Se prima il greenwashing era una parola sconosciuta ai più, negli ultimi tempi si parla con sempre più frequenza delle manovre di marketing che più o meno velatamente cercano di ingannare i consumatori sulla sostenibilità di un prodotto e di un’azienda.
In questo senso, l’analisi del ciclo di vita, Life Cycle Assessment (LCA) rappresenta un valido strumento che può aiutarci a comprendere il reale impatto ambientale di un prodotto, e che d’altra parte può essere utile alle aziende, genuinamente impegnate verso processi di sostenibilità, per certificare e comunicare a consumatori sempre più consapevoli il proprio impegno.
Che cos’è LCA?
Per capire cos’è LCA, ci affidiamo alle parole di Elena Baldereschi, consulente ambientale in ambito Life Cycle Management presso Ergo, società spin off della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. In un incontro tenutosi online lo scorso 5 maggio e organizzato in collaborazione con Joule, la scuola di Eni per l’impresa, Baldareschi ha spiegato il funzionamento dell’LCA come strumento per l’analisi dell’impatto ambientale dei prodotti ma anche come mezzo per supportare le capacità competitive e di trasparenza delle imprese verso il mercato.
Prendendo in riferimento la definizione di Society of Environmental Toxicology and Chemistry (SETAC) del 1993 si tratta di:
“Un processo oggettivo di valutazione dei carichi ambientali connessi con un prodotto, un servizio o un’attività, attraverso l’identificazione e la quantificazione dell’energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente, per valutare l’impatto di questi usi di energia e di materiali e dei rilasci nell’ambiente e per valutare e realizzare le opportunità di miglioramento ambientale. La valutazione include l’interno ciclo di vita del prodotto, processo o attività, comprendendo l’estrazione e il trattamento delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, l’uso, la manutenzione, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale”.
L’obiettivo di questa metodologia è, insomma, capire quali sono i principali contributi all’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio ed andare ad agire laddove è possibile abbatterli. La valutazione deve includere l’intero ciclo di vita del prodotto, come si dice in gergo “dalla culla alla tomba”. Quindi non solo il processo che avviene all’interno dell’azienda ma tutte le fasi a monte e a valle, come l’approvvigionamento delle materie prime, i materiali e la fase di distribuzione.
I primi studi sul profilo ambientale dei prodotti, ricorda Elena Baldereschi, risalgono già agli anni Sessanta quando si parlava di Resource and Enrvironmental Profile Analyses (REPA).
Nel 2014 la Commissione europea, ha definito uno standard per la costruzione di una banca dati europea di LCA, il Life cycle data network, e ha lanciato il programma sulla Environmental footprint . Nello stesso Green Deal europeo l’analisi LCA è citata più volte come approccio metodologico attendibile.
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A cosa serve l’analisi LCA
L’analisi LCA può essere utile per rispondere alle esigenze di consumatori interessati alla sostenibilità di prodotti o servizi, garantendo una comunicazione ambientale che abbia delle basi scientifiche.
È, inoltre, un buono strumento per evitare il greenwashing, anche quello “inconsapevole”, che include una serie di informazioni vere ma parziali, che non forniscono un quadro completo sulla vita di un prodotto. Ad esempio, quando si afferma che un prodotto sia sostenibile solo perché realizzato in un materiale riciclato o riciclabile, senza prendere in considerazione tutte le fasi di produzione e smaltimento dello stesso.
Lo studio LCA può essere preso in considerazione già in fase di progettazione, il cosiddetto Design for Environment (DfE): senza compromettere le prestazioni del prodotto ma inserendo tra i parametri di progettazione, oltre agli aspetti funzionali ed economici, anche quelli ambientali.
Alla luce di tutto ciò, è scontato che sia uno strumento di supporto all’interno del sistema dell’economia circolare, utile per valutare la durabilità dei prodotti, l’impatto delle fasi di smaltimento e per individuare le alternative progettuali.
Le fasi di uno studio LCA
Per prima cosa, un’azienda dovrebbe indagare le motivazioni che l’hanno spinta a chiedere una valutazione sull’impatto del ciclo di vita del proprio prodotto, come ad esempio la necessità di una certificazione chiara ed affidabile da comunicare ai propri clienti o magari una valutazione interna per stabilire l’impatto di alcuni processi.
Successivamente bisogna stabilire, spiega ancora Baldereschi, l’unità funzionale del prodotto, cioè l’unità di riferimento delle prestazioni del sistema, che esprime la funzione del prodotto in un’unità definita, misurabile e coerente con gli scopi dello studio: ad esempio, per la produzione di una lavatrice potrebbe essere un chilo di bucato o la stessa lavatrice.
È importante definire poi i confini del sistema, cioè le singole operazioni che devono essere incluse nello studio. Dunque è possibile realizzare un’analisi LCA completa che va dall’estrazione delle materie prime fino allo smaltimento del prodotto ma si possono effettuare anche altri tipi di studi LCA.
