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domenica, Dicembre 15, 2024

Crisi del Mar Rosso, costi ambientali oltre che economici

Gli attacchi degli Houthi yemeniti alle navi cargo che per raggiungere l’Europa passano attraverso il Mar Rosso hanno fatto schizzare i prezzi dei trasporti dall’oriente, rallentato i flussi commerciali mondiali ma anche contribuito alla crisi climatica

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

I primi effetti che vengono misurati di una crisi sono, in genere, quelli economici, e la crisi del Mar Rosso non fa differenza. Ma le ricadute sulle imprese e sull’economia sono solo un pezzo delle conseguenze degli attacchi Houthi alle navi cargo (non tutte), che dall’Oceano Indiano e dal Golfo di Aden attraverso il canale di Suez raggiungono il mediterraneo e poi l’Europa settentrionale. L’alto effetto molto preoccupante, di cui si parla poco, e quello sulla crisi climatica.

Delle cause degli attacchi dei ribelli yemeniti alle navi in transito nel Mar Rosso si è scritto moltissimo: gli Houthi, come forma di ritorsione verso la reazione di Israele all’attacco del 7 ottobre, hanno iniziato a colpire le navi dei Paesi che ritengono appoggiare la politica e le iniziative ebraiche. La conseguenza di questi attacchi, anch’essa ampiamente descritta, è un parziale riassetto del commercio mondiale. Secondo le Nazioni unite il Canale di Suez rappresenta tra il 12 e il 15% del commercio globale e circa il 20% del commercio di container. Questo mare chiuso è ancora più rilevante per il mercato dell’energia: il 12% del petrolio scambiato e l’8% del gas naturale liquefatto (GNL) passano da lì. Per l’UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, l’impatto maggiore della crisi è sulle navi da trasporto di GNL, che dal 16 gennaio si sarebbero fermate del tutto.

Le conseguenze di questo collo di bottiglia vanno valutate alla luce del ruolo sempre crescente che i trasporti transcontinentali hanno assunto da quando, a partire dagli anni ’80, l’Occidente industrializzato ha deciso di appaltare la produzione dei beni ai Paesi economicamente emergenti, Cina in primis, e puntare sulla globalizzazione delle catene di fornitura.

Anni difficili per il trasporto globale

Come ricorda Trade Finance Global (TFG), piattaforma per il commercio, il mondo dei trasporti globali ha passato anni difficili. Riassumiamo gli eventi che più duramente hanno colpito il settore e, a cascata, il commercio e l’intera economia mondiale. Innanzitutto, ovviamente, il COVID-19, cheha creato il caos a tutti i livelli del commercio internazionale e delle spedizioni”. Poi il conseguente aumento dei costi di spedizione e la forte dipendenza dai sistemi just in time (la riduzione sistematica delle scorte puntando su un sistema di fornitura, appunto, ‘appena in tempo’, ndr) che “hanno afflitto il commercio globale”. Ancora. “La guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina continua a ostacolare il commercio internazionale e la guerra tra Russia e Ucraina ha creato problemi sostanziali con il commercio delle materie prime e la navigazione nel Mar Nero”. Nel 2021, la nave cargo Ever Given è rimasta bloccata nel Canale di Suez per sei giorni, causando ritardi “che sono costati oltre 10 miliardi di dollari di scambi al giorno”. E oggi la crisi scatenata dagli Houthi, in conseguenza della quale 12 compagnie di navigazione, oltre a numerose aziende, hanno sospeso le attività nel Mar Rosso, scegliendo di deviare i loro viaggi intorno al Capo di Buona Speranza in Sudafrica.

Secondo il rapporto Trade Capacity Outlook di Sea-Intelligence, società di ricerca e consulenza con sede in Danimarca, “con il caso ‘Ever Given’ come unica eccezione, questo della crisi del Mar Rosso è l’evento singolo più grande, persino più grande dell’impatto della prima pandemia”.

Crisi mar rosso ambiente
Fonte: Sea-Intelligence

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Non Suez ma Capo di Buona Speranza

Gli ultimi dati raccontano che i maggiori spedizionieri mondiali – come Maersk, MSC, Evergreen – hanno deciso (anche su consiglio di alcuni Stati, come gli USA) di tenersi alla larga dalle acque del Mar Rosso. Clarksons Research, che si occupa di Servizi di ricerca marittima e navale, sostiene che il numero di navi da carico nel Mar Rosso è diminuito del 90% rispetto al 2023.

Basta un colpo d’occhio sulla carta geografica per avere un’idea di quanto il tragitto per il Mediterraneo si allunghi circumnavigando l’Africa. Ma i dati sono più implacabili. Ancora secondo Trade Finance Global, “il viaggio intorno al Capo di Buona Speranza aggiungerà all’incirca 10 giorni, 13.000 km e 1 milione di dollari di costi per viaggio”. Pe Anne-Sophie Fribourg di Zencargo, azienda globale di servizi per la logistica, “la deviazione delle navi attraverso il Capo di Buona Speranza ha aumentato i tempi di transito di 10-20 giorni, a seconda delle dimensioni delle navi. A Zencargo stiamo osservando aumenti delle tariffe che vanno dal 90% al 300% rispetto ad appena un mese fa, un’impennata significativa. Tutti questi disagi porteranno a ulteriori ritardi e congestioni nei porti mentre la crisi è in corso”.

