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giovedì, Novembre 14, 2024

I centri del riuso, esempi concreti di economia circolare e solidale

Perfettamente in linea con le direttive europee ma ancora quasi clandestini e lasciati in un limbo normativo che ne soffoca le potenzialità ambientali, sociali, economiche. Un viaggio nel mondo dei centri italiani del riuso. A temi come remanufacturing, rigenerazione e riuso il Laboratorio Ref Ricerche dedica un approfondimento in uscita il 23 marzo, da cui prende le mosse questo articolo

Antonio Pergolizzi
Antonio Pergolizzi
PhD in Scienze Sociali, laurea in Scienze Politiche e master in Relazioni Internazionali. Analista ambientale, esperto di (eco)mafia e corruzione e in genere di Compliance e Public Affaires, è Advisory per Ref Ricerche e consulente di enti pubblici (tra cui il Commissario Straordinario per le bonifiche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e privati. È membro dell’Osservatorio Antimafia della Regione Umbria, insegna e fa ricerca in diverse università e svolge docenze in numerosi master e percorsi formativi, sia accademici che professionali. Dal 2006 è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente

“Fare il massimo con il minimo”, ci dice con un sorriso che si può solo immaginare per colpa del Covid Daniele Guidotti, musicista ed ecologista, animatore del centro del riuso di Capannori. Un centro che ha nel nome la sua mission, Daccapo, per ribadire che qui si ricomincia, qui si aprono altre strade. Un progetto che è partito dall’intuizione dell’associazione Ascolta La Mia Voce Onlus insieme alla Caritas Diocesana di Lucca, fino a coinvolgere i comuni di Lucca e Capannori, e le rispettive aziende di gestione rifiuti, Sistema Ambiente e Ascit.

Senza solidarietà non è economia circolare

Daccapo è un centro di riuso solidale dove è possibile donare gli oggetti che non servono più, farli riparare per ricollocarli su un mercato solidale, un modo intelligente per beffare la discarica e in genere lo smaltimento. Operativamente, questo progetto si appoggia a due centri di raccolta e riparazione tra Lucca e Capannori e un emporio nel quale poter prendere oggetti donando un’offerta solidale. Il rispetto per l’ambiente fa rima con solidarietà e giustizia sociale ed è vera economia circolare. All’interno del centro di raccolta di Pontetetto, frazione del Comune di Lucca, è attiva persino una sartoria, un laboratorio di falegnameria e di restauro e un’officina per riparare biciclette. Non solo recupero, pure luogo dove si insegnano e si imparano mestieri.

A Daniele l’idea è piaciuta così tanto da dare vita al progetto Gaudats, una band dove i musicisti suonano strumenti costruiti da scarti – vecchie cassette in legno, bidoni, scope o scolapasta –, come il basso tanica, il tubofono, la chitarra sdraiata, la batteria junk, strumenti inventati e unici che suonano a festa. L’economia viene dopo, prima vengono le ragioni dell’ambiente e della solidarietà, applicando scrupolosamente alla lettera l’art. 177 comma 2 del  Testo unico ambientale (il Dlgs 152/06, noto con la sigla TUA), secondo cui “la gestione dei rifiuti è sempre un’attività di interesse collettivo”.

Tanti centri per il riuso: una mappa da mettere a sistema

Di centri come Daccapo ne stanno germogliando un po’ ovunque, almeno nell’era pre-Covid, e in attesa di avere un censimento completo, in quasi tutte le Regioni si registra un discreto fermento. Metterli a sistema potrebbe incentivare forme di economia locale, sostenibile e civile in palese alternativa all’economia lineare.

