Un po’ in sordina, all’inizio dell’anno è arrivato finalmente il tanto atteso Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC). Con il decreto n°434 del 21 dicembre 2023, reso pubblico il 2 gennaio, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha caricato sul proprio sito le oltre 900 pagine che comprendono il Piano vero e proprio e i quattro fondamentali allegati – le “metodologie sulla strategie dei piani regionali”, le “metodologie sulle strategie dei piani locali”, l’allegato sugli “impatti e le vulnerabilità” e l’allegato sul “database delle azioni” da effettuare.
Si tratta del piano e delle strategie che l’Italia intende attuare per far fronte ai rischi provocati dai cambiamenti climatici. D’altra parte il 2023 da poco trascorso si è confermato come l’anno più caldo dal 1850, cioè da quando la scienza è in grado di stimare delle rilevazioni annuali. A effettuare l’ultimo monitoraggio, confermando le proiezioni dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, è stato Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra.
A tale elemento di preoccupazione va aggiunto, come fa il Piano, che “l’Italia si trova nel cosiddetto hotspot mediterraneo, un’area identificata come particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici. Il territorio nazionale è, inoltre, notoriamente soggetto ai rischi naturali (fenomeni di dissesto, alluvioni, erosione delle coste, carenza idrica) e già oggi è evidente come l’aumento delle temperature e l’intensificarsi di eventi estremi connessi ai cambiamenti climatici (siccità, ondate di caldo, venti, piogge intense, ecc.) amplifichino tali rischi i cui impatti economici, sociali e ambientali sono destinati ad aumentare nei prossimi decenni”.
Ecco perché è fondamentale analizzare cosa contiene il Piano. Ma prima va fatto un passo indietro, per raccontarne la lunga genesi.
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Sei governi per un adattamento
“I primi passi a livello nazionale sono stati compiuti nel 2015” ricorda il PNIACC, “quando è stata adottata la Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (SNAC), che ha analizzato lo stato delle conoscenze scientifiche sugli impatti e sulla vulnerabilità ai cambiamenti climatici per i principali settori ambientali e socioeconomici e ha presentato un insieme di proposte e criteri d’azione per affrontare le conseguenze di tali cambiamenti e ridurne gli impatti”. Da allora, però, sono passati nove anni e sei governi prima che si giungesse finalmente al Piano vero e proprio, che indicasse le azioni da eseguire e i fondi coi quali effettuarle. L’iter è stato avviato nel 2017 mentre la prima bozza del PNACC è stata prima condivisa con la Conferenza Stato-Regioni e poi è stata incardinata nella VAS, la Valutazione Ambientale Strategica. Tra i vari passaggi la fase di consultazione pubblica è stata avviata soltanto a febbraio 2023, durante la quale sono arrivati al ministero 84 documenti che hanno riguardato osservazioni e contributi da vari enti e da privati cittadini.
Nel frattempo sono state aggiornate le parti del PNACC relative alle conoscenze scientifiche e al quadro giuridico, che in questi anni si è notevolmente modificato grazie al contributo delle COP e a una rinnovata sensibilità dei governi, soprattutto grazie alle pressioni della società civile. Tuttavia va ricordato che il Piano resta un “documento di indirizzo, finalizzato a porre le basi per una pianificazione di breve e di lungo termine”. Siamo dunque ancora alla prima fase di un percorso che è ancora ben lontano dall’essere completato. Come ricorda lo stesso PNACC, infatti, a breve “si aprirà la seconda fase del percorso, gestita dalla struttura di governance, finalizzata a garantire l’immediata operatività del Piano”.
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Come fare un buon adattamento in Italia?
Vale la pena sottolineare che al di là degli aspetti generali, su cui il PNACC appare piuttosto adeguato, la questione dell’adattamento è fondamentale a livello “regionale e locale” (ma ci torneremo tra poco). Altrettanto fondamentale è definire le “vulnerabilità settoriali”, vale a dire saper distinguere tra i diversi territori – zone montane e zone costiere, ad esempio, vengono entrambe impattate dal collasso climatico ma in maniera differente, e dunque sono necessarie diverse strategie e diverse azioni – e, appunto, i diversi settori, come ad esempio il turismo, la produzione alimentare, i trasporti, il patrimonio culturale.
Per ciascuno di questi aspetti vengono definite misure ad hoc e, allo stesso tempo, si individuano misure intersettoriali. “Le diverse azioni – si legge nel PNACC – sono state assegnate alle seguenti 5 macrocategorie che ne individuano la tipologia progettuale: informazione, processi organizzativi e partecipativi, governance, adeguamento e miglioramento di impianti e infrastrutture, soluzioni basate sui servizi ecosistemici, ecosistemi fluviali, costieri e marini, riqualificazione del costruito. Ogni macrocategoria è stata dettagliata attraverso categorie specifiche”.
