È un invito a fermarsi un attimo e a ripensare le nostre società quello di Mike Berners-Lee, professore della Lancaster University nel Regno Unito, ambientalista e autore di numerose pubblicazioni. Perché il futuro della Terra non è segnato, e non hanno senso le utopie fantascientifiche di chi addirittura ipotizza viaggi spaziali per cercarne altre, come ironizza nel suo libro No Planet B. Meglio pensare al qui e ora, se vogliamo cambiare il corso degli eventi. Non è tanto una questione di tecnologia, ma di valori.
In How Bad are Bananas?, ad esempio, Berners-Lee calcola con minuziosa precisione l’impronta di carbonio di ogni nostra azione: dalla mail di lavoro alla spesa al supermercato, fino ai viaggi in aereo e la nascita di un figlio. Invitando ciascuno a fare la propria parte. Potrebbe persino essere divertente, perché ci spingerebbe a riconsiderare il modo in cui spendiamo il nostro tempo, col risultato di migliorare la qualità della vita. Del resto, che singole azioni individuali possano cambiare il mondo non suona come un’assurdità al fratello di Tim Berners-Lee, l’inventore del World Wide Web.
Professor Berners-Lee, lei in più occasioni ha affermato che le scelte individuali sono più importanti di quelle dei governi. Non crede sia un’esagerazione?
La leadership globale non è più in mano ai governi. I veri protagonisti della Cop26 non erano i politici chiusi nella “zona blu”, ma le migliaia di persone scese a manifestare per le strade di Glasgow. È grazie a loro se usciremo dall’emergenza ambientale.
Non si tratta solo di ridurre la propria impronta di carbonio con comportamenti ecologicamente responsabili come scegliere di mangiare meno carne o di viaggiare meno in aereo. Il modo in cui votiamo, per quale azienda decidiamo di lavorare e a quale dare i nostri risparmi, le conversazioni che facciamo con i parenti e con gli amici: sono altrettante azioni individuali che hanno un’influenza sull’ambiente e sulla società.
Eppure alla Cop26 le decisioni le hanno prese i singoli governi
La politica ha dimostrato solamente la propria inadeguatezza per affrontare il cambiamento. Nel Regno Unito quasi nessun politico comprende veramente cosa voglia dire “transizione ecologica”, primo tra tutti il premier Boris Johnson. La vera ragione per cui non è stato raggiunto un buon accordo sui combustibili fossili e sulle emissioni di gas serra è per l’assenza di visione degli Stati più ricchi.
L’accordo deve essere valido per tutte le nazioni del mondo, incluse quelle come l’India che hanno più di un miliardo di abitanti, sacche di povertà estrema e fanno ampio ricorso ai combustibili fossili anche per utilizzi basici dell’energia, come riscaldarsi e cucinare. È facile per noi criticare, Paesi come il Regno Unito e l’Italia hanno molte più opzioni e risorse a disposizione per avviare una transizione ecologica.
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I Paesi in via di sviluppo possono dunque continuare a inquinare?
La domanda è: possiamo noi, come società globale, imparare ad assisterci gli uni con gli altri? Dalla Cop26 è emerso che è impensabile raggiungere gli obiettivi ambientali senza prima accrescere la giustizia sociale. L’Occidente deve rinunciare a una parte della propria ricchezza ridistribuendola alle nazioni più povere, se vuole che queste lo seguano nel percorso della transizione ecologica.
Altrimenti si continuerà a buttare il cibo negli Stati Uniti e in Africa a soffrire di malnutrizione
Il Pianeta, tra le varie emergenze, ne ha una di allocazione delle risorse. Sono convinto che per alcune nazioni dell’Africa sarà per molto tempo un problema avere cibo a sufficienza, semplicemente perché non hanno strumenti per produrlo e risorse finanziarie per acquistarlo. E, come se non bastasse, l’alto tasso di crescita della popolazione acuirà le difficoltà nel medio periodo.
Due aspetti potrebbero aiutare l’Africa: senza dubbio rallentare il tasso di crescita della popolazione. E poi intervenire sulla giustizia sociale. Anche in quel continente ci sono regioni più ricche, penso al Sudafrica, che potrebbero ridurre il consumo di carne dalla dieta e permettere che questa vada alle nazioni vicine più povere.
C’è, però, un altro pericolo. Anche un’eccessiva industrializzazione può essere dannosa per l’Africa. Molti villaggi lungo la costa oceanica sopravvivono esclusivamente grazie alla pesca. Inserire meccanismi capitalistici non farebbe altro che aggravare la situazione. Dove questo sta già accadendo, il pesce, invece di finire sulle tavole degli abitanti del luogo, viene esportato nel più remunerativo mercato britannico, che potrebbe benissimo farne a meno.
Non sarà facile indurre l’Occidente a rinunciare a parte della sua ricchezza, visto che anche qui il Pil ha smesso di crescere o cresce troppo poco.