Prima del primo attacco Houthi, nell’ottobre 2023, i prezzi dei container erano di 1.004 dollari (Shanghai-Rotterdam) e 1.344 dollari (Shanghai-Genova). Il mese scorso i prezzi erano saliti a 3.577 e 4.178 dollari.

Crisi mar rosso ambiente
Fonte: Sea-Intelligence

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Le conseguenze ambientali della crisi del Mar Rosso

Più miglia marine da percorrere significa, ovviamente, più i rischi di problemi meccanici e di condizioni meteorologiche avverse. E di pirateria, che, stando agli analisti, è più comune lungo le acque dell’Africa rispetto al Mar Rosso.

Ma più giorni di navigazione significa anche più carburante bruciato dai ciclopici motori di questi pachidermi del mare. Perché la linea di navigazione del Mar Rosso attraverso il Canale di Suez è il modo più breve, economico ed efficace per collegare l’Asia e l’Africa all’Europa. Adam Hearne, CEO e co-fondatore di CarbonChain (che misura le emissioni di carbonio della catena di fornitura delle imprese), riferisce che una rotta comune, da Shanghai a Rotterdam, di una nave portarinfuse media “potrebbe registrare un aumento delle emissioni di circa il 30% passando per il Capo di Buona Speranza, rispetto alla rotta del Canale di Suez”.

Entra nel dettaglio Alan Murphy, Ceo di Sea-Intelligence: “Ci sono tre elementi da considerare: aumento delle emissioni dovuto a distanze di navigazione più lunghe, potenziali aumenti dovuti a velocità di navigazione più elevate (per mantenere partenze settimanali) e eventuale passaggio da navi di grandi dimensioni a navi più piccole e meno efficienti in termini di consumo di carburante”. Se le compagnie di navigazione utilizzassero esattamente le stesse navi, alla stessa identica velocità, afferma l’esperto, “le emissioni aumenterebbero in proporzione lineare con l’aumento delle distanze di navigazione. Poiché le distanze di navigazione dall’Asia verso Nord Europa e Mediterraneo sono, circumnavigando l’Africa, in media più lunghe del 31% e del 66% rispettivamente, le emissioni di CO2 aumenteranno almeno in questa percentuale” ha spiegato Murphy. Ma probabilmente le portacontainer non si limiteranno a cambiare rotta. “Se le navi navigano più velocemente, le emissioni aumenterebbero ulteriormente, poiché il consumo di carburante non è una funzione lineare della velocità di navigazione. Ad esempio, sulla base del nostro modello di consumo di carburante, un aumento di 1 nodo della velocità da 16 a 17 nodi aumenterà le emissioni del 14%”. Ma non finisce qui: per compensare i tempi dilatati delle consegne, le compagnie di navigazione mettono in campo altre imbarcazioni. “Vediamo così navi più piccole e meno efficienti in termini di carburante impiegate sulle tratte Asia-Europa”. Che, in alcuni casi, ”registrano un aumento delle emissioni di CO2 del 141%, rispetto agli Ulcv convenzionali (Ultra large container vessel, ndr)”. Tirando le somme “mettendo insieme tutti e tre i componenti, si potrebbe arrivare ad un aumento delle emissioni di CO2 del 260% e del 354%, rispettivamente per quel che riguarda le rotte mediterranee e quelle nordeuropee” ragiona il CEO di Sea-Intelligence.

La necessità di riprogrammare le spedizioni va considerata anche alla luce del fatto che a partire dal 1° gennaio 2024, le emissioni marittime sono incluse nel sistema di scambio di emissioni (ETS) dell’Unione Europea per le navi che fanno scalo nei porti dell’UE. Quindi “rotte più lunghe significheranno tasse più elevate per le navi che successivamente faranno scalo nei porti europei”, sottolinea alla CNBC Gabrielle Reid di S-RM, società di consulenza globale sulla logistica. E poi, aggiunge, c’è l’impatto che il cambio di rotta avrà sulle emissioni Scope 3 (quelle legate alle attività a monte o a valle della filiera di fornitura di un’azienda) dei proprietari dei carichi.  “Con il trasporto marittimo responsabile del 2-3% delle emissioni globali – contestualizza Hearne di CarbonChain – questa escalation rappresenta un’ulteriore sfida agli obiettivi di decarbonizzazione del settore, che sono già fuori strada (secondo Agenzia internazionale per l’energia). Non riguarda solo gli operatori navali, ma anche le aziende che commerciano merci attraverso queste rotte, che si trovano ad affrontare l’aumento dei costi del carburante e le pressioni per affrontare le emissioni della loro catena di approvvigionamento”.

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