Dalla lozione che applichi sul viso la mattina fino al bicchiere di vino che sorseggi accompagnato dagli stuzzichini dell’aperitivo serale, che tu lo sappia o meno, hai probabilmente a che fare con la bioeconomia. Sebbene il concetto sia nato nel secolo scorso, teorizzato per la prima volta dall’economista romeno Georgescu-Roegen sulla base della legge dell’entropia, le sue recenti e molteplici applicazioni sembrano, almeno nei pronostici più entusiasti, una risposta alle sfide ambientali contemporanee, capaci di mitigare gli effetti del cambiamento climatico e ridurre l’uso di combustibili fossili.
La bioeconomia comprende e interconnette quelle attività economiche che utilizzano risorse biologiche rinnovabili della terra e del mare – come colture, foreste, pesci, animali e microrganismi – per produrre cibo, materiali ed energia. Della bioeconomia fa parte il sistema socioeconomico legato ai comparti della produzione primaria – per esempio agricoltura e acquacoltura – e i settori industriali che utilizzano o trasformano le risorse biologiche provenienti da questi comparti, come l’industria alimentare, quella della cellulosa e della carta, ma anche parte dell’industria chimica, energetica e biotecnologica. L’approccio bioeconomico mette al centro del suo modello la natura, promuove un’industrializzazione intelligente, che utilizza risorse biologiche, convertite in prodotti a valore aggiunto come cibi e bevande, ma anche bioenergie, biocarburanti, bioplastiche, servizi.
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Mai più “business as usual”
Il dibattito sulla bioeconomia rigenerativa e circolare è di grande attualità, specialmente a seguito della pandemia che ha reso chiaro a tutti, se ancora non lo fosse stato già abbastanza, che proseguire le attività economiche “business as usual” non è più una opzione perseguibile. La logica irresponsabile del profitto e lo sfruttamento insostenibile delle risorse naturali accelerano senza dubbio il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’aumento di malattie infettive, fame e disuguaglianza.
Un recente rapporto dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services ha rilevato che, a meno che l’uomo non riduca drasticamente il suo impatto sul mondo naturale, le future pandemie diventeranno più frequenti, più rapide nel diffondersi e più letali.
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Nuove opportunità di profitto
Di questo avviso è anche il World Economic Forum che nel suo New Nature Economy Report “The Future of Nature and Business” evidenzia la necessità di una trasformazione radicale di tre sistemi socioeconomici – cibo, terra e uso dell’oceano – che rappresentano circa un terzo dell’economia globale e due terzi dei posti di lavoro. Il rapporto esplora le opportunità di business della bioeconomia. La gestione sostenibile delle foreste, ad esempio, potrebbe creare 230 miliardi di dollari di fatturato e 16 milioni di posti di lavoro entro il 2030. Ancora, convertire il sistema socioeconomico energetico ed estrattivo verso modelli circolari ed efficienti sotto il profilo delle risorse potrebbe fruttare 2,3 trilioni di dollari e 30 milioni di posti di lavoro entro il 2030.
Infine, lavorare con soluzioni basate sulla natura nel sistema delle infrastrutture e delle costruzioni può generare un totale di 3 trilioni di dollari e 117 milioni di posti di lavoro entro il 2030. Come è evidente, l’obiettivo di questo approccio multidisciplinare ed eterogeneo non è solo la salvaguardia del pianeta, ma anche le nuove opportunità di business. Basti pensare che solo in Europa la bioeconomia ha un valore annuo di 2,4 trilioni di euro, mentre in Italia rappresenta il 13% del fatturato e dell’occupazione nazionale. Dopo Francia e Germania, l’Italia – che si è dotata di una Strategia nazionale per la bioeconomia e ha di recente pubblicato il suo Action plan – è il terzo paese europeo con un fatturato annuo di 330 miliardi di euro e 2 milioni di dipendenti.
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Il futuro è dei bio-materiali
Creare un’economia “positiva” per il clima e la natura non significa solo sostituire l’energia fossile con le energie rinnovabili, ma implica anche passare a materiali che facciano a meno dei combustibili fossili, sostituendo prodotti ad alta intensità di carbonio come plastica, cemento, acciaio e tessuti sintetici, con alternative a basse emissioni di carbonio.
Una tale trasformazione semplicemente non è possibile senza l’utilizzo di una nuova gamma di materiali “bio-based” rinnovabili. A titolo di esempio, oggi è possibile trasformare il legno, il materiale biologico più versatile sulla terra, in un nuovo materiale rivoluzionario chiamato nanocellulosa: cinque volte più resistente dell’acciaio ma anche cinque volte più leggero. È ora possibile anche una nuova generazione di tessuti a base di legno sostenibili e circolari con un’impronta di carbonio cinque volte inferiore rispetto alle fibre derivate dalla plastica come il poliestere.
Prodotti in legno ingegnerizzato, come il Cross Laminate Timber (CLT), potrebbero essere una soluzione efficace per ridurre l’impronta di carbonio degli edifici e del settore delle costruzioni, attualmente dominato da due materiali ad alta intensità di carbonio: cemento e acciaio. Naturalmente, per raggiungere tali risultati, è indispensabile la ricerca e l’innovazione tecnologica, oltre ad ingenti investimenti.
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Opportunità ma anche rischi
Un entusiasta delle possibilità della bioeconomia è il professor David Zilberman dell’università di Berkley, secondo il quale la maggior parte dei beni che nelle nostre economie derivano da combustibili fossili, può essere sostituita da beni provenienti da risorse rinnovabili. Secondo Zilberman, le aree rurali potrebbero diventare qualcosa di più di una semplice fonte di cibo, specialmente nei paesi in via di sviluppo. A questo proposito c’è chi fa notare che è necessario considerare anche i potenziali impatti negativi e i rischi ambientali legati ai piani d’azione della bioeconomia.
Per esempio, la produzione di bioenergia su larga scala in America Latina e nei Caraibi, dove le foreste coprono quasi la metà di tutta la superficie terrestre, è in competizione con l’agricoltura di prodotti monocolturali destinati all’esportazione, con gravi conseguenze per la biodiversità e la sicurezza alimentare dei piccoli proprietari.
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Al centro la natura
Sebbene la bioeconomia circolare sottenda tecnologia avanzata e innovazione per avere successo, il suo vero motore sembra essere la biodiversità. La biodiversità determina, infatti, la capacità dei sistemi biologici di adattarsi ed evolversi in un ambiente che cambia, e quindi è fondamentale per garantire la resilienza e la sostenibilità delle risorse biologiche. Per l’affermarsi del modello bioeconomico sarà necessario, oltre che conservare le risorse naturali, anche definire degli incentivi ad agricoltori, proprietari di foreste e aziende “bio-based” affinché reinvestano nella biodiversità.
Le risorse forestali in Europa offrono un buon esempio delle potenzialità di questo approccio: occupano più del 40% del territorio e appartengono a circa 16 milioni di proprietari di foreste. Il settore forestale comprende già circa 400mila aziende, per lo più piccole imprese, e fornisce oltre 3 milioni di posti di lavoro. Si tratta di un’infrastruttura socioecologica preziosa che deve essere riconosciuta e coltivata. È vero che estrarre, trasportare e trasformare risorse fossili come il petrolio è molto più facile che produrre, gestire, trasportare e lavorare il legno. Ma questa difficoltà è allo stesso tempo un punto di forza: ridistribuire ricchezza, posti di lavoro e infrastrutture può garantire un capitale umano pronto a prendersi cura del nostro capitale naturale.
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