Ripensare la città con uno sguardo nuovo, che parta da un linguaggio più ampio per arrivare ai diversi comparti che possono fare dei posti che viviamo, luoghi di benessere per tutte e tutti. Da questi presupposti si è mosso il convegno Città e design di genere. Linguaggio inclusivo, organizzata a Roma, all’Europa Experience, dall’associazione Donna, immagine città lo scorso 22 marzo.
All’interno dell’evento che ha trattato in maniera estesa, e attraverso più panel, le diverse sfumature che riguardano la città e la presenza delle donne all’interno di essa partendo dal linguaggio, sono emersi spunti interessanti per quel che riguarda nello specifico l’urbanistica e le connessioni con il paesaggio, il verde pubblico e la viabilità ciclabile e pedonale: tutti aspetti strettamente connessi con il tema della conversione ecologica che necessitano però di un dialogo con le tematiche di genere.
Aree verdi più sicure
“Quando ragioniamo come progettisti e pianificatori delle città – ha detto nel corso dell’evento Barbara Negroni, consigliera nazionale CONAF Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali – dobbiamo farlo in modo più complesso”.
Oltre ad alcuni aspetti tecnici che riguardano ad esempio le piante da introdurre nelle aree verdi, gli interventi di depavimentazione e tutte quelle opere messe in campo per far fronte ed evitare le isole di calore, ci sono altri considerazioni da fare per rendere la città accogliente per tutte e tutti.
“Se abbiamo bisogno di aree verdi e piazze, come spazi interconnessi tra di loro, abbiamo anche la necessità che la città diventi il più possibile vivibile da un punto di vista della sicurezza. Siamo abituati ad avere un’urbanistica e un disegno della città che vede una mobilità lineare, molto veloce, perché fatta più per gli uomini che compiono il tragitto casa-lavoro. Viceversa, le donne si muovono in maniera trasversale nella città perché fanno tante cose: lavorano ma portano anche bambine e bambini a scuola, fanno la spesa, si occupano del lavoro di cura delle persone anziane”.
“A Casalecchio di Reno – dove Negroni è assessora alla Qualità dell’Ambiente e del Territorio – abbiamo fatto un’analisi di quella che è la mobilità ciclabile delle persone che vanno a lavorare in bicicletta: abbiamo così visto che gli uomini seguono le piste ciclabili in maniera retta sempre seguendo le strade principali, le donne invece vanno attraverso le piste o camminando all’interno delle città, per raggiungere i luoghi di destinazione”.
“Nel ripensare le aree verdi non dobbiamo quindi considerare solo le specie più adatte per le alte temperature, che permettano di fare ombra, ma dobbiamo andare anche a ragionare sul loro disegno per dare trasparenza, così che siano anche permeabili alla vista perché quando le attraversiamo, dobbiamo avere una percezione di sicurezza. Nel momento in cui riusciamo a dare una trama verde alla città, che sia connessa e trasparente di fatto diventa una città sicura”.
Quella della connessione delle aree verdi, come fa notare anche Negroni, è anche un tema di equità sociale: poter usufruire di aree verdi connesse tra loro attraversi piste ciclabili o percorsi pedonali è infatti un diritto fondamentale di tutti, e non deve restare solo appannaggio di chi vive nei quartieri più avvantaggiati della città, magari perché maggiormente centrali.
E se l’esperienza di urbanistica di genere a Bologna, già raccontata su EconomiaCircolare.com, o la riprogettazione in corso a Casalecchio di Reno possono rappresentare degli esempi positivi in cui lo spazio urbano torna ad essere attraversato dalle persone, in modo più consapevole e sicuro e le aree verdi si riprendono il giusto spazio, l’altro lato della medaglia vede l’Italia detenere il record di consumo di suolo in Europa, con la cementificazione di 2,4 metri quadrati al secondo, secondo l’ultimo report sul consumo di suolo dell’Ispra relativo al 2023.
