Economista, co-fondatore di Sustainability-lab.net, il primo social network italiano delle sostenibilità nella filiera della moda, è amministratore di Blumine srl, società di specializzata in progetti di sostenibilità per l’industria della moda, e autore di saggi e articoli accademici (da ultimo “Neomateriali nell’economia circolare: Moda”, Edizioni Ambiente, 2017): con Marco Ricchetti parliamo di Ecodesign nella filiera tessile.
Dottor Ricchetti, secondo lei quali sono i punti essenziali da tenere presente in ottica circolare prima di produrre un tessuto o un capo d’abbigliamento?
Quando si parla di ecodesing oggi ci sono tre temi da tenere in considerazione. Quello più presente è il design for recycling, dietro cui c’è l’idea che la riciclabilità di un prodotto dipenda strettamente da come è progettato. La seconda tematica riguarda le sostanze chimiche pericolose: mantenere in circolo e riciclare sostanze tossiche che possono danneggiare la salute delle persone non è una buona idea. Terzo elemento è il progettare capi che generino una quantità di scarti minima, questo è un tema molto diffuso a livello tecnico e accademico.
Quali sono gli aspetti critici del design for recycling?
Un aspetto riguarda il numero dei materiali che compongono il tessuto. Il riciclo di capi che sono fatti da più fibre è costoso e a volte impossibile. Ecco perché in questa fase di accelerazione circolare sta diventando un elemento importante la scelta del monomateriale.
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Ci può fare un esempio di tessuto composito difficile da riciclare?
La presenza di fibre sintetiche come poliestere e nylon rende complicato il riciclo attraverso tecnologie termomeccaniche. In generale ci sono diverse tecnologie di riciclo: esistono impianti pilota di riciclo chimico che riescono a separare la parte di cotone e quella sintetica. Quello meccanico prevede un processo a bassa impronta carbonica ma ha il gigantesco svantaggio che ad ogni passaggio riduce la qualità della fibra. Un filato già riciclato difficilmente può essere riciclato una seconda volta.
Ha citato l’impronta carbonica. A colpi di indici e LCA, nel tessile è nata una vera e propria guerra della sostenibilità tra fibre naturali e fibre sintetiche. Lei da che parte si schiera?
Da nessuna parte. Trovo questa lotta sbagliata dalla radice e controproducente. Quando in Europa si comincia con l’introduzione di policy, incentivi e agevolazioni fiscali che possono spingere verso una direzione o l’altra, è naturale che nascano conflitti interni alla filiera. Poi vengono creati indici come Higg e il PEF (Product Environmental Footprint) che diventano strumenti di politica.
Non trovo alcun senso nel decidere se il cotone è più sostenibile del poliestere. Se voglio un prodotto di elevata perfomance è inevitabile andare sulle fibre sintetiche con elevata traspirabilità. Lo stesso vale per la seta e viscosa: non si possono paragonare, dipende dai contesti. Il punto è sviluppare i processi che rendano il cotone più sostenibile o qual è il modo per rendere circolare il poliestere.
Quindi non possiamo fare a meno di fibre sintetiche di origine fossile?
Ad oggi circa 2/3 di tutte le fibre utilizzate nel tessile sono sintetiche. Lei si può immaginare sostituirle tutte con fibre naturali come canapa, seta, lana ecc. ? Vorrebbe dire che la terra coltivabile dovrebbe moltiplicarsi per tre e purtroppo non ne abbiamo. O c’è una legge che ci impedisce di comprare più di una t-shirt all’anno oppure non c’è modo.
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Ridurre la produzione e il consumo non aiuterebbe?
Neanche riducendo del 20% si potrebbero sostituire completamente le fibre sintetiche. Bisogna puntare sulle fibre sintetiche prodotte con energia da fonti rinnovabili, con caratteristiche di durabilità e che siano riciclate. Gli ultimi dati che ho letto dicevano che il 15% del poliestere prodotto è riciclato, purtroppo dalle bottiglie di Pet, ma si arriverà anche alla chiusura del cerchio.
A proposito di riduzione, la strategia sul tessile ha dichiarato il fast fashion fuori moda…
I principi della strategia sono quelli giusti. Il design di un prodotto moda ha una storia secolare ed è sempre stato dominato da alcuni trend o regole: abbiamo vissuto la fase del “cambiamento per il cambiamento” per una questione estetica, poi si è passati alla tendenza di produrre capi con costi del lavoro bassi. Oggi si tratta di introdurre nel settore delle tecniche di progettazione ambientale, ma anche di consapevolezza da parte degli stessi designer. Ma c’è un altro punto cruciale…
Quale, ci spieghi ?
C’è un problema di formazione. Non ci sono degli indirizzi di studi e dei corsi, siamo in una fase in cui è difficile trovare anche dei docenti che insegnino queste cose. Oggi è complesso trovare competenze per un approccio circolare al tessile, anche tra i designer più attenti alla sostenibilità.
Secondo la sua esperienza qual è il raggio d’azione per le grandi imprese e le piccole medie imprese, ci sono differenze che possano frenare l’eco design?
Se dovessi elencare le aziende che hanno regole e linee guida per l’ecodesign non me ne viene in mente nessuna. C’è qualche grande azienda che ha promosso alcuni capi con determinate caratteristiche di riciclabilità come per esempio Nike, ma più per marketing e comunicazione. Vedo che ci sono delle indicazioni rivolte ai progettisti e all’ufficio stile sicuramente sul tema delle sostanze chimiche, invece sulla riciclabilità si vede qualcosa ma ancora a mo’ di “marchetta”. Le pmi possono svolgere la funzione di laboratorio per sperimentare tecniche di progettazione e selezione del materiale, mentre i grandi marchi possono influenzare tutto il sistema moda con le loro scelte circolari.
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