Quando intervistiamo Nicola Armaroli, uno dei massimi esperti di energia in Italia, il chimico e dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche è reduce da un’audizione alla Camera dei deputati, effettuata dalle commissioni parlamentari congiunte Attività Produttive e Ambiente, in merito alla conversione in legge del decreto Energia.
Si sperava potesse essere un’occasione per un ampio confronto sulle prospettive della transizione energetica in Italia. Ma non è andata così: la sua audizione e quella di altri colleghi è durata 5 minuti. Un’occasione perduta per discutere quello che è escluso dagli ultimi provvedimenti del governo Meloni, che sembra affidarsi esclusivamente alle partecipate statali – in particolare Eni, Snam, Terna – i cui vertici dettano le linee sulle strategie nazionali. E invece la transizione energetica avrebbe bisogno di una discussione di più ampio respiro, che metta al primo posto le esigenze collettive e quelle di un pianeta che ha imboccato quello che il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres definisce “collasso climatico”.
C’è ancora tempo per cambiare rotta, a patto di volerlo davvero fare: le conoscenze e le capacità sono consolidate, le tecnologie sono convenienti e, seppure ancora in forma limitata, l’Unione europea sta mettendo in campo strumenti economici rilevanti, dal PNRR al REPower Eu fino ai recenti PIC, i 166 progetti transfrontalieri approvati a fine novembre dalla Commissione europea per realizzare il Green Deal in materia di energia e clima. Di fronte a questo scenario il nostro Paese rischia di restare indietro. Ecco perché è ancora più utile capire che anno sarà dal punto di vista energetico e su quali basi serva (ri)partire.
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Professor Armaroli, non si può non partire da un’analisi delle decisioni della Cop28. Ancora una volta, a prescindere dagli esiti, l’energia ha giocato un ruolo cruciale nelle decisioni sul clima. Lei come giudica il processo di transizione dalle fonti fossili che è stato votato a Dubai?
Va sottolineato innanzitutto che il documento finale approvato alla Cop28 non è vincolante: dovranno essere i singoli Stati a declinare in ambito legislativo nazionale gli impegni assunti. Presa di per sé, la frase sulla “transition away” è una banalità nel senso che lo sappiamo benissimo che il problema sono i combustibili fossili. Però non era mai stato scritto, per quanto possa sembrare assurdo.
Dal momento che viene riconosciuta l’origine del problema, ora sarà più difficile per i Paesi che hanno votato tale documento, cioè 197 più l’Unione europea – o almeno per i Paesi democratici dove i governanti dovrebbero rendere conto all’opinione pubblica – approvare nuove trivellazioni o nuove infrastrutture. Anche perché avviare oggi un progetto fossile vuol dire che sarà attivo nel prossimo decennio, quando la strada della riduzione delle emissioni sarà ancora più stretta. Cop28 è innegabilmente un passo avanti, ma senza le consequenziali scelte dei governi resterà un buon proposito e basta.
Dal documento finale all’art.28 quel che emerge è che le rinnovabili si accompagnano alle fossili, non le sostituiscono, e che in un certo senso le energie vanno bene tutte: dal nucleare alle rinnovabili, dalla ccs all’idrogeno. L’espressione chiave in questo senso è “basse emissioni di carbonio”. Ma siamo ancora in tempo per poterci permettere tutte le scelte o dovremmo già selezionare le più adatte a fronteggiare la crisi climatica?
Bella domanda, io penso che vada perseguita la seconda ipotesi. Il nostro problema principale è il tempo, la nostra ossessione deve essere la velocità. È comprensibile che il documento finale della Cop28 citi anche, ad esempio, l’energia nucleare, dato che 32 Paesi firmatari su 197 hanno impianti nucleari.
Ma la questione cruciale resta il tempo. Se in Italia non ci mettiamo a correre, aumentando ad esempio di 3-4 volte la velocità di installazione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili, soprattutto fotovoltaico ed eolico, non andremo lontano. Dobbiamo concentrare gli sforzi sulle tecnologie che hanno il costo più basso e la velocità di installazione più elevata. Tutto il resto va in secondo piano. In linea di principio è ragionevole essere favorevole a ogni tipo di energia decarbonizzante, ma resta il fatto che già adesso le energie più competitive e ”veloci” sono le rinnovabili.
