Se fosse una canzone, potrebbe essere “Esisto anche io”, immortale canzone scritta da Piero Ciampi per Nada. Soltanto che questa volta l’eterno ritorno del nucleare, tra le più discusse fonti energetiche, appare per l’Italia molto più concreto. L’Europa sembra pronta a inserirlo tra le attività sostenibili (è la partita della tassonomia, che dovrebbe concludersi in questi giorni) mentre in Italia da un anno il ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolani ne ha fatto un proprio vessillo.
Allo stesso tempo i tifosi del nucleare si sono fatti sempre più accesi, premendo sui partiti politici, come dimostra la recente presa di posizione filo-nuclearista della Lega, affinché si torni a ridiscutere la necessità di questa forma energetica, pur bocciata due volte dalla popolazione attraverso due storici referendum del 1987 e del 2011.
Come Economiacircolare.com abbiamo scelto anche noi di inserirci nel dibattito. Lo abbiamo fatto, però, in un mondo un po’ insolito: abbiamo scelto di sottoporre le tesi pro-nucleare (ovviamente verificandole) a chi invece si batte da decenni contro l’eterno ritorno, per stimolare una riflessione basata sui dati e sulle opportunità.
Per questa occasione abbiamo scelto di rivolgersi a Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia. Onufrio, d’altra parte, non è solo dal 2009 il direttore italiano di una delle più note e apprezzate ong ambientaliste a livello mondiale; è anche un fisico di formazione, per anni ricercatore in campo ambientale ed energetico presso enti pubblici e privati. Ecco le sue osservazioni.
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Se l’obiettivo è la decarbonizzazione, perché non spingere sul nucleare che non emette gas serra? È uno dei tasti su cui batte di più il ministro Cingolani.
Al di là dei rischi e delle questioni irrisolte associate a questa fonte, e al non marginale dettaglio che l’Italia ha già bocciato questa tecnologia con due referendum, il nucleare non è in alcun modo una soluzione: da 20 anni non si riescono a costruire nuovi impianti né in Francia né negli Usa. E quelli in costruzione hanno costi da quattro a sei volte il previsto, come il reattore EPR a Flamanville, ancora in costruzione dal 2006, che da 3,3 miliardi è stimato oggi a 19,4 miliardi dalla Corte dei Conti francese e proprio in questi giorni è stato annunciato un ulteriore ritardo e aumento dei costi. Nel settore nucleare non vedo alcuna innovazione che consenta di ridurre i costi. L’idea di ridurli con i piccoli reattori modulari è contro intuitiva: da mezzo secolo tutto lo sforzo dell’industria nucleare per ridurre i costi con l’economia di scala ha portato a reattori più grandi. Qualche reattore piccolo e modulare si farà, ma per applicazioni militari come i sommergibili: in questo campo i costi non contano molto com’è noto.
Il recente salasso delle bollette di luce e gas, mitigato dal governo, non conferma la necessità di un’indipendenza energetica dell’Italia? E il nucleare non potrebbe essere il più prezioso alleato in questo senso?
È un ritornello stucchevole che non ha alcun fondamento nella realtà. Se gli italiani nel 2011 non avessero, saggiamente, bocciato per la seconda volta il nucleare, l’Italia avrebbe rilanciato questa fonte in base al memorandum Berlusconi-Sarkozy del 2008 che prevedeva la costruzione di 4 EPR. Avremmo avuto 4 “buchi finanziari” da almeno 19,4 miliardi (ammesso e non concesso di non far peggio dei francesi a Flamanville) senza aver mai prodotto un solo kilowattora. Si tratterebbe, per intenderci, di una cifra superiore alla quota a fondo perduto che avremo dal Recovery Plan. A cambiare un po’ il quadro energetico sono state invece le rinnovabili che con il breve boom del 2010-13 in pochi anni hanno aggiunto 50 TWh all’anno sulla rete, una quantità di energia pari se non superiore a quella dei 4 fantomatici EPR. La breve fase di crescita delle rinnovabili fu poi bloccata con la reazione furibonda dei settori fossili: in un contesto di stagnazione dei consumi la crescita delle rinnovabili aveva infatti eroso la quota di mercato coperta dal gas oltre che dal carbone. Il più prezioso alleato contro il clima e il caro bollette sono le rinnovabili ma l’impegno del settore fossile nelle rinnovabili è tuttora ridicolo: per questo vedo una alleanza di settori italiani fossili con gli interessi francesi sul nucleare, per avere in cambio anche il gas in tassonomia.
