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venerdì, Luglio 5, 2024

Plastica in mare, tutte le soluzioni tecnologiche per recuperarla (e darle nuova vita)

In questi anni, gruppi di ricercatori e startup hanno messo in campo diverse soluzioni innovative per il recupero e il riciclo della plastica che soffoca i nostri mari. Basterà?

Antonio Carnevale
Antonio Carnevale
Nato a Roma, giornalista pubblicista dal 2012, autore radiofonico ed esperto di comunicazione e new media. Appassionato di sport, in particolare tennis e calcio, ama la musica, il cinema e le nuove tecnologie. Da qui nasce il suo impegno su StartupItalia! e Wired Italia, dove negli anni - spaziando tra startup, web, social network, piattaforme di intrattenimento digitale, robotica, nuove forme di mobilità, fintech ed economia circolare - si è occupato di analizzare i cambiamenti che le nuove tecnologie stanno portando nella nostra società e nella vita di tutti i giorni.

Ogni anno finiscono in mare 8 milioni di tonnellate di plastica. Fra non molto il peso complessivo supererà quello dei pesci. Entro il 2050, per la precisione, secondo il rapporto The New Plastics Economy di Ellen MacArthur Foundation. Sono 5 trilioni ormai i frammenti di plastiche e microplastiche con diametro inferiore ai 5 millimetri che galleggiano nei mari del Pianeta. Un problema enorme per gli ecosistemi marini e per la salute umana, visto anche che piccole particelle di plastica, ingerite dai pesci, sono ormai entrate a far parte della catena alimentare e, quindi, nel nostro organismo.

Il World Economic Forum ha messo in risalto anche un altro dato: il processo produttivo della plastica si basa sull’utilizzo di fonti fossili dunque, di questo passo, avrà un impatto ambientale significativo anche in termini di cambiamento climatico: entro il 2050 la plastica arriverà a rappresentare il 20% del consumo di petrolio. Le microplastiche poi influiscono negativamente anche sulla capacità dei microrganismi marini di assorbire anidride carbonica e rilasciare ossigeno, aggravando il problema del climate change.

Una tendenza che sarebbe necessario invertire, visto che i cambiamenti climatici sono sempre più veloci, avanzano cioè con un ritmo più elevato di quanto previsto fino a oggi. Gli obiettivi fissati dal “Piano d’azione dell’UE verso l’inquinamento zero dell’aria, dell’acqua e del suolo” richiedono una riduzione di almeno il 50% dei rifiuti di plastica in mare e di almeno il 30% delle microplastiche rilasciate nell’ambiente entro il 2030.

Trasformare la plastica in carburante: il progetto Enea

Esistono tecnologie per contrastare efficacemente questo accumulo di rifiuti di plastica dispersi nei mari e negli oceani del mondo? Un gruppo di ricercatori dell’Enea ha realizzato un interessante progetto per riconvertire oltre il 90% della plastica recuperata in mare e sulle spiagge e trasformarla in una risorsa energetica.

“Questa attività è stata realizzata nell’ambito del progetto europeo interregionale Italia-Croazia NETWAP,  NETwork of small “in situ” WAaste Prevention and management initiatives, ci spiega Riccardo Tuffi, ricercatore del Laboratorio di tecnologie per riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali, che ha realizzato la ricerca insieme ai colleghi Lorenzo Cafiero e Doina De Angelis.

Grazie al processo messo a punto dal team guidato da Riccardo Tuffi il materiale plastico di partenza viene convertito in “nuovo petrolio”. Un nuovo prodotto da utilizzare come materia prima “per la produzione di tantissimi prodotti chimici diversi, da nuovi polimeri, alle vernici, ai solventi agli intermedi di altri processi. Altri utilizzi meno nobili – continua il ricercatore – prevedono un utilizzo come combustibile”.

“Da anni applichiamo la tecnologia della pirolisi a tipologie di rifiuti in plastica diversi e con diversi catalizzatori per studiare rese e qualità dei prodotti ottenuti”, racconta Tuffi. “Il fine è riottenere la materia prima di partenza per la produzione di nuovi composti o nuove plastiche”.

Ma come funziona la pirolisi? “L’azione del calore a temperature intorno 400-600 °C in assenza di ossigeno, destruttura le catene polimeriche in molecole più piccole dando luogo a una trasformazione chimica, al contrario di quanto avviene nel riciclo meccanico, in cui la trasformazione è solo fisica ma la struttura chimica della plastica rimane inalterata. L’utilizzo di catalizzatori aiuta a facilitare questa trasformazione favorendo la formazione di molecole a più elevato valore”.