Su Sapere Scienza lei recentemente ha scritto un editoriale dal titolo provocatorio, “Compagno petrolio”, che va contro la retorica per cui adesso le auto a benzina sarebbero le uniche che possono permettersi i poveri e dunque vanno difese. Però la questione della convenienza, almeno per l’auto, resta. O no?
Per quel che riguarda i trasporti, anche dal punto di vista economico la scelta più conveniente è già oggi quasi sempre l’elettrico. Continuare a sostenere che occorre difendere a tutti i costi l’attuale sistema è surreale. Il petrolio impatta deboli e indifesi da decenni, e l’approccio dei Paesi più ricchi è comunque da privilegiati. Detto questo, grazie petrolio per il benessere che ci ha portato, ma oggi il consumo smodato di combustibili fossili ci porta più danni che benefici e i danni della crisi climatica impattano principalmente proprio i Paesi e le popolazioni più povere. L’industria oil&gas, spesso con l’appoggio dei governi, vuole invece raccontare che il petrolio, che ancora domina nel trasporto su strada, è il difensore dei più poveri.
Anni fa si poteva sostenere che l’auto elettrica fosse l’auto dei ricchi, ma progressivamente le cose sono cambiate, soprattutto se si considera l’intera vita del mezzo. Anche per quanto riguarda l’acquisto, gli equilibri tra auto termica e auto elettrica si stanno progressivamente rovesciando: per le auto di segmento alto una elettrica (penso ad esempio a Tesla) costa già meno di un’equivalente auto tradizionale. A cascata questo si sposterà sui segmenti progressivamente più economici. Piuttosto in Italia oggi c’è il problema dell’aumento dei costi della ricarica elettrica alle colonnine.
Questo è dovuto a una serie di ragioni, non ultimo il paradosso che, a fronte di un sufficiente numero di stalli, le auto circolanti sono troppo poche, così i gestori alzano i prezzi per compensare i costi infrastrutturali. In termini di percentuale di auto elettriche vendute, l’Italia è al livello di Paesi come Romania e Bulgaria che hanno un reddito pro capite più basso del nostro. Ma davvero in Italia crediamo di essere i soli ad aver capito tutto, quando il resto dell’Europa e del mondo va in un’altra direzione? Forse l’insensata e incessante campagna mediatica condotta in questi anni nel nostro Paese contro l’auto elettrica ha raggiunto l’obiettivo.
Il tema della povertà energetica è in Italia ancora poco dibattuto. C’è perfino un osservatorio nazionale che però finora ha prodotto poco. Il Superbonus, con tutti i suoi limiti, provava ad andare in quella direzione. Si è parlato dei costi, ma nessuno dice nulla sul fatto che l’impianto ccs di Eni e Snam costerebbe 30 miliardi, in gran parte soldi pubblici. Lei che idea ha a riguardo?
Si è parlato tantissimo del Superbonus ma i bonus energetici esistono in Italia a partire dal 2007. In questo ambito, lo Stato ha ad esempio garantito, tra gli altri, il 65% di detrazione (spalmata su 10 anni) delle spese sostenute per aumentare il livello di efficienza delle abitazioni (io ad esempio ho utilizzato questo bonus per la mia casa “100% elettrica”).
Al di là degli utilizzi distorti e talvolta truffaldini che ne sono stati fatti (siamo pur sempre in Italia …) il Superbonus ha comunque garantito anche ristrutturazioni a tanti edifici di edilizia popolare, dove sono stati realizzati cappotto termico e infissi. In questo modo, anche persone che non avrebbero potuto permetterselo hanno migliorato le loro condizioni. È vero, lo Stato ha speso tantissimo e si poteva certamente fare meglio, ma i lavori di efficientamento rimangono ed è stato creato molto lavoro. Cos’è rimasto di altre misure salatissime che nel tempo sono costate decine di miliardi, come i famosi 80 euro di 10 anni fa? Di questo non si lamenta nessuno.
Appurato che il consumo di gas in Italia è diminuito – da gennaio a ottobre del 2023 del 12,4% rispetto allo stesso periodo del 2022, ed è diminuita anche la produzione nazionale di un quasi parallelo 9,6% – lei come giudica la scelta del governo di far diventare l’Italia un hub del gas? In pratica il gas che non consumiamo più, e che non è neppure “nostro” ma viene importato, dovremmo esportarlo, dato che le infrastrutture ci sono e altre se ne vorrebbero aggiungere. Non sarebbe più utile riconvertire quelle infrastrutture?
