“Oggi, nel second hand, come è giusto che sia si immette un prodotto tessile usato senza particolari limitazioni chimiche. Nel riciclo degli stessi prodotti, invece, le limitazioni si introducono”. Fabrizio Tesi, presidente di Astri – Associazione tessile riciclato italiana, parla con EconomiaCircolare.com di quella che sembra una grande contraddizione di un sistema legislativo che spinge verso quote di riciclo sempre maggiore ma poi ne ostacola i processi. Il tema è appunto quello dei limiti imposti alle sostanze chimiche presenta nelle fibre tessili riciclate.
Racconta ancora Tesi: “In Italia ricicliamo in modo virtuoso capi usati, soprattutto post consumo, che vengono quindi dalla raccolta di indumenti usati dei cittadini. Capi che vengono da una storia che può essere anche lontana: una maglia, una giacca, un paio di pantaloni o una gonna che sono stati prodotti magari un anno fa, ma anche 10 o 20 anni fa. È chiaro che a quei tempi le regole sulla chimica erano molto diverse”.
Dottor Tesi, da dove viene il problema?
Facciamo l’esempio delle ammine aromatiche, che qualche anno fa sono state bandite. Tempo fa per le ammine si moriva durante la produzione dei coloranti. Ma le ammine sono in problema solo durante la produzione, nei tessuti non danno problemi, o perlomeno non ci sono prove scientifiche che creino danni alla salute. Però si è fatto di tutta di l’erba un fascio, come si suol dire.
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Come avete reagito quando sono state messe al bando: se non eravate d’accordo avrete protestato, immagino.
Il problema è che ai tavoli che contano l’Italia è abbastanza latitante. Solo uno studio del professor Bartolini dell’Istituto Buzzi di Prato bilanciò le altre ricerche e mitigò danni maggiori che sarebbero potuti arrivare col regolamento. E così le ammine sono diventate un grosso problema nel riciclo dei tessuti, anche se oggi stiamo cercando di gestire la questione con analisi costanti sui materiali.
Poi c’è il tema dei degli APEOs (alchilfenoli etossilati, i comuni tensioattivi). Tutto nasce da un dossier presentato dalla Svezia in base al quale gli APEOs in acqua femminizzano i pesci. Su questo aspetto il REACH (il regolamento sui rischi legati alle sostanze chimiche, ndr) nell’allegato 17 lascia la porta aperta a prodotti riciclati: si fissa il limite di 100 parti per milione, ma i prodotti che ragionevolmente non verranno lavati in acqua nel corso della loro vita – come una giacca o un cappotto ecc. – e i prodotti interamente riciclati possono essere esclusi da questa restrizione.
Dunque dov’è il problema?
Il problema non è tanto il regolamento, ma l’atteggiamento dei brand della moda. Perché non c’è nessuna prova scientifica che superate le 100 parti per milione di APEOs arrechino danni alla salute delle persone che indossano una giacca o una maglia. Eppure i brand che acquistano tessuti fatti con filati riciclati leggono la restrizione a senso unico e in modo sbagliato, limitando fortemente il riciclo. Inoltre, altro paradosso, quando i prodotti vengono lavati in casa gli APEOs nei tessuti aumentano, a causa dei tensioattivi presenti dei detergenti.
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A queste proteste, come rispondono i brand?
Noi siamo circa 7000 aziende del tessile e abbigliamento con un fatturato di 7 miliardi di euro: valore ridicolo rispetto a nostri clienti. Solo il gruppo Kering ne fattura 15. Bene, loro che sono colossi economici chiedono a noi che siamo piccole realtà – nonostante Prato sia il distretto più importante nel mondo per riciclo tessile – di fornire la prova scientifica che queste sostanze non facciano male alla salute. Ma secondo noi la questione va ribaltata: dateci voi una prova che rileva problemi alla salute. Ma una prova non c’è.
Cosa fa più male al Pianeta, limitare l’uso di un tessuto riciclato senza prove scientifiche che realmente faccia male? Oppure limitare il riciclo e spingere questi che potrebbero diventare prodotti nei termovalorizzatori e nelle discariche?
