.

E non è solo una questione terminologica: la definizione di CAFO è incorporata nel Clean Water Act:questi impianti sono soggetti a permessi ambientali specifici per la gestione dei reflui e degli scarichi.

Negli Stati Uniti esiste un quadro normativo che riconosce e disciplina apertamente l’allevamento intensivo. Certo, con numeri incredibilmente maggiori – e qui si misura tutto il paradosso americano, dove enormi allevamenti di polli possono essere considerati “non intensivi”.  In Europa, invece, restiamo con il nostro paradosso: tutti parlano di allevamenti intensivi, i cittadini li vedono e li contestano — come ad Arborio — ma giuridicamente questa categoria non esiste. E a trarre vantaggio da questa situazione non è sicuramente la collettività, ma l’industria.

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