Una spina dorsale di sostenibilità che piano piano, e con grande fatica, si sta comunque guadagnando il proprio posto nella gerarchia dei rifiuti, dove la prima R sta per ridurre la produzione di rifiuti, sia con il riutilizzo che con la preparazione al riutilizzo. I due concetti sono stati introdotti nell’olimpo normativo dalla famosa Direttiva Quadro (Framework Directive) 2008/98/CE, poi recepita dal nostro Testo unico ambientale  all’art. 183. La differenza tra le due figure sta tutta nel fatto che se il riutilizzo riguarda un prodotto o una componente che non è rifiuto, la preparazione per il riutilizzo riguarda un prodotto o una componente diventato rifiuto. Solo quest’ultima può essere considerata a rigore una delle forme di recupero, necessitando quindi di un’autorizzazione al trattamento ai sensi del Testo unico ambientale (Parte IV), prevedendo allo stesso tempo che siano dei decreti ministeriali a definire nei dettagli le procedure. Purtroppo, finora gli agognati decreti, la cui approvazione era attesa entro giugno 2011, non hanno visto la luce, sebbene il ministero dell’Ambiente abbia più volte fatto circolare bozze e proposte di discussione.

Intanto, sia il nuovo Dlgs 116/2020 che le prime bozze del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) su cui si sta lavorando fanno espresso riferimento a incentivi e in genere a misure economiche a sostegno della gerarchia dei rifiuti, quindi a partire dal riuso e dalla preparazione al riuso. Dallo sforzo che si dedicherà a queste misure si potrà comprendere meglio il reale interesse della classe politica a puntare, davvero, sulla leva prevenzione per una gestione pienamente virtuosa dei rifiuti.

Il ruolo dei Comuni nel quadro normativo attuale

Il citato DLgs 116/2020 – che ha recepito le direttive Ue meglio note come “Pacchetto Economia Circolare” – ha riscritto totalmente l’art. 180 del TUA affidandogli il compito di disciplinare meglio il tema della “Prevenzione della produzione dei rifiuti”. Tra gli indicatori e gli obiettivi qualitativi e quantitativi richiesti al ministero dell’Ambiente, del territorio e del mare (Mattm) per la migliore redazione del Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti compaiono (comma 2 lettera a) quelle misure atte a incoraggiare “la progettazione, la fabbricazione e l’uso di prodotti efficienti sotto il profilo delle risorse, durevoli, anche in termini di durata di vita e di assenza di obsolescenza programmata, scomponibili, riparabili, riutilizzabili e aggiornabili nonché l’utilizzo di materiali ottenuti dai rifiuti nella loro produzione”.

Anche l’articolo 181 è stato riscritto nell’intento di armonizzare meglio l’intero quadro di riferimento delle attività dirette alla preparazione per il riutilizzo, riciclaggio e recupero dei rifiuti, chiedendo a tutti gli enti territoriali competenti, dal ministero dell’Ambiente in giù, quindi sino ai singoli Comuni, di fare la propria parte, o meglio, di adottare “modalità autorizzative semplificate nonché le misure necessarie [..] per promuovere la preparazione per il riutilizzo dei rifiuti, il riciclaggio o altre operazioni di recupero, in particolare incoraggiando lo sviluppo di reti di operatori per facilitare le operazioni di preparazione per il riutilizzo e riparazione [..].” Rispetto ai centri del riuso, lo stesso art. 181 prevede che gli enti di governo d’ambito territoriale ovvero i Comuni possano individuare “appositi spazi presso i centri di raccolta […] per l’esposizione temporanea finalizzata allo scambio tra privati di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo”, prevedendo anche “apposite aree” adibite alla preparazione al riutilizzo e al riutilizzo, anche “nel quadro di operazioni di intercettazione e schemi di filiera degli operatori professionali dell’usato”, ammettendo, quindi, forme di integrazione tra i vari attori della filiera necessarie a fare rete, principalmente in un’ottica di mercato, non solo no-profit. Quanto meno sulla carta, qualche passo in avanti si può comunque registrare.

