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lunedì, Luglio 1, 2024

Inquinamento e deforestazione, i militari fanno la guerra anche all’ambiente

Dall’Afghanistan al Myanmar, dalla Palestina fino al nostro Paese, alle esercitazioni militari in Sardegna. Gli effetti sull’ambiente di guerre ed operazioni militari sono gravi e incidono su acqua, suolo, aria. Le donne provano a tracciare una strada diversa

Cristina Petrucci
Cristina Petrucci
Socia di Tuba quindi femminista e accanita lettrice. Da sempre appassionata di Medio Oriente, scrive e pensa solo dopo aver verificato sul campo

Era il 5 novembre 2001 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dichiarava il 6 novembre la Giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in guerra e nel conflitto armato. Sono passati 22 anni e di questa giornata si sa poco o niente. I conflitti aumentano sempre di più, coinvolgendo ampie aree del pianeta, così che le industrie belliche cominciano a mettere all’ordine del giorno delle proprie agende come conciliare la sostenibilità, con i grandi consumi di energia di cui l’apparato militare necessita.

Già nel 2021 il Segretario Generale della NATO, il norvegese Jens Stoltenberg, al Summit sul clima illustrava la necessità per i militari di parlare di Green Defense basata su quattro pilastri: sicurezza energetica, operazioni militari, cambiamento climatico e spese per la difesa. Le stesse lobby delle armi tedesche a febbraio dello scorso anno chiedevano all’UE di riconoscere l’industria della difesa come un “contributo positivo” alla sostenibilità sociale nell’ambito della tassonomia ESG. 

Ma ad oggi questi obiettivi sono ancora lontani dall’essere minimamente raggiunti. Le spese militari aumentano nei budget dei paesi della NATO per la maggior parte destinati all’acquisto combustibili fossili senza i quali i mezzi non possono neanche accendersi. I mezzi militari necessitano infatti di una grande quantità di energia per essere performativi e tutt’oggi il loro funzionamento si basa sull’energia prodotta da fonti combustibili altamente inquinanti, le uniche in grado di garantire il livello di potenza necessario ad un prezzo abbordabile.

Guerra, inquinamento e deforestazioni

Le guerre sempre più devastanti entrano prepotentemente nel dibattito e ribadiscono che non c’è margine di possibilità nel considerare l’industria bellica, sostenibile. Nella sola Striscia di Gaza al 5 novembre scorso, l’esercito israeliano sganciava più di 25 tonnellate di bombe. Inoltre gli impianti di trattamento delle acque reflue e le stazioni di pompaggio dell’acqua sono attualmente ferme per mancanza di corrente elettrica; le acque inquinate vengono scaricate in mare e non c’è più accesso all’acqua potabile.

Un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dall’olandese Lennard de Klerk, calcolava che, nei soli primi sette mesi del conflitto in Ucraina, le emissioni ammontavano già ad almeno l’equivalente di 100 milioni di tonnellate di CO2. Inoltre si contano 280.000 ettari di foreste bruciate o danneggiate in un anno di conflitto in Ucraina. Molti animali già uccisi, altri drasticamente ridotti per effetto dell’inquinamento o della perdita di risorse.

Ma non finisce qua, perché già nel 2007, la giornalista Marina Forti scrivendo di Afghanistan, denunciava la grave crisi ambientale a cui il paese andava incontro a causa della continua occupazione e impiego di armi. La giornalista riportava l’allarme lanciato dall’allora Ministero Afghano per l’agricoltura e l’alimentazione che denunciava che più di 25 anni di occupazione militare avevano portato il Paese a perdere oltre il 70% delle foreste. Dal 1990 al 2007, la copertura forestale totale dell’Afghanistan diminuiva di uno scioccante 38%. E la deforestazione, si sa, ha molte implicazioni sociali, ambientali ed economiche poiché porta ad una più rapida vulnerabilità del paese più soggetto a disastri naturali e povertà.