Finora la discussione italiana per quel che riguarda il deposito delle scorie nucleari non ha visto un solo Comune pronto a farsene carico: è un elemento di cui tener conto in vista di un possibile ritorno al nucleare o è dettata da una paura atavica del nostro Paese verso questa forma di energia?
La localizzazione del deposito non sarà facile perché si tratta di vincolare un’area per un periodo di circa tre secoli. Per di più – e questa è la nostra critica alla strategia attuale – il deposito rappresenta una “soluzione” per solo il 10% dell’inventario radioattivo, essendo il 90% costituito da rifiuti che andrebbero in un deposito geologico profondo e che verrebbero ospitate “temporaneamente” (50-70 anni) nel deposito di superficie. Del resto, la questione della gestione a lungo termine delle scorie nucleari più pericolose non l’hanno risolta nemmeno gli Stati Uniti che hanno in assoluto la quantità maggiore di rifiuti nucleari. Dopo il fallimento del progetto di deposito geologico di Yucca Mountain nel 2012, in attesa di trovare un altro sito geologico, le scorie più pericolose verranno stoccate indefinitamente presso le centrali che li hanno generati, anche dopo che queste saranno disattivate.
Recentemente persino il miliardario/filantropo Bill Gates ha annunciato, attraverso la società TerraPower, di aver individuato la sede del primo reattore dimostrativo sviluppato con la tecnologia proprietaria Natrium (sviluppata insieme con Hitachi). Non è un’innovazione di cui tener conto?
Il tipo di reattore che stanno sviluppando – raffreddato con il sodio – ha dei precedenti clamorosi fallimenti come il progetto franco-italo-tedesco Superphenix, chiuso negli anni ’90, cui gli italiani hanno immolato circa 5 mila miliardi di vecchie lire. È stato uno dei maggiori fallimenti industriali della storia. I francesi proseguirono poi da soli con il progetto Astrid, poi sospeso nel 2019 e rinviato “alla seconda parte del secolo”. Il progetto giapponese Monju di reattore autofertilizzante raffreddato al sodio fu abbandonato nel 2016 dopo aver bruciato circa 9 miliardi di dollari. Bill Gates ha l’ambizione di essere più bravo di francesi e giapponesi messi assieme e, evidentemente, ha soldi e tempo da perdere.
Più in generale si parla tanto, ancora una volta in prima fila c’è il ministro Cingolani, di reattori di IV generazione che sarebbero più sicuri e produrrebbero meno scorie. Possiamo contare su questa tecnologia per la transizione ecologica in corso?
Per il nucleare di IV generazione – quello cui si riferisce Cingolani – da 20 anni si investe in ricerca e sviluppo senza al momento risultati significativi (e molte linee di ricerca sono state già abbandonate). Per la fusione siamo ancora ben più lontani: il solo citarla nel dibattito sulla transizione è assimilabile a un falso ideologico.
La nuova generazione del nucleare avrà bisogno di meno risorse idriche: ciò significa che potrebbe essere più compatibile con un territorio a rischio sismico e idrogeologico come il nostro?
Non capisco cosa c’entrino le risorse idriche con il rischio sismico. Ribadisco, parlare di IV generazione non ha alcun senso per la transizione. E non credo avrà mai senso: i costi delle rinnovabili e degli accumuli sono in continua discesa, quelli del nucleare attuale (quindi tecnologie già provate e commercializzate) sono in continua salita.
I rifiuti delle centrali nucleari sono radioattivi ma sono volumetricamente molto molto pochi. È davvero questo un buon motivo per non scegliere il nucleare?