Non mi interessa cosa accade al Pil. Questa misura è solo un’astrazione umana, è la cosa più sbagliata a cui dobbiamo guardare. Il Regno Unito e gli Stati Uniti resterebbero ugualmente ottime società in cui vivere anche se riducessimo di molto la ricchezza nazionale. Certo, a patto poi di ridistribuirla all’interno, altrimenti si presenterebbero gli ostacoli che incontriamo con le nazioni povere del mondo. Il discorso vale in parte anche per l’Italia, sebbene da voi in confronto la sperequazione sociale è meno marcata.
A quali parametri dovremmo guardare nel futuro secondo lei?
Alle statistiche sulla salute del Pianeta e della nostra specie, dalle emissioni di carbonio all’aspettativa di vita e a ogni altro aspetto correlato: biodiversità, inquinamento, salute, disponibilità e assunzione di sostanze nutritive. Abbiamo anche bisogno di migliori parametri per misurare il benessere, considerando ad esempio la salute fisica e mentale. Bob Kennedy a metà degli anni Sessanta disse: “Il Pil misura tutto tranne ciò che è veramente importante nella vita delle persone”.
L’idea di crescere a tutti i costi è pericolosa? In No Planet B è impressionante l’infografica in cui vediamo l’intero globo coperto da pannelli solari.
È un concetto chiave che ancora molti faticano a comprendere. Le fonti di energia rinnovabili non ci aiuteranno se continuiamo ad aumentare esponenzialmente la nostra domanda di energia. Dobbiamo ridurre il consumo di energia: altrimenti, con i tassi di crescita attuali, entro i prossimi due secoli ci servirebbe l’energia prodotta da una quantità di pannelli solari in grado di coprire l’intera superficie terrestre.
Questo non significa smettere di investire nelle fonti rinnovabili, che tra l’altro costano meno e sono sempre più efficienti, ma anche di pensare a una società – e lo stesso discorso vale per i Paesi in via di sviluppo – dove produciamo e consumiamo di meno, acquistiamo beni di maggior qualità e che sono stati prodotti in maniera sostenibile. E quando si rompono li aggiustiamo o li ricicliamo.
L’economia circolare, peraltro, ha il vantaggio di essere una soluzione che porta benefici sia all’ambiente sia all’economia. Oltre a ridurre le emissioni di carbonio, aiuta ad accorciare la catena di distribuzione e difende da shock di mercato, come ad esempio il Covid-19. Soprattutto, poiché i soldi che spendiamo per riparare gli oggetti restano nel tessuto sociale locale, favorisce comunità più connesse e solidali e crea lavoratori più qualificati.
Passando dall’economia reale a quella finanziaria, è convinto che la “finanza sostenibile” sia in grado di conciliare le esigenze del mercato con quelle sociali e ambientali?
Già oggi, più che dalla politica, esempi positivi di leadership sulle tematiche ambientali arrivano dal mondo produttivo, sebbene si tratti ancora di casi isolati. Sperare, però, che il mercato da solo vada in questa direzione è un’illusione e perciò servono interventi normativi. Quindi ogni azione per incoraggiare una finanza più sostenibile è indubbiamente positiva e necessaria.
Tuttavia, bisogna prestare molta attenzione ai criteri che individuiamo. Alcuni esperti hanno esaminato quanto il Regno Unito sta facendo in materia e hanno ritenuto che i criteri non siano affatto adatti per capire realmente se un’azienda o un fondo di investimento è sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. C’è bisogno di andare più in profondità perché è estremamente semplice per una società nascondere dalla superficie alcune informazioni “scomode”.
Non penso però che la regolamentazione sia sufficiente. Abbiamo bisogno anche di un salto in avanti dal punto di vista culturale: capire che essere sostenibili è la cosa giusta da fare. Esistono già regole all’interno delle organizzazioni su quali comportamenti sono accettabili e quali no: ad esempio, non si possono utilizzare espressioni razziste, omofobe o sessiste. E non soltanto perché è vietato, ma perché sono ritenute culturalmente inaccettabili. Lo stesso dovrebbe valere per la difesa dell’ambiente e la responsabilità sociale: non rispettarle dovrebbe diventare socialmente inaccettabile.
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Tornando all’aspetto normativo, anche nell’Unione europea le cose non sembrano andare diversamente dal Regno Unito, come dimostra il dibattito su gas fossile e nucleare.
Il gas fossile è una pessima fonte di energia per l’ambiente e andrebbe eliminato al più presto. Quantomeno, non può essere definito “green”. La questione del nucleare è più complessa. Sono scettico anche sull’atomo, perché ci vuole un grande sforzo di immaginazione per affermare che non sia una tecnologia rischiosa e con il prezzo delle rinnovabili in diminuzione e i passi in avanti della tecnologia a idrogeno non mi appare come la soluzione migliore. Tuttavia siamo in una situazione di emergenza e potremmo non essere nelle condizioni di affidarci esclusivamente alle soluzioni migliori.
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