Da allora il pianeta anziché diminuire i conflitti ha aumentato i territori sotto occupazione militare o comunque in guerra o interessati da possenti esercitazioni militari. Secondo il Global Conflict Tracker attualmente si contano 27 conflitti armati, principalmente nella parte centrale del pianeta. Le zone più interessate riguardano il Medio Oriente e il Sud Est Asiatico. Sempre sul sito del Global Conflict Tracker si può trovare un interessante Paper dell’aprile del 2023, intitolato Sicurezza e instabilità climatica nella Regione del Bengala di Sarang Shidore Direttore del Global South Program del Quincy Institute for Responsible Statecraft. Il Paper ci parla di quanto i cambiamenti climatici stiano spingendo le popolazioni ad emigrare e di come questo crei conflitti e instabilità politica nell’area. Infatti per Golfo del Bengala il Paper fa riferimento alla regione che comprende l’India, la Thailandia, il Bangladesh e il Myanmar, la maggior parte governate da giunte militari che risultano essere le vere responsabili degli sfollamenti di interi gruppi di popolazione. Primi fra tutti, i musulmani Rohingya, perseguitati militarmente dal governo di Myanmar di orientamento buddista. Un milione di profughi ha abbandonato lo stato del Rakhine per riparare sulle alture circostanti a Cox’s Bazar, una cittadina in territorio bengalese.

Questa catastrofe umanitaria ha avuto forti impatti sulla situazione forestale dentro e fuori il confine. Infatti secondo il giornalista Sumon Corraya di Asia News “le famiglie Rohingya che risiedono nei campi profughi di Ukhia e Teknaf bruciano ogni giorno circa 2.250 tonnellate di legna solo per cucinare”. La deforestazione, che ad oggi ha visto scomparire 7mila ettari di foresta, contribuisce grandemente ad allagamenti e disastri. La stessa FAO sta cercando di piantare di nuovo migliaia di alberi e addirittura la Caritas, sta lavorando per distribuire bombole del gas ai rifugiati, in modo che non abbattano più gli alberi, necessari a contenere le piogge.

Il Myanmar che vede alternarsi guerre e repressione dal 1948 ha il terzo più alto tasso di deforestazione al mondo, con 546.000 ettari di perdita netta di foreste all’anno (periodo 2010-2015). Dal punto di vista climatico questo significa 335 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Quasi l’equivalente di quanto emette l’Italia (352mt) in un anno.

Leggi anche: La guerra in Ucraina e i risvolti sulle politiche ambientali

La Mezzaluna fertile non esiste più

Ma torniamo al Medio Oriente. Durante un viaggio che ho fatto nel 2014 a seguito della guerra in Siria e della nascente regione autonoma del Rojava, mi è capitato di attraversare quella che sui libri di storia chiamiamo Mesopotamia cioè la terra che si trova tra i due fiumi del Tigri e dell’Eufrate denominata anche Mezzaluna fertile, ad oggi Iraq.

Dagli anni ’90 ad oggi quella terra fertile non esiste più, essendo diventata zona di occupazione militare che ha praticamente eliminato tutta l’agricoltura a vantaggio di devastanti pozzi petroliferi. Non sta a me qui raccontare a chi legge quanto questo territorio siano ancora luogo di scontro armato. Quando nel 2014 fu proclamata la Regione del Rojava liberata dai curdi legati al PKK e applicato il Confederalismo Democratico, una delle prime azioni che fecero fu quello di spegnere i pozzi petroliferi, bonificare la zona e ripristinare l’agricoltura. Sono state prevalentemente le donne a costituirsi in cooperative, per coltivare prodotti che crescevano naturalmente su quelle terre, in modo da evitare l’uso di fertilizzanti chimici. Jin Jihad Azadi: terra, vita, libertà è ancora il motto di queste donne.

Gli ulivi secolari in Palestina

Anche la Palestina, considerata parte della Mezzaluna fertile, è sempre stata ricca di ulivi, di tanta acqua e quindi di una fiorente agricoltura. La politica sistematica di occupazione israeliana parte proprio dallo sradicamento degli ulivi: nel solo 2020 oltre 8.400 ulivi sono stati sradicati o bruciati. I primi mesi del 2021 non hanno mostrato segni di rallentamento. Infatti i militari hanno distrutto oltre 10.000 alberi forestali e circa 300 ulivi in una riserva naturale di oltre 98 acri nell’area di Ainun, nella città di Tubas, a 21 km a nord est di Nablus. Tra il 2001 e il 2012, l’esercito israeliano e i coloni hanno distrutto collettivamente almeno mezzo milione di ulivi secolari, depositari di millenni di storia.