Basta una domanda per mettere in crisi questa idea: esportare gas a chi? Se pensiamo che anche in Germania i consumi di gas sono calati a causa delle grandi difficoltà dell’industria tedesca, quali sono gli altri Paesi che possono essere interessati al gas “italiano”, considerato che il gas della Norvegia basta e avanza per tutti i Paesi del Nord Europa? Per l’hub del gas vale ciò che dicevo prima: che senso ha costruire ora un’infrastruttura energetica che, se va bene, andrà a regime tra qualche anno, quando anche gli altri Paesi dovranno aver ridotto l’uso del gas, così come previsto dall’Unione europea e dai singoli governi? Fra 10 anni il progetto “Italia hub del gas” risulterà un enorme spreco di risorse umane ed economiche.
Oltre alle rinnovabili più note, fotovoltaico ed eolico, ce ne sono altre – come il solare termico e l’idroelettrico – di cui si parla sempre troppo poco. Per un Paese come l’Italia non avrebbe senso puntare anche su queste? E quali sono gli ostacoli da affrontare?
Nell’audizione in Parlamento a dicembre scorso ho fatto notare che è assurdo come un decreto sull’energia ignori totalmente il solare termico. Si continua ad usare il metano anche per riscaldare l’acqua sanitaria nei nostri edifici, uno spreco colossale. Il solare termico è una tecnologia semplicissima, poco costosa e facile da installare (lo dico per esperienza personale).
Paesi meno soleggiati come Germania e Austria, giusto per fare un paragone, hanno il doppio pro-capite di metri quadrati di solare termico rispetto all’Italia. In altri Paesi del mediterraneo come Grecia, Israele o Cipro siamo fino a 40 volte di più. Tra l’altro è una tecnologia dove dominano le industrie europee. Noi però in Italia, che abbiamo per 6-8 mesi all’anno i tetti delle case scorticati dal sole, preferiamo bruciare metano.
Un’altra direzione da privilegiare è quella delle biomasse sostenibili: l’Italia è un Paese pieno di boschi, dalle Alpi alle Appennini, spesso abbandonati e con residui che si ammassano e diventano micce e combustibile perfetti per gli incendi estivi, una piaga nazionale. Una gestione oculata delle biomasse, a filiera corta, può aiutarci anche nella gestione dell’intermittenza di sole e vento.
E poi c’è l’idroelettrico: in Italia abbiamo un sistema di pompaggi idroelettrici per lo stoccaggio oggi sottoutilizzato. Dobbiamo ammodernare le infrastrutture idriche esistenti, pianificando la costruzione di bacini per raccogliere le cosiddette “bombe d’acqua” e su quei bacini possiamo installare impianti fotovoltaici. C’è poi un importante potenziale geotermico a vario livello di profondità quasi totalmente inespresso. Le soluzioni insomma non mancano. Grandi investimenti debbono poi essere indirizzati anche sulla rete elettrica, per migliorare la trasmissione, la distribuzione e l’accumulo.
Dalla legna al carbone e poi al petrolio e ora al gas. Ogni volta il tempo per una transizione energetica è leggermente diminuito: quanto tempo ci vorrà per una reale transizione energetica alle rinnovabili?
In lezioni e seminari spesso faccio vedere un grafico in cui mostro in che modo stanno crescendo le installazioni di fotovoltaico, eolico, batterie, pompe di calore. Matematicamente, si tratta di una crescita di tipo “esponenziale”; quando entra in gioco questo andamento, cambia tutto, molto in fretta. Cosa sia una crescita esponenziale, lo abbiamo purtroppo sperimentato tutti sulla nostra pelle durante la pandemia Covid-19.
Quando l’aumento dei contagi è divenuto esponenziale, i governi hanno dovuto imporre il lockdown, altrimenti nel giro di pochi giorni i sistemi sanitari sarebbero collassati ovunque. L’aumento esponenziale delle tecnologie che ho citato prima difficilmente potrà essere fermato. Il problema però è se saremo in grado di continuare a produrre alla velocità necessaria tutto quello che ci serve (pannelli, batterie, …). Al momento l’unico Paese in grado di fare questo è la Cina.
Da chimico non sono timoroso sul fatto che manchino le risorse minerali: quelle ci sono. La vera domanda è: sapremo fabbricare i dispositivi per la transizione energetica in modo sufficientemente veloce e al tempo stesso sostenibile? Se vogliamo che la civiltà moderna sopravviva non abbiamo alternative: dobbiamo farlo.
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