Il fine del processo è il recupero di materia. Ma con la quantità di plastica che entra nell’ambiente marino destinata a raddoppiare entro il 2024, quali risultati si potrebbero ottenere in futuro con questo sistema? “Questa tecnologia non è risolutiva ma complementare rispetto a tutta una serie di azioni che dovrebbero essere intraprese per poter gestire in modo virtuoso il problema dei rifiuti in plastica”, spiega Tuffi. “Potrebbe essere applicata al beach litter (i rifiuti abbandonati lungo le spiagge o dispersi in mare, ndr) o alla plastica recuperata dai pescatori o durante campagne di pulizia del mare. Essendo questi rifiuti in plastica caratterizzati da elevata eterogeneità e contaminazione da materiali estranei, la pirolisi può essere una tecnologia adeguata per il loro trattamento”.

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Recuperare e riciclare la plastica presente in mare

Anche riciclare le reti da pesca può contribuire alla preservazione degli oceani. Attualmente, infatti, l’industria della pesca dipende in gran parte dalla plastica. Non esiste un canale di riciclaggio per le reti da pesca che troppo spesso poi vengono abbandonate o perse nei mari, con un impatto ambientale altissimo.

La startup bretone Fil & Fab ha portato avanti in questi anni il suo progetto per il riciclo di reti da pesca usate, sostenuto dal Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca. Ogni anno, in Francia, vengono utilizzate 800 tonnellate di reti da pesca e 400 tonnellate di reti da traino: invece di incenerirle o seppellirle, Fil & Fab le trasforma in un nuovo materiale in polvere di nylon, Nylo®. Da qui si ricavano nuovi fogli di plastica, che vengono poi utilizzati per creare una serie di prodotti, dalle montature per occhiali agli orologi.

“Quando il nostro desiderio di produrre oggetti realizzati con reti da pesca usate si è scontrato con i problemi reali della raccolta di questa risorsa, – si legge sul sito ufficiale – abbiamo scelto di rispondere creando il primo settore di riciclaggio di reti da pesca in Francia”. Fil & Fab, infatti, collabora con diversi marchi per utilizzare questo materiale riciclato nel loro processo di produzione e ha creato un ecosistema di attori locali e sociali, per istituire un sistema di raccolta responsabile delle reti da pesca in Bretagna.

Ma rimuovere le plastiche dagli oceani è un obiettivo perseguito da numerosi gruppi di ricercatori e startup che, in questi anni, hanno messo in campo diverse soluzioni innovative. Molto noto è il sistema ideato dell’olandese Boyan Slat: con il suo Ocean Cleanup, è impegnato a raccogliere le plastiche che formano la Great Pacific Garbage Patch, un’isola di rifiuti enorme che si trova tra le Hawaii e la California.

Il fondatore del progetto Ocean Cleanup è anche il padre di Interceptor, un’imbarcazione lunga 24 metri, alimentata esclusivamente ad energia solare e ancora in fase di test, che aspira i rifiuti dai fondali marini. Il materiale raccolto viene distribuito equamente in sei cassonetti a bordo dell’imbarcazione, fino a completo riempimento. In Malesia, sul fiume Klang, questa speciale barca green è riuscita a ripulire circa 50 tonnellate di plastica al giorno.

Un’altra startup, anche in questo caso olandese, fondata da tre donne lavora per impedire che frammenti di plastica più o meno grandi raggiungano il mare dalle vie d’acqua terrestri. La loro Great Bubble Barrier, una semplice pompa applicata sul letto di un fiume o canale alimentata ad aria ad elevata pressione, crea una barriera di bolle sufficientemente forte da deviare il corso della plastica ma non abbastanza da infastidire i pesci o il passaggio delle navi. I rifiuti vengono così convogliati, raccolti e riciclati.

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Dalle navi “mangia rifiuti” ai cestini “raccogli plastica”

Più efficace, in realtà, è l’intervento di chiatte specializzate lungo il corso e alla foce dei fiumi. Mr. Trash Wheel, ad esempio, è una nave semi autonoma – si alimenta con la corrente del fiume e i pannelli solari – che rimuove i rifiuti alla foce del fiume Jones Falls di Baltimora, nel Maryland. I rifiuti galleggianti sono incanalati verso “la bocca” di Mr. Trash Wheel e lì vengono raccolti tramite un nastro trasportatore. Fino ad oggi ha raccolto più di 500 tonnellate di rifiuti.

