Ci vivono oltre 10 milioni di abitanti, per un bacino territoriale che corrisponde al 54% del territorio nazionale: sono paesi di montagna, comunità montane, unione di comuni e territori delle aree interne. È questa l’Italia dell’Uncem, Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, un’organizzazione che da oltre sessant’anni lavora nel cuore del Paese per sostenere la piena applicazione dell’articolo 44 della carta costituzionale in cui viene riconosciuta la necessità di consegnare ai territori montani leggi e misure specifiche. Li chiamiamo borghi, dintorni, paesini. Quei posti dove le persone diventano anime: mille, cento, a volte poco più di cinquanta residenti. Considerata spesso residuale, marginale o esclusivamente a servizio delle grandi città, questa geografia è in realtà uno spazio di possibilità e di innovazione in cui stanno crescendo modelli virtuosi di gestione delle risorse naturali e percorsi di rigenerazione capaci di indicare nuove strade e nuovi immaginari per affrontare le grandi sfide del presente.
Ma ci si sta accorgendo di tutto questo? Con Economia circolare.com, grazie alle considerazioni dell’Uncem sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, abbiamo avuto modo di scoprire una lenta diversa con cui leggere il Paese. La lente della questione territoriale, ossia gli squilibri e i divari che esistono tra centri e periferia, tra aree urbane e aree montane. Mancanze che nei territori si traducono spesso con l’assenza o l’intermittenza di servizi essenziali, con disuguaglianze sociali e fenomeni di spopolamento.
Secondo Marco Bussone, giornalista e presidente dell’Uncem, mettere al centro delle strategie per la ripartenza il rapporto tra città e montagna può essere un’occasione per invertire questi processi.
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Presidente Bussone, il dossier dell’Uncem invita a considerare il Pnrr come una spinta per approfondire la questione territoriale. Ci può dire qualcosa in più su questo concetto?
Insisto molto su questo tema. Credo che sia una delle questioni principali. Insieme alla lettura Nord-Sud e quindi alla questione meridionale è importante tenere insieme un’altra prospettiva,quella che mette in relazione aree urbane e aree montane. Come stanno insieme i territori urbani e quelli di montagna? Con un patto fatto di misure concrete, capaci di riconoscere il valore delle aree interne e montane del nostro Paese. I territori offrono servizi ecosistemici alle città e sono spazi vivaci, laboratori innovativi dove si sperimentano nuove economie. Per fare un esempio: in che modo Torino riconosce l’importanza delle foreste della Valle di Susa e della Valle di Lanzo? Come città è pronta a investire sul riconoscimento di quei territori che assicurano ogni giorno acqua e aria pulita a tutta Torino? Per rispondere bisogna superare l’idea che esista solo la città come luogo di investimento e di progettazione. Nell’area metropolitana di Torino ci sono 310 comuni. In questi territori la difesa del suolo e la riduzione del dissesto idrogeologico giocano un ruolo decisivo e di protezione per la città stessa. La sfida è lavorare affinché ci sia interscambio tra questi paesi e le aree urbane. Serve un patto tra città e montagna in cui ovviamente la transizione ecologica resta al centro di ogni azione.
Nel Pnrr manca una specifica per le aree montane. Un’assenza che può rallentare la realizzazione di questo patto?
Non c’è una voce specifica sulla montagna ma questa assenza non deve essere considerata per forza come una mancanza. Il dossier Uncem non vuole fare la somma di ciò che è stato stanziato per i piccoli comuni perché il tema è valorizzare il ruolo delle aree montane e interne in ogni componente del Pnrr. I territori sono trasversali alle missioni e alle varie componenti del piano.
Quando si parla di economia circolare e di transizione ecologica l’attenzione finisce sulle grande città e sulle metropoli, spesso al centro di grandi studi e ripensamenti per trovare una dimensione più sostenibile delle aree urbane. E le aree interne? Che ruolo può avere l’economia circolare nell’Italia dei paesi?
Io credo che i territori montani siano già dentro una transizione ecologica. In montagna l’economia circolare si fa da tempo ed è un’economia spesso legata all’utilizzo e alla conservazione delle risorse naturali. Nelle aree interne ci sono esempi innovativi di imprese agricole, nell’appennino Tosco-Emiliano il modello delle cooperative di comunità, grazie all’attenzione sull’erogazione di servizi e sui temi della sostenibilità, sta generando occasioni lavorative e di rafforzamento del tessuto sociale. Sono forme di economia civile che esistono da tempo in tante parti d’Italia. Il problema è che non sono state adeguatamente valorizzate dalla politica. Nelle aree montane ci sono filiere che attendono soltanto maggiore attenzione. Pensiamo per esempio alle filiere del legno: tra gestione del patrimonio boschivo, utilizzo e riuso del legno, l’economia forestale può essere considerata come una grande esempio di economia circolare. Per la montagna queste forme di economia circolare e di economia civile sono le uniche economie possibili.