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Il terzo paesaggio
“Nel suolo – ha spiegato Daniela Ducato, innovatrice green e Cavaliere della Repubblica per meriti ambientali – c’è il nostro futuro biologico, e il nostro futuro biologico è proprio nel terzo paesaggio, cioè in quegli spazi in natura che non disegniamo noi”.
Con l’espressione terzo paesaggio, coniata da Gilles Clément, scrittore, architetto paesaggista ed ingegnere agronomo francese, si intende infatti un luogo che non subisce la progettazione umana, la cui evoluzione è determinata dall’insieme degli esseri biologici che vivono al suo interno. Questi luoghi sono situati ai margine di boschi, strade, fiumi, possono essere di dimensioni modeste, come il bordo di un campo, o il margine di una strada, o più estesi, come un terreno abbandonato dopo lo sfruttamento, ma anche un’ex cava o ex aree industriali dove la natura si è riappropriata dei propri spazi. Questi luoghi non sono spesso considerati dall’opinione pubblica e dalle amministrazioni e sono spessi i primi ad essere sacrificati, asfaltandoli o abbandonando rifiuti, fino a divenire delle vere e proprie discariche a cielo aperto.
Ducato ha presentato invece il caso virtuoso del Comune sardo di Guspini (Sud Sardegna), il primo in Italia, dove un paesaggio, anzi proprio un terzo paesaggio, ha ottenuto la certificazione di risorsa sanitaria. Il comune, la cui area industriale aveva già ricevuto la certificazione pesticidi free, è stato infatti interessato da un progetto ideato da Ducato stessa, che vede in campo un team di ricerca scientifica con il comune di Guspini, l’Associazione Italiana di medicina forestale, in collaborazione con la Confcommercio Green, università e privati, e si basa sui benefici sulla salute umana apportati dalle medicina forestale, come: abbassamento della glicemia, aumento della concentrazione e dell’attenzione, rilassamento mentale e contrasto dell’insonnia, riequilibrio del tono dell’umore, stimolazione del sistema psiconeuroendrocrino e immunitario.
Come ha spiegato l’esperta si tratta di un riconoscimento già avvenuto per parchi e giardini ma mai per un terzo paesaggio, quindi per un paesaggio marginale e periferico dove la natura fa da padrona. Ciò a cui spesso non si pensa di queste aree è infatti che non hanno bisogno di essere innaffiate o concimate, ma conservano una preziosissima biodiversità: “Nessun paesaggista al mondo riesce a fare quello che fa la natura”.
Il modo in cui chiamiamo le cose, si sa, è legato a doppio filo alla percezione che ne abbiamo, e anche per questi luoghi c’è, secondo Ducati, un bias cognitivo: “Spesso sentiamo distanti questi paesaggi, li vediamo brutti, sporchi e cattivi: così consumiamo e maltrattiamo con il nostro linguaggio questi straordinari luoghi di biodiversità, per altro utilizzando un linguaggio violento, che spesso coincide con quello che si ha nei confronti delle donne”.
Oltre al lavoro con medici, botanici e biologi, a Guspini si è fatto un lavoro anche sulla toponomastica, con l’intento di ridare dignità e identità alle zone industriali. Si sono intitolate 50 strade a donne: “non solo a donne famose ma a donne che hanno infranto tabu, regole, innovatrici, scienziate, ma anche casalinghe, lavandaie, parrucchiere, donne di tutto il mondo che ci hanno aperto delle strade di pensiero. Sono donne non sono nei libri di scuola ma le loro storie sono scritte nei nostri terzi paesaggi”.
Quella della toponomastica di genere è un tema ricorrenti negli ultimi anni, anche perché rappresenta una nota dolente all’interno delle nostre città. Dopo aver esaminato i nomi di 155.468 strade in 32 grandi città europee, situate in 19 Paesi diversi, la piattaforma Mapping Diversity, sviluppata da Sheldon Studio e voluta da Obc Transeuropa con altri partner dell’European data journalism network, ha rilevato che oltre il 90% delle strade intitolate a persone sono dedicate a uomini bianchi.
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