Sembra automatico chiederci che bisogno c’è di sradicare gli alberi e soprattutto ulivi centenari. La risposta è alquanto anti ambientale, perché Israele è uno dei Paesi che più consuma il suolo per la costruzione delle colonie. Quindi deviazione di falde acquifere e sradicamento servono per portare avanti la colonizzazione dei territori palestinesi. Nel 2023 è prevista la costruzione di altre 5.700 nuove case in Cisgiordania che porterà il numero di insediamenti a superare nel solo 2023 le 13mila abitazioni, battendo il precedente record di 12.159 nuove case per coloni, fatto segnare nel 2020. 

Leggi anche: Disuguaglianze ed eventi estremi, la crisi climatica minaccia la comunità LGBTQIA+

Le esercitazioni militari in Sardegna

Anche il nostro Paese non può dirsi esente dal contribuire ad inquinare, soprattutto per l’affitto che riserva, di parte della terra della Sardegna, alle esercitazioni militari.

Da anni esiste un Gruppo ambientalista di intervento giudico che ha portato a giudizio diversi militari, riguardo alle esercitazioni nei poligoni militari di Capo Teulada e Capo Frasca (Sud Sardegna) per provare ad ottenere finalmente una sospensiva delle esercitazioni, programmate, secondo l’associazione, senza aver concluso positivamente la necessaria procedura di Valutazione di Incidenza Ambientale (V.Inc.A). Infatti le esercitazioni, soprattutto quelle a Capo Teulada avvengono in aree naturali protette per la salvaguardia dell’habitat e della fauna selvatica, per questo dovrebbero essere sottoposte alla procedura di impatto ambientale, ma questo non avviene. Come dimostrano i video a seguire, nella bellissima aree sarda vengono portate avanti da anni esercitazioni di guerra con carri armati e missili che oltre ad emettere emissioni dannose, devastano anche il territorio e l’ambiente marino.

Nel poligono militare, realizzato nel lontano 1956 mediante acquisti e, in parte, esproprio dei terreni, vengono svolte esercitazioni militari da decenni. Solo dal 2008 al 2016 nel poligono di Teulada sono stati sparati 860mila colpi, di cui 11.875 missili, per un totale di 556 tonnellate di esplosivo. Tanto che oggi l’area viene definita una zona dove non vale neanche più la pena di eseguire bonifiche.

È per questo che l’associazione vuole capire che impatto ha tutto questo sulla salute delle persone, perché al contrario di quello ambientale non è facile da dimostrare. Servono studi e accertamenti importanti.

Vedremo come andrà a finire anche perché ad oggi dopo le pressioni degli Stati Uniti, la segnalazione delle emissioni militari è stata esclusa dal protocollo di Kyoto. Nel 2015, l’accordo di Parigi ha reso volontaria la segnalazione delle emissioni militari. Pertanto, al momento nessun governo è obbligato a segnalare le proprie emissioni militari.

 Guerra, inquinamento da metalli pesanti 

Che siano utilizzati in operazioni di addestramento militare o in una zona di guerra reale, i veicoli militari rilasciano nell’aria un’enorme quantità di monossido di carbonio, idrocarburi, ossidi di azoto, anidride solforosa e CO2. Parlare di inquinamento sembra quasi un eufemismo. Nei paesaggi che sono stati sottoposti a un uso eccessivo da parte di veicoli militari pesanti, la polvere tossica è un problema reale poiché contiene metalli pesanti come cobalto, bario, arsenico, piombo e alluminio, elementi che possono causare gravi disturbi respiratori sia per il personale militare che per i residenti locali. Per non parlare dell’uranio impoverito e del fosforo bianco e dell’effetto devastante che ha sui corpi, figuriamoci sulla natura. Quando si stabiliscono sulla vita vegetale circostante, i metalli tossici azzerano la crescita, contaminano il suolo, impedendone la rigenerazione.

Un altro buon motivo per bandire le armi e destinare questi investimenti ad una politica più salutare per tutto il Pianeta.

Leggi anche: IL NOSTRO SPECIALE “PER UNA PACE SENZA ARMI”

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