Come vi state muovendo per superare questa impasse?
Da anni cerchiamo di evidenziare ai brand e al legislatore questo paradosso. Abbiamo partecipato a 4 tavoli internazionali ed espresso le nostre perplessità. A ottobre Nathaniel Sponsler, direttore di AFIRM (una delle organizzazioni più influenti nel mondo della moda, alla quale aderiscono i maggiori brand di abbigliamento e calzature) è stato tre giorni a Prato e ha potuto constatare che quello che facciamo è molto virtuoso e va cambiato approccio.
Purtroppo Astri non ha un peso politico rilevante, non riusciamo a fare lobbying. Però stiamo dialogando con tutte le associazioni che rappresentano il tessile per far capire le nostre ragioni. Su alcuni temi mancano le conoscenze e per questo riteniamo opportuno, con la nostra competenza in materia, essere presenti nei tavoli dove si decide le regole del gioco.
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Avete rapporti con Sistema moda Italia?
Non direttamente, purtroppo. Forse a certi tavoli siamo scomodi. Forse in vista dell’EPR (la responsabilità estesa del produttore che affida appunto ai produttori l’onere di gestire il fine vita dei loro prodotti, ndr) promuovono un’idea di riuso e riciclo diversa dalla nostra. Sono molto preoccupato quando leggo nella Strategia europea sul tessile circolare che il riciclo occuperà 20 posti di lavoro ogni 1000 tonnellate di rifiuti: 20 persone non sono niente per fare riciclo virtuoso. Se pensiamo solo agli autisti necessari per movimentare 1000 tonnellate, 20 non sarebbero sufficienti. Per questo siamo molto preoccupati per il per riuso e il riciclo virtuoso.
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Per quanto poco se ne sappia, che idea si è fatto dei lavori in corso al ministero dell’Ambiente proprio sull’EPR per i rifiuti tessili?
Una brutta idea. Non basta affermare la responsabilità del produttore affinché riusi e ricicli. Si deve fare in modo che riuso e riciclo vengano fatti a certe condizioni.
Ad esempio, tornando alle sostanze chimiche presenti nei capi usati, con la chimica si riescono a trattare i capi eliminando o abbassando gli APEOs: ma questo non è un modo virtuoso, perché elimino un falso problema, creandone uno vero: gli APEOs eliminati dai capi finirebbero nelle acque.
Un riuso e riciclo virtuoso si può ottenere solo se a monte c’è un vero ecodesign: dipende tutto dalla progettazione. Eppure vedo molta distrazione sull’argomento.
Un EPR come si deve, si raggiunge se al tavolo si fanno sedere tutti i soggetti che rappresentano gli anelli della filiera.
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Dottor Tesi, prima di salutarci, ci faccia qualche esempio di scelte orientate all’ecodesign.
Certo. Una prima cosa è fondamentale. Sia che si usino prodotti vergini o riciclati, il capo d’abbigliamento è avvantaggiato nella via al riciclo se è prodotto con un colore unico, e non con una fantasia di colori. Questo capo avrà chance migliori, che si tratti si poliestere o di lana o dui qualsiasi altra fibra.
Secondo: è avvantaggiato il capo monocolore e monofibra. Terzo: si ricicla meglio un capo pensato per essere scomponibile. Per questo bisognerebbe inventare una cucitura che permetta di realizzare capi di diversi colori ma che a fine vita siano facilmente scomponibili, in modo che ogni pezzo possa essere utilizzato per conto suo. Questi tre fattori sono fondamentali.
L’impiantistica presente nel nostro Paese sarà in grado di gestire il flusso di rifiuti da riciclare?
Il tema è che l’impiantistica era sufficiente: anni fa erano presenti 360 filature che producevano il filo da riciclo, oggi sono 60. Ma se vogliamo possiamo tornare ad essere all’altezza, basta innescare meccanismi virtuosi: ad esempio il legislatore potrebbe eliminare l’iva sul prodotto riciclato, visto che è incostituzionale, e favorire così gli acquisti da parte dei consumatori, data la convenienza economica.
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