Inoltre, le azioni sono state suddivise in due tipologie principali: azioni di tipo A (soft) e azioni di tipo B (non soft – green o grey). “In termini generici le azioni soft sono quelle che non richiedono interventi strutturali e materiali diretti ma che sono comunque propedeutiche alla realizzazione di questi ultimi, contribuendo alla creazione di capacità di adattamento attraverso una maggiore conoscenza o lo sviluppo di un contesto organizzativo, istituzionale e legislativo favorevole. Appartengono alla tipologia soft le macrocategorie di azioni di informazione, sviluppo di processi organizzativi e partecipativi, e governance. Le azioni grey e green, invece, hanno entrambe una componente di materialità e di intervento strutturale. Le seconde, tuttavia,si differenziano nettamente dalle prime proponendo soluzioni nature based, consistenti cioè nell’utilizzo o nella gestione sostenibile di servizi naturali, inclusi quelli ecosistemici, al fine di ridurre gli impatti dei cambiamenti climatici. Le azioni grey sono quelle relative al miglioramento e adeguamento al cambiamento climatico di impianti e infrastrutture, che possono a loro
volta essere suddivise in azioni su impianti, materiali e tecnologie, o su infrastrutture o reti”.
Già, ma come finanziare queste numerose azioni da effettuare? Chi lo fa? Qui il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici conferma i suoi limiti di “strumento di indirizzo”, non sapendo, e non potendo, indicare come trovare i soldi per ogni singola misura. Tuttavia si trova qualche spunto a livello generale che si potrebbe comunque applicare. Ad esempio il PNACC suggerisce che, “come ampiamente condiviso dalla dottrina economica, un riordino della fiscalità che promuova maggiormente l’utilizzo degli strumenti fiscali ambientali produrrebbe un doppio beneficio: quello di ridurre gli impatti negativi sul clima e quello di ridurre l’impatto fiscale su altri temi, tra cui il lavoro”.
Inoltre il Piano fa notare che sull’adattamento “la maggior parte delle fonti di finanziamento sono riconducibili a fondi europei“: non proprio un buon segnale, perché in realtà anche i singoli Stati dovrebbero trovare il modo di finanziare in maniera costante, e soprattutto attraverso i principi della prevenzione e della programmazione, l’adattamento. È ormai inconcepibile pensare che lo Stato debba intervenire soltanto a danno già compiuto. Anche perché d’altra parte il mondo delle assicurazioni sempre più spesso sceglie di rinunciare di offrire una copertura nelle aree più a rischio, come abbiamo raccontato qui.
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Le prossime tappe dell’adattamento
C’è molta attesa per la data del 23 gennaio, quando il Comune di Roma presenterà la prima Strategia di adattamento climatico della città, presso la Sala della Protomoteca, a Piazza del Campidoglio. Proprio il caso della Capitale mette in risalto uno dei punti critici del PNACC nazionale. Perché se è vero che le grandi città stanno finalmente cominciando a mettere in campo risorse e competenze sul versante dell’adattamento, è altrettanto innegabile che ciò appare come praticamente impossibile per i piccoli Comuni.
E in questo senso il Piano, sia nelle strategie regionali che in quelle locali, è davvero deficitario, limitandosi a dare qualche raccomandazione che in astratto sembra funzionare ma che in concreto, con i continui tagli agli enti locali che vanno avanti da 30 anni e di cui non si vede la fine, appaiono sogni irrealizzibili. Non resta che confidare nelle tempistiche di attuazione del PNACC previste dal Mase. Entro fine marzo dovrebbe arrivare il decreto di istituzione dell’Osservatorio, composto dai rappresentanti delle Regioni e delle rappresentanze locali, per l’individuazione delle priorità territoriali e settoriali e per il monitoraggio dell’efficacia delle azioni di adattamento.
Entro fine giugno bisognerà definire le modalità, gli strumenti e i soggetti competenti per “l’introduzione di principi, misure e azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nei Piani e Programmi nazionali, regionali e locali”, con cui, quindi, fornire un primo approdo pratico e pragmatico al PNACC. Entro fine anno, invece, dovrà essere definito il “programma di ricerca su impatti, vulnerabilità e rischi in Italia“, che possa dunque essere un ulteriore strumento a supporto delle aministrazioni locali. Come riconosce, infine, lo stesso PNACC, “è fondamentale lo sviluppo di processi di monitoraggio, reporting e valutazione”. Per farlo sarà necessario”l’utilizzo di idonei indicatori selezionati in riferimento alle finalità da perseguire: indicatori di contesto, per seguire l’evoluzione dello stato di qualità ambientale interessato dagli effetti del Piano; indicatori di processo, per seguire l’avanzamento dell’attuazione delle misure del Piano; indicatori di contributo, per misurare la variazione dello stato ambientale imputabile alle misure del Piano”.
Lascia perplessi, invece, il fatto che si sia stabilito che il rapporto del monitoraggio del PNACC avrà una scadenza triennale mentre la valutazione verrà effettuata addiriturra tra sei anni. Se da una parte è comprensibile un orizzonte temporale così lungo, in modo da avere statistiche e inferenze più accurate, dall’altra la drammaticità degli effetti del collasso climatico in atto richiede tempi più stretti.
Proprio in questi giorni l’Anbi, l’associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue, ha coniato l’espressione “estate idrica invernale”, per raccontare la situazione di quasi siccità dei corsi d’acqua o dei bacini naturali, in una stagione in cui, tra neve e piogge, fino a poco tempo fa i corsi d’acqua si riempivano e servivano (anche) a fare da scorta durante le secche dell’estate. Insomma: adattarsi è una questione di sopravvivenza. Per questo serve un Piano più ambizioso, che sia adeguatamente finanziato e trasversale.
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