E cosa manca per valorizzare questo tipo di filiere?
Mancano una serie di investimenti. Bisogna mettere risorse con meno timidezza su questo tipo di filiere. Sulle politiche forestali c’è ancora troppo poco. Basta dire che lo Stato ha investito soltanto 5 milioni di euro della legge di bilancio 2020 sulle foreste. Anche le regioni, all’interno dei programmi di sviluppo rurale investono ancora troppo poco su questo fronte. Nel Pnrr era prevista anche una componente specifica su queste filiere ma alla fine non c’è stata. In generale c’è un altro ostacolo: la frammentazione degli enti locali, un fattore che a volte rischia di fermare queste economie.
Con uno stanziamento di 140 milioni di euro, all’interno della componente dedicata all’economia circolare, la missione 2 del Pnrr prevede l’individuazione di alcune zone rurali italiani dove dar vita alle green communities. Cosa sono le green communities?
Uncem conosce bene le green communities. È un concetto di comunità che nel 2015 abbiamo inserito nel volume “Le sfide dei territori nella green economy”. Ancor prima del Green New Deal, la nostra attenzione era puntata su strumenti in grado di favorire modelli di sviluppo sostenibile nei territori. È una strategia che abbiamo fortemente voluto e che abbiamo contribuito a delineare anche all’interno della legge sulla Green economy (la 221/2015, ndr) in cui si parla esplicitamente di green communities per le aree rurali e montane. Oggi ritroviamo molto di quel lavoro all’interno del Pnrr. Il piano punta a individuare diverse aree rurali e montane in cui far nascere 30 green communities. Una green communities è un’unione tra enti locali, comuni differenti e altri soggetti che in un determinato territorio, superando steccati amministrativi, lavorano per gestire in maniera integrata il patrimonio agro-forestale, cooperano per l’utilizzo sostenibile delle risorse idriche e valorizzano il lavoro delle imprese che tutelano o offrono servizi ecosistemici, come per esempio le realtà agricole che custodiscono la biodiversità e si prendono cura del territorio. Non è cosa da poco, perché è in queste aree che possiamo favorire un nuova coesione territoriale basata su interscambi tra zone rurali e città. È una grande occasione per valorizzare la produzione di energia da fonti rinnovabili fatta da piccoli impianti messi in rete tra loro, le attività produttive autosufficienti e i percorsi turistici di qualità.
Il lavoro di Uncem, passando per le ricerche, i progetti del gruppo Riabitare Italia e della Strategia Nazionale Aree Interne, fino al lavoro sul campo di tante cooperative, associazioni e amministrazioni, invitano a invertire lo sguardo, a guardare ‘i margini’ come centri di innovazione e spazi sociali dove praticare nuove economie. C’è consapevolezza su questo cambio di prospettiva?
La consapevolezza sta crescendo. Sicuramente la pandemia ha acceso i riflettori su un’Italia raccontata poco e a volte superficialmente. La politica nazionale e regionale deve prendere coscienza di questa prospettiva, ma soprattutto deve far camminare una visione e lavorare su strategie a lungo periodo. Il Pnrr deve essere inteso come strumento, non come fine. Uncem lavora per valorizzare la soggettività dei territori e gli investimenti possono essere un mezzo. La questione territoriale si affronta nelle e con le comunità. E quando parliamo di comunità nelle aree montane dobbiamo evitare luoghi comuni, illusioni e strumentalizzazioni. Per esempio, per affrontare il tema dello spopolamento c’è bisogno anche di incroci e di scambi di competenze, di pratiche e visioni. Dobbiamo allontanare ogni tipo di semplificazione. Le fragilità e tutti quei divari si affrontano anche con questo cambio di considerazione. Dobbiamo vedere la montagna come luogo in grado di fare impresa, costruire reti e come laboratori capaci di praticare cambiamenti, altrimenti chi arriva da fuori rischia di non riconoscersi e di non esser riconosciuto nella comunità. Indubbiamente, la crisi sanitaria ha imposto maggiore attenzione sui territori, ma è bene non confondere il territorialismo con il municipalismo perché, se pensiamo alle green communities, per concretizzare la transizione ecologica e quella digitale dobbiamo andare oltre il proprio campanile. È una condizione necessaria se vogliamo mettere al centro le comunità e se vogliamo consolidare il patto tra città e montagna.
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