Quando Tina Rosenberg, insieme al collega David Bornstein, cominciò a curare la rubrica “Fixes” sul New York Times aveva un’idea precisa di qual era l’obiettivo e la sua visione di giornalismo. Per undici anni, i due giornalisti hanno raccontato fatti e problemi della società da un’angolatura diversa: superare la convinzione che la notizia è tale solo quando è una “cattiva notizia” e sottolineare, invece, gli sforzi messi in atto dalle persone per risolvere questi problemi.
Individuando una nicchia dove ben presto molte lettrici e lettori si sono sentiti più a loro agio. “Sono rimasta sorpresa – ha raccontato Tina Rosenberg nell’ultima rubrica apparsa su ‘Fixes’ – dalla frequenza con cui le storie che abbiamo scritto su questioni difficili o inquietanti: bullismo, povertà, affidamento dei figli o depressione, sono apparse nella classifica degli articoli più popolari del giornale. I lettori condividevano le storie con i familiari e gli amici direttamente interessati da questi problemi, o si mettevano in contatto con le associazioni intervistate per saperne di più”.
Dopo oltre 600 pubblicazioni, un network mondiale dedicato (Solutions Journalism Network) e inchieste in tutto il mondo, Tina Rosenberg è sicuramente il punto di riferimento e la più famosa rappresentante di questo nuovo giornalismo delle soluzioni. Oggi non si può certo definirlo un prodotto editoriale di nicchia, come spiega immediatamente a Economia circolare.com, che l’ha contattata via email per chiederle cosa resti, oggi, di quell’esperienza.
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Come si è evoluto il solution journalism negli ultimi anni? Come potrebbe diffondersi maggiormente sui quotidiani?
Il giornalismo delle soluzioni è cresciuto enormemente in dieci anni. Ciò è in parte dovuto al contesto attuale. Il giornalismo è una professione molto codificata nelle regole, ma sta attraversando una crisi economica ed esistenziale. Sappiamo che per guadagnare la fiducia delle nostre comunità e mantenere vivo il giornalismo, dobbiamo essere aperti a nuove idee.
Negli Stati Uniti si è cominciato a parlare di solution journalism nel 2013, quando è nato il Solutions Journalism Network. Oggi questo approccio alla notizia è praticato abitualmente da tantissimi colleghi ed è familiare a molti – forse alla maggior parte – dei giornalisti. Ecco una misura di quanto sia cresciuto il giornalismo delle soluzioni: nel 2015 cercando su Google “solution journalism” apparivano 2.000 voci. Nel 2019 erano 8.000. Nel 2021 erano 343.000. Oggi sono più di un milione.
E il giornalismo delle soluzioni si è diffuso in tutto il mondo. Perché il giornalismo sta soffrendo di problemi simili nella maggior parte dei Paesi, quindi tanti giornalisti riconoscono l’esigenza di cambiare narrazione. Ci sono associazioni di giornalismo delle soluzioni a Bonn, Amsterdam, Praga, Cartagena, Abuja, Nairobi, Sydney e Toronto. Proprio questa settimana abbiamo ricevuto lettere di interesse a unirsi al network dall’Ucraina e dalla Mongolia.
Qual è la copertura mediatica riservata dal solution journalism al cambiamento climatico?
C’è un enorme interesse oggi tra i giornalisti e le fondazioni filantropiche sulle tematiche ambientali, e il giornalismo delle soluzioni sta crescendo ulteriormente e in maniera rapida in questo ambito. Ho cercato nel nostro Solutions Story Tracker “storie sulla mitigazione climatica”. Sono apparsi 199 articoli. Queste storie provengono da varie testate giornalistiche in tutto il mondo e sono raccolte nel database del Solutions Journalism Network.
Quale può essere il contributo del solution journalism nel raccontare la crisi climatica oltre all’emergenza che stiamo vivendo?
La questione climatica necessita disperatamente di soluzioni da parte del giornalismo in questo momento. Concentrarsi solo sulle cattive notizie sul cambiamento climatico è stato controproducente. Al giorno d’oggi non abbiamo bisogno che il giornalismo ci dica che il cambiamento climatico è una minaccia: il cambiamento climatico si sta raccontando da solo. L’attenzione esclusiva alle cattive notizie ha trasformato molte persone in “pessimisti climatici”, scoraggiando l’azione. Ha creato una crisi globale di ansia climatica, soprattutto tra i giovani.
Quindi dare risalto ai problemi legati al cambiamento climatico ha un effetto negativo sui lettori perché scoraggia all’azione?
Non sto dicendo che non dovremmo riportare le cattive notizie sul clima, o dipingere un quadro troppo roseo di ciò che si può fare. Sto solo dicendo che dobbiamo correggere l’equilibrio. Esistono soluzioni: e lo dimostrano ogni giorno i singoli individui, le imprese, intere nazioni. Dobbiamo parlare anche di questo.
E quando non c’è una soluzione?
Quando non c’è una soluzione, il giornalista lo ammette. In questi casi, tuttavia, generalmente il modo migliore di trovare una storia per un giornalista delle soluzioni è prendere il grande problema e dividerlo in tante piccole fette. Ognuna è una parte importante del problema principale: quindi va a cercare le specifiche soluzioni a ogni fetta, che messe assieme contribuiscono ad avere una visione d’insieme migliore del problema più grande.
La crisi climatica però è un problema globale su larga scala. Non le sembra ci sia una contraddizione alla base?
Assolutamente no. Ci sono decine di storie con un punto di vista globale o che possono rappresentare potenziali soluzioni su larga scala ovunque si debbano affrontare le stesse problematiche. Per esempio National Geographic ha raccontato come gli agricoltori della Africa sub-sahariana sono riusciti, accudendo i pochi alberi rimasti nelle zone desertiche, a rivitalizzare le aree e far crescere 200 milioni di nuovi alberi, grazie all’effetto fertilizzante delle foglie e alla maggiore umidità. O come le donne del Nepal siano riuscite ad amministrare meglio di chiunque altro le foreste unendo la cura dell’ambiente alla sostenibilità sociale dei lavoratori. O ancora: come grazie all’impegno di tutta la comunità il Belize sia riuscito a salvare e preservare le barriere coralline.
Come si posiziona il giornalismo delle soluzioni in relazione alle divisioni politiche sui temi ambientali? Fa una chiara scelta di campo verso quelle che reputa siano le soluzioni? E come può garantire, allora, l’obiettività del lavoro giornalistico?
Il giornalismo delle soluzioni non “supporta” nulla, né “si schiera” dalla parte di nessuno. Lo scopo del giornalismo delle soluzioni è esaminare le risposte ai problemi con rigore giornalistico. Per evitare la percezione di valor supportare una causa, il giornalismo delle buone soluzioni segnala sempre i limiti della risposta: cosa non funziona al riguardo? Quali sono le sfide? E non cerca mai di prevedere il futuro: il giornalista racconta cosa funziona nella soluzione sulla base di quello che i dati e i fatti permettono di affermare.
È anche importante contestualizzare la soluzione. Il giornalismo delle buone soluzioni non direbbe mai “questa è la soluzione”. In parte perché non esiste un’unica soluzione, anzi, a volte ce ne sono molte. In parte perché non è compito del giornalista scegliere i vincitori. Il giornalismo delle soluzioni direbbe semplicemente “ecco cosa sta facendo qualcuno per risolvere un problema e i risultati che sta ottenendo”. Il giorno successivo, il giornalista potrebbe scrivere un’altra storia parlando di una soluzione diversa allo stesso problema.
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