 I centri del riuso? Per ora solo un’alternativa allo smaltimento con finalità sociali

Complessivamente, i centri del riuso nell’ottica del legislatore, anche con il nuovo DLgs 116, rimangono una delle opzioni in mano al gestore della raccolta dei rifiuti urbani e continuano a essere visti sostanzialmente come un’alternativa allo smaltimento, quasi sempre supportate da iniziative di carattere sociale. Queste strutture non sono per nulla accostabili a quelle destinate alle attività di riparazione e/o rigenerazione – con opifici dotati di attrezzature e macchine –, come capita soprattutto nel caso dell’automotive o degli elettrodomestici, settori comunque ad alto valore aggiunto, dove il gioco giustifica la candela della preparazione al riutilizzo. Infatti, anche il decreto ministeriale n. 99 del 2008 (che ha provato a definire gli aspetti più operativi dei centri) prevede che “all’interno del centro di raccolta non possono essere effettuate operazioni di disassemblaggio di rifiuti ingombranti e di apparecchiature elettriche ed elettroniche”. Una limitazione che nasce da un circuito tutto interno al mondo dei rifiuti, a differenza delle fabbriche dedite alla riparazione che si muovono completamente al di fuori del TUA.

Inevitabili le falle di regolazione, che lasciano troppi spazi all’indeterminatezza, principalmente nella definizione del confine esatto tra riuso e preparazione al riuso. In realtà, il discrimine ricade in capo al detentore, il vero arbitro del destino della qualifica di rifiuto o di non rifiuto (ai sensi dell’art. 183 del TUA). Un confine molto labile e ambiguo, appunto. Per questo i centri del riuso che risiedono nella stessa area del classico centro di raccolta/isola ecologica, devono prevedere ingressi diversi e procedure diverse, una sorta di sliding doors dove si decide all’origine il destino degli oggetti.

Quasi clandestini e considerati concorrenti del riciclo

Secondo l’associazione Occhio del Riciclone, che insieme a Utilitalia ha curato il Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2018, queste attività di “preparazione” e “riutilizzo” interessano annualmente tra le 600 e le 700 mila tonnellate di rifiuti, circa il 2% della produzione nazionale, rifiuti dunque che potrebbero essere sottratti allo smaltimento. Purtroppo, al momento non è possibile distinguere i due flussi, in quanto i dati raccolti ufficialmente sono mischiati, come riporta lo stesso annuale Rapporto rifiuti urbani dell’Ispra. Secondo alcuni operatori ascoltati da EconomiaCircolare.com, questo si potrebbe spiegare con l’esigenza degli enti pubblici di non perdere flussi (riuso) imputabili al riciclo, seppure siamo a un livello ancora più alto nella piramide rovesciata dei rifiuti.

Nella realtà i centri del riuso hanno finora vissuto una forma di quasi clandestinità, tanto che non esiste ancora una formulazione unica, ma esperienze diverse, ognuna con caratteristiche proprie e uniche. Così come è completamente mancata una sinergia con il mondo profit, con il quale molto raramente hanno condiviso pezzi di percorso.

Sebbene già la legge 221 del 2015, il cosiddetto Collegato Ambientale, abbia previsto la possibilità di individuare all’interno dei centri di raccolta appositi spazi dove “beni usati e funzionanti, direttamente idonei al riutilizzo”, possano essere raccolti separatamente per “l’esposizione temporanea finalizzata allo scambio tra privati” oppure la creazione di rapporti di collaborazione con “gli operatori professionali dell’usato autorizzati dagli Enti locali e dalle aziende di igiene urbana”, il salto di qualità non si è ancora registrato.

In Emilia-Romagna il sistema migliore, ma non senza problemi

Con ogni probabilità l’Emilia-Romagna è tra le Regioni meglio organizzate su questo fronte.