Nel 2018, l’azienda danese RanMarine Technology ha creato un dispositivo chiamato WasteShark (nel video): è un drone acquatico a forma di catamarano che aspira i rifiuti galleggianti dalla superficie dell’acqua di fiumi, laghi e mari. Con un’autonomia di otto ore senza emissioni di CO2, il drone è in grado di tornare al molo per depositare i rifiuti raccolti, ricaricare autonomamente le batterie e può raccogliere 500 kg di materiale al giorno. WasteShark è supportato da un drone volante in grado di raccogliere dati durante la scansione delle acque e di segnalare in tempo reale la presenza di rifiuti.

Dall’Australia arriva invece il Seabin Project, un cestino galleggiante capace di risucchiare e raccogliere i rifiuti dalla superficie dell’acqua. Efficace soprattutto in aree di accumulo dei detriti, come i porti, Seabin raccoglie i rifiuti muovendosi in accordo con il vento e le correnti. Seabin è in grado di catturare circa 1,5 kg di detriti al giorno, comprese le microplastiche, i mozziconi di sigaretta e le microfibre da 0,3 mm.

Plastica in mare, problemi e soluzioni in Italia

Secondo le stime dell’Unep, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, ogni giorno nel Mediterraneo vengono riversate 731 tonnellate di rifiuti in plastica. Il nostro è tra i Paesi che inquinano di più, al terzo posto dopo Turchia e Spagna, con circa 90 tonnellate di plastica che ogni giorno finiscono nei mari italiani.

Qualcosa però si muove. Grazie al progetto LifeGate PlasticLess, nato nel 2018, è stato possibile introdurre i Seabin nei porti, nei fiumi e nei laghi italiani. L’obiettivo è quello di recuperare circa 23 tonnellate di plastica in un anno e riutilizzarla a scopo industriale.

In diverse Regioni d’Italia si è sviluppato poi Fishing for litter, il progetto per raccogliere la plastica in mare partito dai Paesi Bassi e poi diffusosi in tutta Europa. I protagonisti sono i pescatori. Obiettivo: sviluppare un’economia circolare e promuovere una filiera industriale della plastica attraverso il recupero e il riciclo dei rifiuti in mare. Tutto il materiale raccolto viene infatti separato in diverse frazioni. La parte plastica poi viene selezionata di nuovo per tipologia e inviata a un centro di riciclo, per valutarne la riciclabilità e ottenere nuova materia prima.

Il riciclo e il recupero di materie prime da reimmettere nel ciclo economico costituisce l’alternativa migliore allo smaltimento in discarica dei rifiuti e all’importazione di materie prime vergini, di cui il nostro Paese sconta uno storico deficit di disponibilità. Ecco perché anche la startup italiana Ogyre, sta lavorando in questa direzione.

Dodici dipendenti, 55 flotte e 80 pescatori attivi tra Italia, Brasile e Indonesia per recuperare i rifiuti plastici dagli oceani e trasformarli in indumenti e accessori utili. Con due chili di materiale è possibile realizzare un costume da bagno, con un chilo una borsa. “Contiamo sui pescatori e sulla loro attività di pesca per pulire l’oceano, dando al tempo stesso la possibilità alle persone e alle aziende di agire”, raccontano i fondatori. A tutte le aziende partner, infatti, viene assegnata una flotta e una pagina personale nel sito, alla quale accedere per avere sempre sotto controllo in tempo reale lo stato delle barche e i chili di plastica raccolti. Finora l’azienda fa sapere di aver raccolto 425.610 kg di rifiuti marini. “Stiamo lavorando per recuperare e smaltire 1.534.000 kg entro il 2024, l’equivalente di sette Colossei pieni di bottiglie di plastica”, spiegano. “Stiamo espandendo la nostra rete per raggiungere questo obiettivo”.

Purtroppo però, solo una piccola percentuale di plastica che produciamo a livello globale viene riciclata. Il 79% della plastica prodotta si trova nelle discariche e negli oceani: la quasi totalità dei rifiuti proviene dalla terraferma e raggiunge il mare prevalentemente attraverso gli scarichi urbani e i corsi d’acqua. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, l’applicazione di una reale economia circolare potrebbe ridurre dell’80% il volume di plastica rilasciato ogni anno negli oceani, generando un risparmio di 200 miliardi di dollari e una riduzione di emissioni di gas serra del 25%. Il miglior rifiuto, dunque, rimane sempre quello che non viene prodotto.

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