Ad esempio, considerare solo gli impatti a monte della fase di produzione e relativi alla produzione all’interno dell’azienda. “Questo è molto diffuso, – afferma Baldereschi – e anche più sensato, per vari prodotti intermedi che successivamente subiranno altre lavorazioni importanti”.
La valutazione dei confini passa anche attraverso una serie di analisi tecniche e di fattibilità di raccolta dei dati: devono essere disponibili dati attendibili e chiari, che permettano di misurare in tutte le fasi – dalla produzione, al trattamento, al trasporto, all’uso sino allo smaltimento – l’input e output, cioè quello che si preleva dall’ambiente e quello che viene restituito. Da una parte quindi i consumi energetici, idrici, l’uso di materie prime e dall’altra le emissioni in aria, in acqua e la produzione di rifiuti.
Viene avviata quindi un’analisi dell’inventario, nella quale si procede alla costruzione di un modello analogico della realtà in grado di rappresentare nella maniera più fedele possibile gli scambi tra le singole operazioni.
Per ogni fase si raccolgono tutti i dati di input e di output: il materiale raccolto viene diviso in dati primari, quelli forniti dall’azienda che si riferiscono ai processi specifici e agli impianti oggetti di studio, e dati secondari, inferiori perché non specifici, appartenendo a database o alla letteratura tecnica del settore, si riferiscono alle medie sul mercato. I dati specifici, che possono essere primari o secondari, riguardano il processo che stiamo prendendo in esame. I dati generici sono invece quei dati secondari meno dettagliati che si riferiscono a sistemi generici e che hanno quindi una qualità inferiore.
Per ottenere una valutazione dello studio migliore è necessario dunque riportare una valutazione sulla qualità dei dati, tenendo in considerazione il periodo temporale di riferimento, l’area geografica, la tecnologia di riferimento ma anche la rappresentatività e l’accuratezza che dipende, in sostanza, da quanti dati primari, secondari, specifici e generici possediamo.
A questo punto si può effettuare la valutazione degli impatti potenziali, andando a costruire un modello virtuale di riferimento del nostro prodotto o del nostro servizio.
Ad ogni input vengono associate delle categorie di impatto così da ottenere dei dati numerici che esprimono diverse problematiche ambientali, come l’effetto serra, l’impoverimento dell’ozono, lo smog fotochimico e l’acidificazione.
L’interpretazione dei risultati
Una volta ottenuto i risultati in termini numerici si può andar ad intervenire per migliorare il proprio impatto ambientale sul punto della catena più carente: se ad esempio, l’impatto maggiore è causato dall’energia si può provvedere a scegliere una o più fonti di energia alternativa.
Si possono quindi fare delle simulazioni di miglioramento per capire come poter agire su quel determinato fattore.
Un buon risultato ambientale è senz’altro un vanto da condividere con i propri consumatori ma per comunicare i risultati è necessario fare dei passaggi intermedi che permettano di rendere fruibile lo studio a tutti, andando quindi a semplificarne il risultato.
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I benefici per le aziende
I benefici per le aziende sono molteplici: vanno dal rispondere alle aspettative dei clienti, allo stare al passo, dal supportare i processi innovativi, alla gestione del supply chain, dal guidare il design e la progettazione all’integrare le informazioni nel proprio sistema di gestione e in ultimo, ma non per importanza, la possibilità di anticipare i concorrenti.
“In alcuni schemi di certificazione, – spiega Baldereschi – prima di poter arrivare ad una certificazione, è necessario stabilire delle regole di categoria e se queste regole non esistono ancora devono essere create: chi si muove per primo potrà anche fare le regole a cui poi dovrà attenersi tutta la categoria”.
I limiti dell’analisi LCA secondo Zero Waste Europe
Alla magistrale lezione di Elena Baldereschi, aggiungiamo, però, una postilla, riportando i dubbi sulla completezza dell’LCA sollevati da un un report di Zero Waste Europe, dal titolo “Giustificare l’inquinamento della plastica, le carenze del Life cycle assessment nelle strategie per gli imballaggi di alimenti”. In pratica, stando alle considerazioni che si possono desumere dal report, l’analisi LCA non può essere considerato l’unico metro di giudizio, che esclude la complessità del sistema che interessa un prodotto. Il documento, redatto in collaborazione con Friends of The Heart, consegna una lettura critica in particolare relativamente al packaging monouso, evidenziando come alcune analisi del ciclo di vita siano prevalentemente dedicate al contrasto delle emissioni di gas serra ma non al destino dell’involucro in plastica giunto a fine vita, non prendendo, inoltre, in considerazione il fenomeno del problema del littering, ossia alla dispersione di plastica nell’ambiente.
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