fbpx
giovedì, Novembre 14, 2024

La voce delle comunità rurali e indigene, una guida per la transizione circolare

Quando si discute di crisi climatica e ambientale il dibattito si concentra sulle aree urbane, che secondo l’ONU da qui al 2045 ospiteranno i 2/3 della popolazione mondiale. Ma i 3,3 miliardi di persone che oggi abitano le zone rurali del globo sono portatori di saperi che possono essere utili al Pianeta. A partire da un maggiore senso di comunità

Simone Fant
Simone Fant
Simone Fant è giornalista professionista. Ha lavorato per Sky Sport, Mediaset e AIPS (Association internationale de la presse sportive). Si occupa di economia circolare e ambiente collaborando con Economia Circolare.com, Materia Rinnovabile e Life Gate.

Sono quasi sempre le città a finire al centro della discussione che ruota attorno all’economia circolare e alla crisi climatica. Producono, consumano e quindi inquinano di più. Tuttavia quasi la metà della popolazione mondiale, circa 3,3 miliardi di persone (il 90% di queste persone vive nei paesi in via di sviluppo), abita in zone aree rurali che nel dibattito politico sono spesso lasciate nel dimenticatoio. Il processo di urbanizzazione dalle aree rurali alle città è sempre più rapido: secondo l’ultimo rapporto delle Nazione Unite the World Urbanization Prospects 2018, ogni anno circa 76 milioni di persone – l’1% della popolazione mondiale – lascia le campagne per trovare nuove opportunità in città. La previsione è che nel 2045 due persone su tre nel mondo vivranno in città. Un fenomeno migratorio preoccupante se si considera che la causa principale di questa migrazione è il clima.

Le sfide delle comunità rurali

Dipendenza dall’agricoltura e risorse naturali; alto tasso di povertà, isolamento e marginalità. Il report Ipcc sulle aree rurali ha individuato quali sono le caratteristiche che rendono queste terre particolarmente vulnerabili a eventi climatici estremi. Fenomeni che paradossalmente colpiscono di più le aree meno responsabili del surriscaldamento globale. Dall’altro canto, le popolazioni rurali in molte parti del mondo si sono adattate, su scale temporali lunghe, alla variabilità climatica, o almeno hanno imparato ad affrontarla attraverso pratiche agricole, l’uso di risorse naturali e la diversificazione dei mezzi di sussistenze. Nel corso dei millenni sono state soprattutto le popolazioni indigene a tramandare un prezioso know-how di adattamento all’ambiente in cui vivono. “Il nostro modo di vivere è strettamente connesso alla natura – interviene Natan Obed presidente National Inuit Representative Organization Canadese al World Circular Economy Forum 2021 – tradizionalmente gli Inuit si prendono cura degli animali per mantenere la biodiversità dell’ecosistema intatta. Vivendo a stretto contatto con le vaste terre dell’Artico ci siamo accorti della crisi climatica molto presto. L’artico si sta riscaldano il doppio più velocemente rispetto al resto del mondo e necessita dalla comunità globale maggior considerazione – continua Obed – e con questo parlo di politiche, programmi e servizi. Anche perché l’Artico funge da bilancia e se non agiamo urgentemente le conseguenze saranno terribili, per tutti”.

Leggi anche: I legami tra aree interne ed economia circolare. “Col Covid si è rilevata la scelta più efficiente per i paesi”

L’antica circolarità degli indigeni e il problema rifiuti

Le comunità rurali stanno soffrendo di cattiva gestione dei rifiuti in tutto il mondo (discariche a cielo aperto, incenerimento di rifiuti tossici, discariche fluviali, inquinamento da plastica, ecc.) a causa della mancanza o dello scarso accesso a sistemi di gestione efficienti. “Creare rifiuti non è mai stato parte della nostra cultura – dice Lisa Quiluqqi Kuperqualk vice-presidente dell’Unuit Circumpolar Council – e abbiamo difficoltà a gestirli perché non abbiamo depositi. Anche se viviamo in una parte desolata del pianeta – la nostra economia è ancora molto dipendente tanto dall’importazione di beni e quindi dipendiamo dalle navi merci internazionali”. Gli Inuit – nativi del Canada artico, Groenlandia, Siberia e Alaska – mettono in pratica principi circolari da molto tempo: un esempio è il kayak. “Rimane un importante mezzo di trasporto per scopi sociali e di caccia -continua Lisa Kuperqualk- ed è composto da materiali locali sostenibili e riutilizzabili, come il guscio impermeabile in legno tradizionalmente ricoperto di pelli di foca o di caribù (renna del nord america)”.

 Il senso di comunità può fare la differenza

Massimizzare le risorse naturali nelle zone rurali è uno delle sfide secondo Oriana Romano Head of Unit, Water Governance and Circular Economy all’OECD. “Il 70% della popolazione vivrà nelle città, ma non dobbiamo dimenticarci del restante 30%. Le città stanno continuamente sperimentando iniziative e servizi circolari spostando i consumi dal concetto di proprietà ai servizi. D’altra parte le comunità rurali possono contare su asset di risorse naturali da cui far dipendere la propria l’economia”. Efficienza idrica, energetica sono fondamentali ma c’è anche una componente sociale da diffondere. “Il senso della comunità è più forte e in queste zone prendersi cura dell’ambiente è più facile– sottolinea Oriana Romano –. La fiducia reciproca tra le persone e la simbiosi con l’ambiente hanno impatti positivi anche sul benessere degli abitanti”.

Leggi anche: Pnrr, un patto tra città e aree interne per la transizione ecologica. L’analisi dell’Uncem

I casi studio

Resilienza è un concetto che ritorna spesso quando si parla di comunità. Resiliente è sicuramente l’atteggiamento di Deita Silvoe Yameogo Bassono che in uno sperduto paesino del Burkina Faso gestisce il National Biodigester Programme finanziato dalla World Bank. “Abbiamo sviluppato un sistema che permette di utilizzare i rifiuti organici compostabili per bisogni agricoli – spiega Deita Bassono- già 20 mila persone hanno accesso a questo programma”. Maria José Gonzalez è invece la coordinatrice del progetto BiovalorGenerating Value with Agroindustrial Waste” supportato dall’Onu per lo sviluppo industriale dell’Uruguay. “Il Ministero dell’Industria e dell’Energia ha proposto questo progetto per valorizzare i rifiuti dell’industria agricola – dice Maria Josè Gonzales – e sappiamo che la termovalorizzazione agroindustriale non è sostenibile. La governance nel nostro caso ha giocato un ruolo cruciale”. Un altro progetto interessante selezionato al World Circular Economy forum per il suo valore anche sociale è quello di SukkhaCitta chein Indonesia offre alle artigiane locali un percorso di formazione per acquisire competenze commerciali, design e tintura naturale. “Dal 2020, lavoriamo con agricoltrici indigene per una fattoria rigenerativa – afferma Denica Riadini-Flesch fondatrice del progetto – piantando un mix diversificato di piante intorno alle piante di cotone e indaco. Un processo che riproduce l’ecosistema forestale indonesiano e ristora la qualità del suolo, riducendo i parassiti in modo naturale”. L’iniziativa permette anche alle donne del piccolo villaggio di Medono di guadagnarsi da vivere, cosa molta rara per chi nel sud est asiatico produce vestiti artigianalmente.

© Riproduzione riservata

spot_img

POTREBBE INTERESSARTI

Ultime notizie