La legge regionale n. 16 del 5 ottobre 2015 sull’economia circolare promuove la diffusione dei centri per il riuso, anche in sinergia con i centri di raccolta dei rifiuti, e l’organizzazione di una rete regionale di tali centri per favorire la comunicazione e il reciproco scambio di esperienze e competenze. La promozione dei centri del riuso è anche tra le misure previste nel Programma Regionale di prevenzione dei rifiuti e le Linee guida per il funzionamento dei centri comunali per il riuso, emanate in applicazione della legge regionale, demandano al Comune d’appartenenza la decisione sulle eventuali agevolazioni tariffarie in base ai quantitativi di beni usati consegnati al centro. Allo stesso tempo, aprono uno spiraglio per l’esercizio di attività prettamente economiche: infatti il Comune può provvedere alla gestione del centro del riuso direttamente attraverso le proprie strutture o mediante l’affidamento del servizio ad un soggetto esterno, organizzando il servizio secondo criteri di efficienza ed economicità.

Parafrasando i ragionamenti dell’associazione Tavolo del Riuso, due sono i problemi principali che assillano i centri:

  1. riuscire a gestire in una logica efficiente da un punto di vista economico le merci di seconda e terza scelta, cioè a un passo dall’essere inviati a smaltimento;
  2. riuscire a intercettare per tempo i flussi diretti al centro di raccolta dei rifiuti, per destinarli al riutilizzo.

Secondo le stime dell’associazione, relativamente a un centro di raccolta comunale, pur facendo un importante lavoro di intercettazione dei beni conferiti, si riesce ancora a raccogliere tra il 3% e il 5% del materiale che entra nel centro di raccolta. Dati che confermano l’esigenza (oltre che alle enormi potenzialità di crescita) di politiche mirate ad attrarre flussi più consistenti di oggetti da destinare al riuso, il più delle volte risparmiandoli allo smaltimento.

Serve uno sviluppo industriale della filiera dei centri del riuso

La mancanza di una strategia nazionale di fondo, soprattutto in un’ottica di valorizzazione economica, sarebbe secondo la Rete Onu il principale vulnus. In un recente memorandum nel quale si chiede l’emanazione dei citati e troppo a lungo attesi decreti attuativi, gli aderenti alla Rete chiariscono che per “raggiungere gli obiettivi di riuso quantitativamente rilevanti occorre perseguire lo sviluppo industriale della filiera, tenendo ben presente le economie di scala necessarie e non limitarsi alla proliferazione di inefficaci iniziative locali, come lo sono, per esempio molti centri per il riuso sviluppatisi nelle adiacenze dei Centri di raccolta, gestiti grazie a consistenti finanziamenti pubblici e con l’attività di volontari”. Sotto questo aspetto, la Rete propone, tra gli altri, che i beni o rifiuti riutilizzabili vengano intercettati presso Centri di Raccolta (con aree di intercettazione appositamente predisposte nel rispetto della normativa vigente), che non devono essere assolutamente confusi con i centri di riuso, e che siano accessibili ai conferimenti degli operatori dell’usato che conferiscono l’invenduto. Tra le altre proposte, quella affinché i beni o rifiuti riutilizzabili così intercettati e raccolti vengano portati in uno spazio adeguatamente attrezzato per classificazione, eventuale ricondizionamento, stoccaggio e distribuzione all’ingrosso, ed eventualmente al dettaglio; così come che l’accesso ai flussi di beni riutilizzabili venga garantito anche alle Reti di operatori della riparazione e del riutilizzo riconosciuti, come auspicato dalla normativa europea.

Gratuità e poco spazio alla riparazione

Come già accennato, analizzando gran parte dei Piani Regionali emerge con chiarezza che a prevalere sia l’elemento della gratuità dei Centri del riuso, seppure in molte Regioni la vendita non sia esclusa questa rimane comunque un aspetto eventuale. Non sempre, peraltro, i Centri prevedono delle aree per la riparazione (testing, riparazione e restauro – Trr), dove i beni arrivati e classificati come rifiuti dopo le operazioni di riparazione e/o di igienizzazione e controllo possono perdere tale qualifica. Naturalmente, le operazioni di Trr dovranno sempre svolgersi in aree separate rispetto a quelle destinate allo stoccaggio dei rifiuti in modo da garantirne una gestione rispettosa di tutte le prescrizioni tecniche. Il già citato Rapporto sul riuso di Occhio del Riciclone e Utilitalia propone che il Centro di riuso sia convenientemente ubicato in adiacenza al Centro di raccolta comunale o al suo interno, previa dettagliata definizione delle aree e delle modalità di tracciatura dei flussi movimentati, in modo da integrarsi al meglio con le attività di gestione dei rifiuti e minimizzare gli spostamenti della merce dal sito di intercettazione. Tuttavia, qualora ciò non fosse possibile, il Centro di riuso potrà essere ubicato anche a distanza, possibilmente ben collegato ai luoghi di intercettazione.