Infatti la questione non riguarda tanto i volumi ma la pericolosità delle scorie che esiste a lungo termine. Secondo le linee guida IAEA (International Atomic Energy Agency, ndr), i rifiuti ad alta attività e a lunga vita vanno isolati dalla biosfera per diecimila anni e nessuno ha mai dimostrato come si può fare in concreto. Stiamo scaricando alle generazioni future una rogna per la quale verremo maledetti dai nostri discendenti per l’eredità velenosa che lasciamo, eredità da cui loro non avranno avuto alcun beneficio ma solo costi e rischi.
Le rinnovabili richiedono suolo: per ottenere la stessa energia di un reattore EPR servono 100 kmq di solare fotovoltaico, dicono i fautori dell’atomo. Abbiamo abbastanza terreni, in Italia e in Europa, per soppiantare le fonti fossili?
Lo spazio necessario alla transizione non è così tanto e ci sono tante aree marginali o abbandonate che, per tecnologie come il solare, sono perfettamente utilizzabili. Peraltro, alcune tecnologie possono convivere con gli usi agricoli: per la Germania il Fraunhofer Institut ha valutato che l’agrivoltaico – produzione di solare fotovoltaico sotto le cui strutture si può coltivare – potrebbe coprire tutti i consumi elettrici attuali utilizzando solo il 4 per cento della superficie agricola. E allo stesso tempo aiutando le produzioni che vanno bene con un parziale ombreggiamento, dalla vite ai frutti di bosco, specie in un contesto di riscaldamento globale. L’Italia ha circa il 50% più sole della Germania e consumi elettrici abbastanza inferiori. La sfida industriale delle rinnovabili è legata alla modifica complessiva della rete elettrica (che è in corso) e allo sviluppo delle diverse tecnologie per gli accumuli, sfida che è già in atto con continue novità tecnologiche. Discutere di un improbabile, costoso e pericoloso ritorno al nucleare è solo un modo per perdere tempo.
Ancora sulle rinnovabili: abbiamo già visto che necessitano di parecchie materie prime. Perché allora non ricorrere al nucleare, che ha bisogno solo dell’approvvigionamento dell’uranio?
Una delle aree di produzione dell’uranio è il Kazakistan – definita “l’Arabia Saudita dell’uranio” – e già questo, con la crisi in corso, elimina ogni dubbio. E, comunque l’uranio, diversamente dal sole e dal vento, è una risorsa finita e limitata e che produce scorie che nessuno da 70 anni ha dimostrato come si possano gestire a lungo termine.
Costruire una centrale crea migliaia di posti di lavoro: in Francia 220mila persone lavorano nel settore nucleare. Le rinnovabili possono fare altrettanto?
Nel nostro scenario sviluppato per l’Italia l’occupazione diretta nel settore energetico italiano raddoppia arrivando a circa 160mila unità. Una valutazione simile a quella dello studio effettuato da Ambrosetti per Enel che parla di 100-170 mila posti di lavoro con le rinnovabili. Ricordiamo che parte dell’occupazione nucleare è di tipo militare e questo ci deve ricordare che è una tecnologia proliferativa: il caso iraniano sta là a ricordarcelo, così come le esplicite dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron. Nucleare civile e militare sono due facce della stessa medaglia: già solo per questo il nucleare non può essere una risposta a una crisi globale del clima che invece deve basarsi su tecnologie ampiamente accessibili a tutti.
Ora che il nucleare sta per entrare nella tassonomia dell’Unione europea, almeno secondo le indiscrezioni, non è opportuno cogliere la palla al balzo dei finanziamenti che potrebbero abbattere i costi di produzione?
La tassonomia al momento non è ancora stata approvata. Ad ogni modo, l’unica azienda italiana che ha centrali nucleari (all’estero) è Enel il cui amministratore delegato (Francesco Starace, ndr) ha più volte ribadito la decisione di uscire da questa tecnologia. Tutto il dibattito nucleare di queste settimane è stato una grande operazione di distrazione dai problemi veri, una propaganda di agit-prop senza alcuna base concreta, inclusi gli interventi dell’ineffabile ministro Cingolani.
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