Si allarga sempre di più il dibattito pubblico su come ripensare le città in cui viviamo per migliorare la condizioni di vita degli umani e di tutti gli animali che le attraversano. Ormai da diverso tempo c’è chi si chiede come progettarle in una prospettiva femminista ed ecologista ne abbiamo parlato con Leslie Kern, canadese, docente di Geografia e ambiente e direttrice degli Studi sulle donne e sul genere presso la Mount Allison University, autrice di La città femminista, la lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini e La gentrificazione è inevitabile e altre bugie, due saggi tradotti in italiano per la casa editrice Treccani, che hanno stimolato moltissimo la discussione su come vogliamo vivere.
“Esistono già visioni alternative, sia nella progettazione che nella pratica”, afferma Leslie Kern nell’introduzione di La città femminista. “Dai progetti per rendere il trasporto pubblico più sicuro per le donne alle proposte di abolire i corpi di polizia e le prigioni; attivisti, studiosi e persone comuni hanno a lungo sognato, teorizzato e praticato modi differenti di stare insieme nelle città. In effetti abbiamo tutti la capacità di creare nuovi mondi urbani – mondi urbani femministi – anche se quei mondi durano solo un momento, o esistono solo in una piccola area della città”.
Quale rapporto esiste tra urbano e rurale? Come può l’ecofemminismo suggerire altri modelli urbani ed essere parte dei cambiamenti che vogliamo e dobbiamo vedere avvenire?
I movimenti femministi contemporanei spesso ignorano il mondo rurale, anche se centinaia di milioni di donne vivono e lavorano nelle aree rurali e lì hanno organizzato i propri movimenti. È fondamentale imparare dalle donne legate agli ambienti rurali perché hanno un’immensa conoscenza del clima, del cibo, della fauna selvatica e così via. Le aree urbane ignorano queste informazioni a loro rischio e pericolo. Credo che un approccio ecofemminista ci suggerisca di abbandonare il pensiero binario rurale-urbano, natura-città, ecc. e di riconoscere l’interconnessione della vita sul pianeta.
In La gentrificazione è inevitabile e altre bugie dimostra come per cambiare la narrazione dello spazio urbano sia necessario adottare una prospettiva intersezionale (ossia l’insieme di fattori che determinano la nostra identità e la nostra posizione di svantaggio o di privilegio) e partire da un modello di città che non sia basato sullo sfruttamento, sia sociale che ambientale. Come possiamo creare una connessione virtuosa tra l’ambiente in cui viviamo e la società che costruiamo?
Credo che questo implichi vedere i cambiamenti sociali, economici e ambientali come intrecciati e di supporto l’uno all’altro, piuttosto che in competizione tra loro per le risorse. Ciò significa adottare un approccio di giustizia climatica o ambientale, che riconosca le disuguaglianze dei danni ambientali e lavori per coinvolgere le comunità emarginate nei progetti di miglioramento ambientale e di mitigazione dei cambiamenti climatici.
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Quali possono essere le pratiche che permettono di ripensare la relazione delle città con il mondo naturale e gli esseri non umani? Nelle sue ricerche hai incontrato forme alternative di interazione e cura praticate nel contesto urbano?
Il primo passo sarebbe quello di riconoscere che le città sono già ambienti “naturali” in quanto si basano sulla natura, la contengono e interagiscono costantemente con essa. I movimenti per la giustizia ambientale urbana si battono da tempo contro l’inquinamento, l’acqua contaminata e l’impatto ambientale dell’industria sugli esseri umani e non umani. Gli indigeni urbani forniscono anche esempi di come mostrare rispetto per gli elementi del mondo naturale all’interno delle città, come laghi, animali e piante.
Come scrive in La città femminista, il punto di convergenza tra città di genere e città sostenibile è spesso identificato nella mobilità pubblica. Perché? Quali sono gli altri elementi che possono dare alla città un’impronta femminista ed ecologista?
I veicoli sono una delle principali fonti di inquinamento nelle città, quindi è naturale che si presti molta attenzione alle forme di trasporto pubblico e attivo. Le donne sono già un numero di utenti maggiore del trasporto pubblico rispetto agli uomini, ma possono incontrare ostacoli nell’utilizzo di altre forme di mobilità, come biciclette, scooter e persino la camminata, a causa delle responsabilità di cura, della paura, ecc. Oltre alla mobilità, un altro settore in cui si potrebbe assistere a una convergenza è quello dell’abitare. La casa unifamiliare genera molto lavoro non retribuito per le donne e serve a nascondere la violenza e lo sfruttamento. Inoltre, non è molto sostenibile dal punto di vista ambientale. Forme abitative maggiormente condivise e variegate potrebbero contrastare entrambi i problemi.
Per rendere una città attraversabile dalle donne e dalle identità divergenti, creare percorsi illuminati è un passo importante. In molte città, però, le luci vengono spente di notte per risparmiare energia, una misura con un costo sociale alto. Come coniugare l’attenzione alla sostenibilità ambientale e una città a misura di tutt3?
Penso che si possa trovare un equilibrio e che ci siano soluzioni tecnologiche che possono aiutare, come un’illuminazione attivata da sensori di movimento o che utilizzi la tecnologia LED a risparmio energetico. Credo che l’importante sia che le decisioni su dove avere o non avere luce siano prese in consultazione con i gruppi che potrebbero essere colpiti negativamente da queste decisioni.
Quale città esistente assomiglia di più alla città che vorrebbe?
Non posso individuare una città come superiore ad altre in questo senso, ma sono incoraggiata dalla crescente disponibilità delle città a intraprendere il mainstreaming di genere, ad adottare strumenti di equità di genere nella pianificazione dei trasporti e a cercare le voci delle donne nella pianificazione per una maggiore sicurezza e inclusione.
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