Le sperimentazioni dei centri del riuso nati dal Progetto Prisca

Anche la Commissione UE ha voluto puntare sui centri del riuso, finanziando il Progetto Prisca, finanziato dal programma Life+ Ambiente e incentrato sulla sperimentazione di due centri di riuso, uno a Vicenza e l’altro a San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), basati su modelli differenti e quindi con differenti implicazioni a livello autorizzativo. Nel centro di riuso di Vicenza la raccolta e il trattamento di rifiuti avvengono, previa autorizzazione, in un impianto di trattamento di rifiuti. Diversamente, a San Benedetto del Tronto, dove i beni conferiti provengono soprattutto da sistemi di raccolta domiciliari, c’è il conferimento diretto da parte degli utenti e altro materiale arriva da “aree di prevenzione” adiacenti ai Centri di raccolta. La differenza sostanziale – sotto il profilo del regime autorizzativo – consiste nel fatto che le attività di preparazione al riutilizzo, configurandosi a tutti gli effetti come operazioni di recupero di rifiuti, si devono svolgere in impianti autorizzati, mentre i centri che svolgono unicamente attività di riuso non necessitano di fare riferimento alla disciplina vigente in materia di gestione dei rifiuti.

Il centro di Vicenza, gestito dalla cooperativa “Insieme”, è diventato il più grande centro di riuso in Italia, e rappresenta anche un importante centro di formazione sui temi ambientali e un polo di aggregazione sociale. Uno dei meriti principali di questa esperienza aver avviato un dialogo con le istituzioni locali al fine di arrivare a definire le attività di “preparazione per il riutilizzo”, in una logica partecipata e costruttiva che rappresenta l’unica strada possibile per sfruttare pienamente le potenzialità economiche e sociali delle iniziative di questo tipo.

Laboratori di circolarità e di comunità

In definitiva, i centri del riuso possono diventare dei laboratori di sostenibilità applicata e di costruzione di comunità e di relazioni profonde. In questi luoghi carichi di vissuto l’economia mainstream, quella che mette al centro il profitto in uno spazio di conflittualità diffusa, non trova spazio. Non è solo una questione economica, né tanto meno ambientale. Tra gli scaffali dove le merci hanno trovato nuovo spazio si ritorna a imparare il valore delle cose, non solo il loro prezzo. In quello spazio si perde l’impersonalità delle cose, che smettono di essere anonime e standardizzate perché hanno un vissuto unico. Una chitarra Fender Telecaster usata fino all’osso vale cento volte di più rispetto a una Telecaster nuova di zecca. Questo perché gli oggetti con una storia da scoprire hanno un valore che trascende quello dei materiali e del lavoro per farlo. Questo non capita sempre, come capita sempre per una vecchia chitarra, ma capita spesso, basta allenarsi a cambiare prospettiva e re-imparare a guardare.

Il riuso è dunque una sfida da vincere perché solo con la sua consacrazione definitiva si potranno davvero cambiare i paradigmi produttivi e consumistici, orientandoli verso logiche opposte all’obsolescenza programmata. Solo un mercato dell’usato diffuso, ben regolato e competitivo potrà “costringere” l’economia a fare i conti con un’idea di prodotto che ha a che fare con la sua funzione e gode di una utilità capace di andare ben oltre il suo primo uso e il suo valore intrinseco.

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